Al termine dell’anno sacerdotale, il 9 giugno scorso, in occasione
dell’incontro internazionale dei sacerdoti nella basilica di San Paolo fuori le
Mura, il cardinale Joachim Meisner, arcivescovo di Colonia, ha tenuto una
interessante conferenza, che qui riportiamo, sul tema della confessione, o
meglio, del sacramento della riconciliazione. Oltre a descriverne l’importanza,
ha sottolineato come per essere buoni confessori è decisivo essere insieme anche
buoni penitenti, accostandosi di frequente a ricevere la grazia del perdono. Ha
poi invitato i sacerdoti a ritornare al confessionale, perché l’essersene
allontanati per dedicarsi ad altre attività, per quanto buone, ha provocato «una
tremenda perdita di profilo interiore».
L’invito ad accostarsi al sacramento della riconciliazione riguarda però tutti.
Bisogna ricordarsi che «confessarsi è sentirsi dire che Dio ci ama». È
un’esperienza decisiva per ogni vero cammino di conversione e per custodire
intatta la fedeltà a Dio e l’autenticità della propria vocazione.
Non cercherò certo di farvi una nuova esposizione sulla teologia della penitenza
e della missione. Ma vorrei lasciarmi guidare, insieme a voi, dallo stesso
Vangelo alla conversione, per poi essere inviati dallo Spirito Santo a portare
agli uomini la Buona Novella di Cristo.
Su questo cammino, vorrei ora percorrere con voi 15 punti di riflessione.
Una Chiesa in cammino
Dobbiamo nuovamente diventare una “Chiesa in cammino verso gli uomini” (Geh-hin-Kirche),
come amava dire il mio predecessore, l’allora arcivescovo di Colonia, il
cardinale Joseph Höffner. Questo però non può accadere a comando. A ciò ci deve
muovere lo Spirito Santo.
Una delle perdite più tragiche, che la nostra Chiesa ha subito, nella seconda
metà del 20° secolo, è la perdita dello Spirito Santo nel sacramento della
riconciliazione. Per noi sacerdoti ciò ha causato una tremenda perdita di
profilo interiore. Quando dei fedeli cristiani mi chiedono: “Come possiamo
aiutare i nostri sacerdoti?”, allora sempre rispondo: “Andate a confessarvi da
loro!”. Laddove il sacerdote non è più confessore, diventa operatore sociale
religioso. Gli viene, infatti, a mancare l'esperienza del più grande successo
pastorale, quando cioè può collaborare affinché un peccatore, grazie anche al
suo aiuto, lasci il confessionale nuovamente come persona santificata. Nel
confessionale il sacerdote può gettare lo sguardo nei cuori di molte persone e
da ciò gli derivano impulsi, incoraggiamenti ed ispirazioni per la propria
sequela di Cristo.
Alle porte di Damasco, un piccolo uomo malato, san Paolo, viene gettato a terra
accecato. Nella seconda Lettera ai Corinzi, egli stesso ci parla
dell'impressione che i suoi avversari avevano della sua persona: era fisicamente
scarno e di debole retorica (cfr. 2 Cor 10,10). Alle città dell'Asia Minore e
dell'Europa, però, attraverso questo piccolo uomo malato, verrà annunciato,
negli anni a venire, il Vangelo. Le meraviglie di Dio non accadono mai sotto i
riflettori della storia mondiale. Esse si realizzano sempre in disparte;
appunto, alle porte della città, come pure nel segreto del confessionale. Questo
deve essere per tutti noi un grande conforto, per noi che abbiamo grandi
responsabilità, ma allo stesso tempo siamo consapevoli delle nostre, spesso
limitate, possibilità. Fa parte della strategia di Dio, quella di ottenere,
mediante piccole cause, effetti di grandi dimensioni.
