Al termine di questo anno sacerdotale, così importante non solo per i preti
ma anche per ogni operatore pastorale – religioso/a o laico che sia – possiamo
ben dire che il sacerdozio è un dono da riscoprire continuamente nel servizio di
amore e di dedizione alla gente. Sempre e ovunque il sacerdote è chiamato a
esprimere la sua “professionalità” specifica con una pressoché totale dedizione,
che lo coinvolge sia fisicamente che emozionalmente. Alle pressanti domande dei
fedeli egli risponde con uno zelo che non è un semplice lavoro, più o meno
qualificato da competenze di aiuto, ma è una profonda condivisione della propria
vocazione, fino al dono totale di sé. Per questa sua cura e attenzione
pastorale, egli dovrebbe avere una salubre passione – fisiologica e spirituale –
per il benessere del gregge che gli è stato affidato. Eppure sappiamo che tale
zelo non lo esime dalle difficoltà, dalle tentazioni e dalle debolezze che a
volte scuotono e mettono a dura prova il suo cammino verso la santità,
soprattutto quando non riesce a dire di “no” alle tante cose da fare. È allora
che la sua fedeltà è messa alla prova da condizioni stressanti a cui spesso si
sente sottoposto, proprio quando il lavoro diventa troppo.
Di questo ne abbiamo parlato con Francis Leslie, professore e ricercatore presso
l’Università di Warwick in Gran Bretagna, studioso delle dinamiche dello stress
e del burnout presso il clero e gli operatori pastorali di diverse confessioni
religiose.
I sacerdoti dovrebbero avere uno stile di vita con cui possono riuscire a
integrare lavoro e fede. Eppure tra di loro non mancano le situazioni di
esaurimento e di stress. Com’è possibile che chi ha scelto di dedicare la sua
vita per gli altri possa logorarsi ed esaurirsi? Com’è possibile che i
sacerdoti, chiamati a essere esperti di equilibrio psico-spirituale, possano
stressarsi?
Credo che ciò che provoca realmente lo stress nel clero è la frattura, che a
volte emerge tra gli ideali teologicamente motivati che loro professano e le
costrizioni imposte dalla natura stessa del lavoro che portano avanti. Qualche
volta nelle mie ricerche mi riferisco a un senso diffuso di sovraccarico che a
volte sembra pervadere la vita dei pastori: c'è così tanto da fare, ed è
talmente tanto che… non possono fare a meno di attivarsi su tutti i fronti; il
senso del dovere nel portare avanti le tante cose è talmente forte che a volte
si contrappone agli ideali che l’individuo ha. Lo stress è la conseguenza di
questo sovraccarico, fino a quando la persona non ce la fa più. La sensazione di
frustrazione e di fallimento che ne consegue può essere molto destabilizzante
per la propria esistenza.
Tra i fenomeni che si presentano con frequenza in chi si dedica agli altri
con attenzione e con cura vi è una sindrome particolare che viene chiamata «burnout».
È un termine inglese difficile da tradurre per la sua pregnanza e che comunque
viene reso con molti equivalenti quali: bruciato, esaurito, cortocircuitato.
Il fenomeno del burnout è oggetto di attenzione e di studi anche nell’ambito del
clero. Lei stesso è da anni impegnato in progetti di ricerca sul burnout tra i
preti di diverse confessioni religiose. È una forma di disadattamento che
colpisce di preferenza proprio quelle persone che paradossalmente sono più
motivate nel lavoro che svolgono, con un interesse partecipativo ed
entusiastico, che dura sovente molto a lungo in quanto fondato su di una scelta
che è avvenuta in modo consapevole e ponderato. In che modo questa sindrome si
differenzia dallo stress? Possiamo dire che c’è un burnout tipico per chi lavora
nell’attività pastorale?
