È passato oltre un mese e mezzo, dal 3 giugno scorso, quando in Turchia è
stato ucciso mons. Luigi Padovese, definito da mons. Ruggero Franceschini,
vescovo di Smirne, durante il rito funebre celebrato a Milano dal card.
Tettamanzi, il “pastore buono”. A distanza di così poco tempo, la notizia è
ormai scomparsa dalle pagine dei giornali di laggiù e anche le indagini sul suo
assassinio procedono con grande lentezza, ma la ferita inferta alla comunità
cristiana resta ancora aperta e sanguinante.
Mons. Padovese sapeva di vivere in un ambiente difficile e, per molti versi,
perfino ostile. Per questo aveva certamente messo in conto anche l’eventualità
del “martirio”. Del resto l’uccisione di don Andrea Santoro, il 5 febbraio 2006
era stato un chiaro segnale di allarme, che però non lo aveva spaventato. Il
buon pastore, infatti è colui che non fugge,ma dà la vita per le sue pecore,
anche se forse non avrebbe mai immaginato che ad assassinarlo sarebbe stato il
suo autista, certo Murat Altun, 26 anni, da quasi 5 anni a suo servizio.
Un semplice atto di follia frutto di una mente delirante? Un gesto di odio
contro i cristiani? Sono interrogativi che forse non avranno mai una risposta
convincente e definitiva. Ma al di là del fatto di cronaca, quello che è emerge
da questa vicenda è che essere una piccola minoranza cristiana in un paese
ufficialmente laico, ma in realtà impregnato di cultura musulmana,
l’imprevedibile può sempre accadere.
Una missione di “presenza”
L’Osservatore Romano del 3 luglio scorso ha reso pubblica una rivelatrice
intervista inedita a mons: Padovese, risalente al 2009, raccolta a Venezia da
Maria Laura Conte e Martino Diez, rispettivamente direttori della newsletter di
Oasis e della omonima fondazione internazionale. Le dichiarazioni rilasciate da
mons. Padovese (se aggiunte a quelle raccolte dal nostro collaboratore Mario
Chiaro nell’aprile del 2006 ) ci offrono un quadro molto preciso della
situazione in cui vive la piccola minoranza cristiana oggi in Turchia e i rischi
a cui essa è continuamente esposta.
Gli è stato chiesto, che cosa significa essere sacerdoti e vescovi oggi in
Turchia «È dura», ha risposto. «Non solo siamo in pochi, ma anche mal
distribuiti per forza di cose. A parte due vescovi, gli altri cinque della
Conferenza episcopale risiedono a Istanbul. E le distanze da percorrere sono
enormi. La nostra azione pastorale in Anatolia è principalmente concentrata al
sud; al nord ci sono un paio di comunità con una presenza minima di cristiani.
Eppure cerchiamo di rimanere per salvare una presenza cristiana. A Trebisonda,
dove è stato assassinato don Andrea Santoro, per esempio, vive una piccolissima
comunità, ci sono anche alcuni georgiani e ortodossi che partecipano alla
liturgia. Anche perché le nostre sono le uniche chiese rimaste aperte su tutta
la costa turca del Mar Nero».
Ma che senso ha rimanere in così pochi e soli in mezzo a una stragrande
maggioranza che pare indifferente, per non dire ostile? La risposta di mons.
Padovese è stata inequivocabile, del tutto analoga a quella che avevano dato,
per esempio, in Algeria i monaci di Thibirine, assassinati nel maggio del 1996,
dagli integralisti musulmani: la ragione è quella di «essere una presenza, una
testimonianza». In effetti «la missione è la presenza».
Una Chiesa senza riconoscimento
Nell’intervista era importante capire il retroscena della vita delle minoranze
religiose in Turchia, in particolare di quella cristiana, e il quadro generale
entro cui queste vivono, perché allora si capiscono tante cose. Gli
intervistatori infatti gli hanno chiesto dove sta propriamente la ragione che
rende così difficile la condizione delle minoranze.