Paolo sconfitto, alle porte di Damasco, diviene il conquistatore delle città
dell'Asia minore e dell'Europa. La sua missione è quella di radunare i chiamati
nella Chiesa, dentro la “Ecclesia” di Dio. Anche se questa – vista dal di fuori
– è soltanto una piccola e oppressa minoranza, viene sfidata dal di dentro, e
Paolo la paragona al corpo di Cristo, anzi la identifica pure con il corpo di
Cristo, che è appunto la Chiesa. Questa possibilità di “ricevere dalle mani del
Signore”, nella nostra esperienza umana, si chiama “conversione”. La Chiesa è la
Ecclesia semper reformanda, ed in essa, sia il sacerdote come il vescovo sono un
semper reformandus, che, come Paolo a Damasco, devono essere sempre di nuovo
gettati a terra da cavallo, per cadere nelle braccia di Dio misericordioso, il
quale ci invia poi nel mondo.
Occorre un cambiamento del cuore
Perciò non è sufficiente che nel nostro lavoro pastorale vogliamo apportare
correzioni solo alle strutture della nostra Chiesa, per poterla rendere di una
evidenza più attrattiva. Non basta! Ciò di cui c’è bisogno è un cambiamento del
cuore, del mio cuore. Solo un Paolo convertito ha potuto cambiare il mondo, non
già un ingegnere di strutture ecclesiastiche. Il sacerdote, attraverso il suo
essere preso nello stile di vita di Gesù, è così abitato da lui che lo stesso
Gesù, nel sacerdote, diventa percepibile dagli altri. In Giovanni 14,23,
leggiamo: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi
verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Questa non è solamente una
bella immagine! Se il cuore del sacerdote ama Dio e vive nella grazia, Dio uno e
trino viene personalmente per abitare nel cuore del sacerdote.
Certo, Dio è onnipresente. Dio abita dappertutto. Il mondo intero è come una
grande chiesa di Dio, ma il cuore del sacerdote è come un tabernacolo in chiesa.
Lì, Dio vi abita in modo tutto misterioso e particolare.
L’ostacolo è il peccato
L'ostacolo maggiore per consentire a Cristo di essere percepito, attraverso di
noi, dagli altri, è il peccato. Esso impedisce la presenza del Signore nella
nostra esistenza e, per questo, per noi non c’è niente di più necessario che la
conversione, e questa anche ai fini della missione. Si tratta, per dirlo in
sintesi, del sacramento della penitenza. Un sacerdote che non si trova, con
frequenza, sia da un lato che dall’altro della grata del confessionale subisce
danni permanenti alla sua anima e alla sua missione. Qui scorgiamo certamente
una delle cause principali della molteplice crisi in cui il sacerdozio si è
venuto a trovare negli ultimi cinquant’anni. La grazia tutta particolare del
sacerdozio è proprio quella che il sacerdote può sentirsi a “casa sua” in
entrambi i lati della grata del confessionale: come penitente e come ministro
del perdono. Quando il sacerdote si allontana dal confessionale, entra in una
grave crisi di identità. Il sacramento della penitenza è il luogo privilegiato
per l'approfondimento dell’identità del sacerdote, il quale è chiamato a far sì
che egli stesso e i credenti si stringano alla pienezza di Cristo.
Nella preghiera sacerdotale, Gesù parla ai suoi e al nostro Padre celeste di
questa identità: “Io non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca
dal maligno. Essi non sono del mondo come io non sono del mondo. Consacrali
nella verità: la tua parola è verità” (Gv 17,15-17). Nel sacramento della
penitenza si tratta di fare la verità in noi. Come è possibile che non ci piace
di guardare in faccia la verità?
Dobbiamo allora chiederci: non abbiamo ancora sperimentato la gioia di
riconoscere un errore, ammetterlo e scusarci con chi abbiamo offeso? – “Mi
leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e
contro di te" (Lc 15,18). - Non conosciamo la gioia di vedere, allora, come
l’Altro allarghi le braccia come il papà del figliol prodigo: “suo padre lo vide
venire da lontano, ebbe compassione di lui. E gli corse incontro, gli gettò le
braccia al collo e lo baciò” (Lc 15,20). Non possiamo allora immaginare la gioia
del padre, che ci ha ritrovato: “e cominciarono a far festa” (Lc 15,24)? Dal
momento che questa festa viene celebrata in cielo, ogni volta che ci
convertiamo, perché allora non ci convertiamo più frequentemente? Perché – e qui
parlo in maniera molto umana - siamo così avari con Dio e con i santi del cielo,
da lasciar loro, così raramente, la gioia di celebrare una festa per il fatto
che ci siamo lasciati stringere al cuore dal Signore, dal Padre?
Il dono più prezioso è il perdono
Spesso non amiamo questo esplicito perdono. E tuttavia Dio non si mostra mai
così tanto come Dio, come quando perdona. Dio è amore! Lui è il donarsi in
persona! Egli dà la grazia del perdono. Ma l’amore più forte è quell’amore che
supera l'ostacolo principale all'amore, cioè il peccato. La più grande grazia è
l’essere graziati (die Begnadigung), e il dono più prezioso è il darsi (die
Vergabung), è il perdono. Se non ci fossero peccatori, che avessero più bisogno
del perdono che del pane quotidiano, non potremmo proprio conoscere le
profondità del cuore divino. Il Signore lo sottolinea in modo esplicito: “Io vi
dico che anche in cielo c’è più gioia per un peccatore convertito, che per
novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7). Come mai –
domandiamoci ancora una volta – un sacramento, che evoca così grande gioia in
cielo, suscita così tanta antipatia sulla terra? Ciò è dovuto alla nostra
superbia, alla costante tendenza del nostro cuore a trincerarsi, a soddisfare se
stesso, a isolarsi, a chiudersi su di sé. Cosa preferiamo in realtà: essere
peccatori, che Dio perdona, o sembrare di essere senza peccato, vivendo cioè
nell'illusione di presumersi giusti facendo a meno della manifestazione
dell'amore di Dio? Basta davvero essere soddisfatti di se stessi? Ma cosa siamo
senza Dio? Solo l’umiltà di un bambino, come l’hanno avuta i santi, ci lascia
sopportare con letizia la disparità tra la nostra indegnità e la magnificenza di
Dio.
Confessarsi è sentirci dire che Dio ci ama
Non è lo scopo della confessione che noi, dimenticando i peccati, non pensiamo
più a Dio. Piuttosto più la confessione ci consente l'accesso a una vita dove
non si può pensare a nient’altro che a Dio. Dio ci dice nell’intimo: «La sola
ragione per cui hai peccato è perché non puoi credere che io ti amo abbastanza,
che mi stai veramente a cuore, che in me trovi la tenerezza di cui hai bisogno,
che mi rallegro del minimo gesto che mi offri, a testimonianza del tuo assenso,
per perdonarti tutto quello che mi porti nella confessione». Sapendo di un tale
perdono, di un tale amore, allora saremo come inondati di gioia e di
gratitudine, così da perdere progressivamente il desiderio del peccato e il
sacramento della riconciliazione diventerà un appuntamento fisso di gioia nella
nostra vita. Andare a confessarsi significa: rendere l’amore a Dio un po’ più
cordiale, sentirsi dire e sperimentare efficacemente, una volta di più - perché
la confessione non è incoraggiamento solo dall'esterno - che Dio ci ama;
confessarsi significa ricominciare a credere - e allo stesso tempo a scoprire -
che fino ad ora non ci siamo mai fidati abbastanza profondamente e che, per
questo, si deve chiedere perdono. Davanti a Gesù ci si sente come peccatori, ci
si scopre come peccatori, che vengono meno alle attese del Signore. Confessarsi
significa lasciarsi elevare dal Signore al suo livello divino.
Il figliol prodigo abbandona la casa paterna, perché è divenuto incredulo. Non
ha più fiducia nell'amore del Padre, che esso lo soddisfi, e, quindi, esige la
sua parte di eredità, per risolvere da solo tutto ciò che lo riguarda. Quando si
decide a ritornare e a chiedere perdono, il suo cuore è ancora morto. Crede che
non sarà più amato, che non sarà considerato più figlio. Solo per non morire di
fame, ritorna. Questa la chiamiamo contrizione imperfetta! Ma il padre era da
tanto tempo che lo aspettava. Da tanto tempo non c’è pensiero che gli dia più
gioia di quello di credere che il figlio potrebbe ritornare a casa un giorno.