«Il problema – ha risposto – è la legislazione. La Chiesa cattolica in Turchia
come minoranza di fatto, dal punto di vista legale non esiste. Dopo il trattato
di Losanna del 1923, con un'interpretazione che riteniamo arbitraria, si sono
riconosciute solo le minoranze etnico-religiose. Questo significa: ortodossi
greci, armeni, siriaci, ebrei e anche bulgari. Queste erano e sono le minoranze
riconosciute. Dato che, a differenza delle altre, la chiesa cattolica non è una
minoranza etnico-religiosa, non ha avuto alcun riconoscimento. Di fatto però i
cattolici latini erano presenti sul territorio e quindi si è arrivati a una
sorta di compromesso che ha portato al riconoscimento dei beni che esistevano
(le chiese, i collegi, le scuole, le realtà caritative e così via). Però come
minoranza non siamo stati mai riconosciuti dallo stato e non lo siamo neanche
adesso. Questo ci dà notevoli problemi, perché paradossalmente al tempo stesso
esistiamo e non esistiamo. Comunque il problema riguarda anche le minoranze
etnico-religiose riconosciute: i sacerdoti e i vescovi devono essere cittadini
turchi, ma poiché i seminari sono stati chiusi e non si possono riaprire, nasce
il problema del futuro di queste Chiese. Come potranno continuare a esistere se
non c'è un ricambio generazionale all'interno del paese? Questa legislazione sta
portando alla morte progressiva del cristianesimo. Il problema è pesante per
siriaci e armeni, ma anche per gli ortodossi. Come sapete anche il Patriarca di
Costantinopoli deve essere di nazionalità turca; viene scelto dal Sinodo fra tre
possibili candidati, ma poi chi elegge il Patriarca è il governatore di
Istanbul. In sintesi, lo stato sulla base del suo concetto di laicità – che
sarebbe da rivedere per me – mette sotto tutela la realtà di queste minoranze».
La vera “laicità” molto discutibile
Collegata con tutto questo è l’interpretazione che viene data alla cosiddetta
“laicità”, che attualmente vuol dire «controllo dello stato sulla religione».
«La laicità turca è alla base dello stato turco, ha dato una fisionomia alla
Turchia; in altre parole – e questo è merito di Atatürk – ha creato una Turchia
senza le remore del passato e quindi molto distinta dalla situazione antecedente
dove c'era anche uno strapotere religioso, un controllo della vita religiosa
sulla società, dato che il sultano era anche califfo, cioè la massima autorità
religiosa. Ecco, questa laicità era reattiva rispetto alla situazione
precedente. L'ideale per Atatürk sarebbe stata una laicità di tipo francese, di
netta separazione tra religione e vita pubblica ma, di fatto, la realtà non si è
evoluta in questo senso. Tale laicità è sui generis perché, in fondo,
l'orientamento sunnita nel quale si riconosce il 75 per cento dei turchi è sotto
il controllo diretto dello stato. In altre parole è stato creato un ministero
del culto e un direttore degli Affari religiosi alle dipendenze dirette del
primo ministro. E, dato che il culto è legato allo stato, tutti i capi comunità
(i muftì) sono impiegati statali e quindi vengono retribuiti dallo stato. In
questo modo lo stato controlla che sia salvaguardata la laicità e difatti questi
responsabili – è questo l'unico modello a livello internazionale – sono scelti
tra persone che abbiano a cuore la laicità dello stato e al tempo stesso
svolgano un ufficio religioso. Questa è la situazione della Turchia, dove
laicità significa controllo dello stato sulla religione».