Non appena lo intravvede, gli corre incontro, lo abbraccia, non gli da nemmeno
il tempo di finire la sua confessione, e chiama la servitù per farlo vestire,
nutrire e curare. Poiché gli si mostra un così grande amore, il figlio, in quel
momento, lo comincia anche a sentire, lasciandosene colmare. Un pentimento
inaspettato sopravviene in lui. Questa è la contrizione perfetta. Solo quando il
padre lo abbraccia, egli misura tutta la sua ingratitudine, la sua insolenza e
la sua ingiustizia. Solo allora ritorna veramente, ridiventa figlio, aperto e
confidente nel padre, ritrova la vita: "Tuo fratello era morto ed è tornato in
vita" (Lc 15,32), dice il padre, a tal proposito, al figlio che era rimasto a
casa.
Dio ha pazienza con tutti
Il figlio maggiore, “il giusto”, ha vissuto un simile cambiamento – così almeno
vorremmo sperare che continui la parabola. Il caso di questo figlio è però molto
più difficile.
Non si può dire che Dio ama i peccatori più dei giusti! Una madre ama il suo
bimbo malato, al quale rivolge le sue cure particolari, quanto i bambini sani,
che lascia giocare da soli, ai quali esprime il suo amore – non certo minore -,
ma in modo diverso. Fino a quando le persone si rifiutano di riconoscere e
confessare i propri peccati, fino a quando restano peccatori orgogliosi, a
questi Dio preferisce gli umili peccatori.
Con tutti ha pazienza. Anche con il figlio che è restato a casa il padre ha
pazienza. Lo prega, e gli parla con bontà: "Figlio mio, tu sei sempre con me, e
tutto ciò che è mio è tuo. Ora però dobbiamo rallegrarci e far festa" (Lc
15,31). Il perdono della insensibilità del figlio maggiore non viene qui neanche
espresso, ma è implicito. Come deve essere grande la vergogna del figlio
maggiore di fronte a una tale clemenza. Aveva previsto tutto, ma non certo
questa umile tenerezza del padre. Improvvisamente si trova disarmato, confuso,
compartecipe della gioia comune. E si chiede come avrebbe potuto pensare di
starsene di proposito in disparte, come avrebbe potuto, anche per un solo
istante, preferire di essere infelice tutto da solo, mentre tutti gli altri si
amavano e si perdonavano a vicenda. Per fortuna, il padre è lì e lo prende in
tempo. Per fortuna, il padre non è come lui! Per fortuna, il padre è molto
meglio di tutti gli altri messi insieme! Solo Dio può rimettere i peccati. Solo
Lui può compiere questo gesto di grazia, di gioia e d'abbondanza di amore. Ecco
perché il sacramento della penitenza è la fonte di permanente rinnovamento e di
rivitalizzazione della nostra esistenza sacerdotale.
Per me, perciò, la maturità spirituale di un candidato al sacerdozio, a ricevere
l’ordinazione sacerdotale, diventa evidente nel fatto che egli riceva
regolarmente - almeno nella frequenza di una volta al mese - il sacramento della
riconciliazione. Infatti è nel sacramento della penitenza che incontro il Padre
misericordioso con i doni più preziosi che ha da dare, e cioè il donarsi (Vergabung),
il perdono e il farci grazia. Ma quando qualcuno, a causa della sua mancanza di
frequenza alla confessione, di fatto dice al Padre: «Tieni per te i tuoi
preziosi doni! Io ho non bisogno di te e dei tuoi doni», allora smette di essere
figlio, perché si esclude dalla paternità di Dio, perché non vuole più ricevere
i suoi preziosi doni. E se uno non è più figlio del Padre celeste, allora non
può diventare sacerdote, perché il sacerdote attraverso il battesimo è prima di
tutto figlio del Padre e, poi, mediante l’ordinazione sacerdotale, è con Cristo
figlio con il Figlio. Solo allora potrà davvero essere fratello degli uomini.
Non siamo più presenti in confessionale!
Il passaggio dalla conversione alla missione può in primo luogo mostrarsi nel
fatto che io passo da un lato all'altro della grata del confessionale, dalla
parte del penitente a quella del confessore. La perdita del sacramento della
riconciliazione è la radice di molti mali nella vita della Chiesa e nella vita
del sacerdote. E la cosiddetta crisi del sacramento della penitenza non è solo
dovuta al fatto che la gente non viene più a confessarsi, ma che noi sacerdoti
non siamo più presenti nel confessionale. Un confessionale in cui è presente un
sacerdote, in una chiesa vuota, è il simbolo più toccante della pazienza di Dio
che attende. Così è Dio. Egli ci attende per tutta la vita.
Nei miei trentacinque anni di ministero episcopale conosco esempi struggenti di
sacerdoti presenti quotidianamente in confessionale, senza che venisse un
penitente; fino a quando, un giorno, il primo o la prima penitente, dopo mesi o
anni di attesa, si è fatto finalmente vivo. In questo modo, per così dire, si è
sbloccata la situazione. Da quel momento il confessionale ha cominciato a essere
molto frequentato. Qui il sacerdote è chiamato a mettere da parte tutti i lavori
esteriori di pianificazione della pastorale di gruppo, per calarsi nelle
necessità personali di ciascuno. E qui non ha innanzitutto da parlare ma da
ascoltare. Una ferita purulenta sul corpo può guarire solo se può sanguinare
sino alla fine. Il cuore ferito dell'uomo può guarire solamente se può
sanguinare fino in fondo, cioè fino a potersi sfogare del tutto. E ci si può
sfogare solo se c’è qualcuno che ascolta, e cioè in quella assoluta discrezione
del sacramento della riconciliazione. Per il confessore è importante prima di
tutto non di parlare, ma di ascoltare. Quanti impulsi interiori sperimenta e
riceve il sacerdote, proprio nell’amministrazione del sacramento della
confessione, che gli servono per la sua sequela di Cristo. Qui egli può
risentire e constatare quanto sono più avanti di lui, nella sequela di Cristo,
semplici fedeli cattolici, uomini, donne e bambini.
Se ci viene in gran parte a mancare questo essenziale ambito del servizio
sacerdotale, allora noi sacerdoti cadiamo facilmente in una mentalità
funzionalista o al livello di una mera tecnica pastorale. Il nostro esserci, da
entrambi i lati della grata del confessionale, ci porta, attraverso la nostra
testimonianza, a permettere che Cristo diventi percepibile per il popolo. Per
dirla chiaramente, con un esempio in negativo: chi entra in contatto con del
materiale radioattivo, diviene anche lui radioattivo. Se poi viene in contatto
con un altro, allora anche questi verrà ugualmente infettato dalla
radioattività. Ora però volgiamo l’esempio in positivo: coloro che entrano in
contatto con Cristo, diventano “Cristo-attivi”. E se, allora, il sacerdote,
essendo “Cristo-attivo”, viene in contatto con altre persone, queste saranno
certamente “contagiate” dalla sua “Cristo-attività”. Questa è la missione, così
come è stata concepita ed era presente fin dall'inizio del cristianesimo. La
gente si stringeva attorno alla persona di Gesù per toccarlo, fosse anche solo
l'orlo del suo vestito. E pure quando questo avveniva mentre lui era girato di
spalle, venivano guariti: “poiché c’era una forza che usciva da lui, che sanava
tutti” (Lc 6,19).
Perché le persone ci sfuggono?
A noi, invece, spesso le persone ci sfuggono, non cercano più la nostra
vicinanza per entrare in contatto con noi. Al contrario, come detto, ci
sfuggono. Per evitare che questo accada, dobbiamo porci la domanda: con chi
entrano in contatto quando vengono in contatto con me? Con Gesù Cristo, nel suo
sconfinato amore per l'umanità, oppure con qualche privata opinione teologica o
qualche lamentela sulla situazione della Chiesa e del mondo? Attraverso di noi,
entrano in contatto con Gesù Cristo? Se questo è il caso, allora le persone si
faranno vive. Parleranno tra di loro di un tale sacerdote. Si esprimeranno su di
lui con simili termini: "Con quello lì si può parlare. Mi capisce. Può aiutare
davvero”. Sono profondamente convinto che la gente ha una profonda nostalgia di
tali sacerdoti, nei quali possono incontrare autenticamente Cristo, che li rende
liberi da tutti i lacci, e li lega alla sua Persona.