La Turchia, come sappiamo, è un paese che aspira a entrare nella Comunità
europea. Si tratta di un passo molto importante che potrebbe avere interessanti
sviluppi. Ma attualmente vive in una situazione che mons. Padovese definisce
«molto complessa», anche per il fatto che deve tenere conto degli avversari
politici. E questa si riflette anche nel suo rapporto con le minoranze religiose
verso le quali non si nota alcuna attenzione. «Le nostre richieste – ha
dichiarato mons. Padovese – sono state tutte dimenticate e non abbiamo mai avuto
una risposta. Come Conferenza episcopale abbiamo scritto una volta al primo
ministro, poi di nuovo come presidenti delle Conferenze del sudest europeo, ma
non è mai arrivato alcun riscontro, neanche per dire che la lettera era stata
ricevuta. Siamo di fronte a una rimozione totale. Il primo ministro ha
incontrato il 15 agosto 2009 i rappresentanti delle minoranze religiose, fatta
eccezione per la Chiesa cattolica che appunto "non esiste"; ma che cosa ha
prodotto concretamente questo incontro? Forse un po' più di attenzione, ma nei
fatti concreti cosa?». A dirla in breve, «C'è un immobilismo per cui se anche
nei nostri confronti la gente è aperta – e io lo verifico di persona – poi ci si
trova dinanzi a una burocrazia che blocca tutto».
Un esempio? La chiesa di Tarso: «è una chiesa confiscata dallo stato.
Originariamente armena e poi ultimamente, fino agli anni Trenta e Quaranta,
utilizzata dagli ortodossi. Quello che abbiamo chiesto è che questo edificio,
che per noi cristiani ha un valore altamente simbolico, sia restituito al culto,
com'è avvenuto per due moschee che appartengono allo stato ed erano state
trasformate in museo. Non ci interessa la proprietà (che è dello stato), ma
poter disporre di un luogo dove i cristiani possano liberamente pregare senza
l'ipoteca di essere in un museo. Pensate che alla fine della celebrazione
dell'Anno paolino è arrivata una comunicazione del ministero del Turismo e della
Cultura e poi del direttore del museo di Tarso in cui si specificava che
l'edificio è un museo e, per poter celebrare, bisogna scrivere tre giorni prima
al direttore del museo per chiedere il permesso. Insomma c'è una chiara volontà
di dire che quello è un museo. Ecco un esempio di discriminazione, di costante
svuotamento e di sottile ostilità nei confronti della nostra presenza».
Qualche sprazzo di speranza
In una condizione del genere, non c’è da meravigliarsi se la presenza cristiana
si sia ulteriormente attutita e minacci di scomparire. «Questa situazione, ha
sottolineato mons. Padovese – è frutto dei cambiamenti avvenuti in questi anni.
Non addebito ai nostri fedeli la colpa di aver perso la consapevolezza di ciò
che significa essere cristiani, perché dopo decenni di discriminazione, anzi di
riduzione all'invisibilità, con la scomparsa dei sacerdoti, con la chiusura dei
monasteri e dei luoghi della vita consacrata, dove il popolo poteva nutrire la
propria fede? È naturale che l'esperienza di vita cristiana sia rimasta attutita
per poter almeno sopravvivere».
Ma nelle parole di mons. Padovese c’è anche uno sprazzo di speranza. Tra questi,
ha indicato l’arrivo in Turchia di tanti pellegrini durante l’anno paolino.
L’afflusso, «è stato tale da aver provocato anche presso le autorità turche una
maggiore attenzione per il turismo religioso. Abbiamo avuto più di 470 gruppi a
Tarso, un totale di circa 29.000 pellegrini, senza contare tutti gli altri
giunti singolarmente. Salvare la memoria di Paolo lì dove è nato e non esiste
niente che lo ricordi, assolutamente niente, è importante. È vitale sia per la
comunità locale, poiché la presenza continua di pellegrini cristiani dà una
certa visibilità ai cristiani, sia per i cristiani che vedendo questi luoghi
possono capire meglio le fatiche di Paolo e al tempo stesso cosa significa
essere missionari in queste terre».
Inoltre, «esistono nuovi cristiani; io ho battezzato alcuni musulmani ma dopo un
lungo cammino di catecumenato, perché questa deve essere una scelta ben matura,
una scelta di fede, e ciò esige che chi chiede di essere battezzato venga messo
alla prova. Che cioè mostri non solo lo zelo iniziale, ma anche la
perseveranza».