Per poter perdonare veramente, abbiamo bisogno di tanto amore. L'unico perdono
che possiamo realmente concedere, è quello che abbiamo ricevuto da Dio. Solo se
abbiamo sperimentato il Padre misericordioso, possiamo diventare fratelli
misericordiosi per gli altri. Colui che non perdona, non ama. Colui che perdona
poco, ama poco. Chi perdona molto, ama molto. Quando lasciamo il confessionale,
che è il punto di partenza della nostra missione, sia da un lato che dall’altro
della grata, allora si vorrebbe proprio abbracciare tutti, per chieder loro
perdono e questo avviene sopratutto dopo che ci siamo confessati. Io stesso ho
sperimentato in modo così gratificante l’amore di Dio che perdona, da poter
solamente chiedere con urgenza "Accogli anche tu il suo perdono! Prendine una
parte dal mio, che ne ho ricevuto ora in sovrabbondanza. E perdonami che te lo
offro così male!".
Con la confessione si ritorna dentro lo stesso movimento dell'amore di Dio e
dell'amore fraterno, nell’unione con Dio e con la Chiesa, dal quale ci aveva
escluso il peccato. Possiamo e dobbiamo amare tutti gli uomini, se Dio ci ha
insegnato ad amare in modo nuovo. Se non fosse questo il caso, sarebbe un segno
che non ci siamo confessati bene e che, pertanto, dovremmo confessarci di nuovo.
Probabilmente il più grande padre confessore della nostra Chiesa è il santo
Curato d'Ars. Grazie a lui abbiamo l’anno sacerdotale e, quindi, il nostro
attuale incontro come sacerdoti e vescovi con il santo padre, qui a Roma. Con
questo santo parroco ho riflettuto sul mistero della santa confessione, giacché
il suo quotidiano ministero della riconciliazione, nel confessionale ad Ars, lo
ha fatto diventare un grande missionario per il mondo. Si è detto che come padre
confessore ha vinto spiritualmente la Rivoluzione francese. Ciò che mi ha
ispirato questo dialogo spirituale con Jean-Marie Vianney l’ho detto qui. Però,
mi ha ricordato ancora qualcosa di molto importante.
Amiamo tutti, perdoniamo tutti!
Amiamo tutti, perdoniamo tutti! Attenzione però in questo a non dimenticare una
persona! Esiste un essere, infatti, che ci delude e ci pesa, un essere col quale
siamo costantemente insoddisfatti. E siamo noi stessi. Spesso ne abbiamo così
abbastanza di noi. Siamo stufi della nostra mediocrità e stanchi della nostra
stessa monotonia. Viviamo in uno stato d’animo freddo e anche con un’incredibile
indifferenza a questo nostro prossimo più prossimo che Dio ci ha affidato,
affinché gli facciamo toccare il perdono divino. E questo prossimo più prossimo
siamo noi stessi. È detto, infatti, che dobbiamo amare il nostro prossimo come
noi stessi (cfr Lv 19,18). Quindi dobbiamo amare anche noi stessi, così come
cerchiamo di amare il nostro prossimo. Allora dobbiamo chiedere a Dio di
insegnarci che dobbiamo perdonare noi stessi: la rabbia del nostro orgoglio, le
delusioni della nostra ambizione. Preghiamolo che la bontà, la tenerezza, la
pazienza e la fiducia indicibile con la quale Egli ci perdona, ci conquisti a
tal punto che ci liberiamo dalla stanchezza di noi stessi, che ci accompagna
dappertutto e, spesso, neanche ci causa vergogna. Non siamo in grado di
riconoscere l’amore di Dio per noi, senza modificare anche l’opinione che
abbiamo di noi stessi, senza riconoscere a Dio stesso il diritto di amarci. Il
perdono di Dio ci riconcilia con Lui, con noi, con i nostri fratelli e sorelle e
con tutto il mondo. Ci rende autentici missionari.
Lo credete, cari fratelli? Provateci, oggi stesso!