È importante distinguere tra il concetto di stress e di burnout. Secondo me, il
burnout si riferisce essenzialmente a difficoltà di tipo emozionale. Il burnout
emerge quando le persone sperimentano un livello eccessivo di emozioni negative,
che è controbilanciato da un adeguato livello di emozioni positive. Negli studi
che ho effettuato in Gran Bretagna, dove ho confrontato il livello di burnout
sperimentato dai preti cattolici e dal clero anglicano, ho trovato che i primi
differiscono da questi ultimi in due aspetti. Da una parte sperimentano livelli
più alti di emozioni positive (i preti cattolici sono infatti più soddisfatti
nel loro ministero, rispetto al clero anglicano), ma allo stesso tempo provano
livelli più alti di emozioni negative (sono cioè più esauriti dal ministero
rispetto al clero anglicano). In questo modo riescono a convivere con il carico
di emozioni negative, perché in fondo sono bilanciate da quelle positive. Ma la
parte negativa del loro mondo emotivo non scompare, sicuramente si farà sentire
nel profondo della loro psiche. Si fa sentire soprattutto quando riesce a
logorare le motivazioni della loro identità sacerdotale e la qualità del loro
ministero, minando la genuinità delle relazioni pastorali.
In alcuni suoi lavori pubblicati recentemente lei afferma che i sacerdoti
vivono contemporaneamente sia affetti positivi che negativi. In particolare in
un suo articolo del 2004, apparso sulla rivista Pastoral Psychology (dal titolo:
Burnout among roman catholic parochial clergy in England and Wales: myth or
reality?), afferma che gli affetti positivi e negativi non sono necessariamente
polarità opposte. Un prete può essere allo stesso tempo emotivamente esaurito ma
anche soddisfatto del suo ministero. Cosa significa?
L'affermazione che lei cita è un chiaro esempio di cosa intendo per affetti
positivi e negativi: vuol dire che la stessa persona può sperimentare livelli
molto alti sia di affetti positivi che negativi. In questo modo, le sue emozioni
positive possono controbilanciare quelle negative. I preti sono capaci di dire
che sono molto soddisfatti del loro ministero, e allo stesso tempo si sentono
emotivamente esauriti dal troppo lavoro. Il problema è che, quando si vuole
rilevare lo stato di salute psichica del clero nel contesto del lavoro
pastorale, si tende a distorcere l'evidenza dei fatti, parlandone solamente in
termini di affetti positivi. Ricordo, per esempio, che ne ho parlato nel corso
di una conferenza a Londra, in cui sottolineavo il rischio di un livello molto
forte di esaurimento emotivo fra il clero. Durante la conferenza avevano
suggerito all’Arcivescovo di Canterbury (George Carey) di non dar peso alle mie
affermazioni, citando i risultati di un’altra indagine, condotta fra il clero
della Chiesa di Inghilterra, in cui emergeva invece il forte senso di
soddisfazione che i pastori sperimentano nel ministero. In un certo senso, però,
sia l’arcivescovo che io avevamo entrambi ragione; solo che non eravamo riusciti
a integrare e a dare un senso alle due diverse posizioni che ciascuno aveva
presentato nella conferenza. Secondo me non è giusto che si liquidi la realtà
empirica dell'esaurimento emotivo che i ministri vivono, puntando unicamente sul
fatto che in fondo sono soddisfatti di quello che fanno. Ho intitolato uno dei
miei recenti studi “felici ma esauriti” per attirare l’attenzione su come la
felicità e il benessere non cancellano la fatica psicologica che il lavoro
pastorale comporta.
Quando nella pastorale manca un clima favorevole di reciproco sostegno e di
collaborazione, aumenta il rischio dello stress e del burnout. Infatti l’assenza
di relazioni positive nel gruppo di lavoro pastorale aggiunge un ulteriore
carico emotivo al già intenso coinvolgimento socio-emotivo con le persone, in
quanto alimenta il senso di sfiducia e di diffidenza reciproca. In questi casi
la collaborazione con i laici può aiutare a non sovraccaricarsi. Ma i sacerdoti
sono capaci di collaborare, favorendo il coinvolgimento e la
responsabilizzazione dei laici, ancor prima che l’efficienza e i risultati? O si
sentono indispensabili, al punto da dover avere una parola definitiva su ogni
cosa? Quali sono i motivi e come porre rimedio?
Il problema a cui lei si riferisce è certamente cruciale, e riguarda il futuro
stesso del ministero della Chiesa nelle diverse denominazioni. Spesso si parla
di “ministero condiviso” o di “ministero di tutto il popolo di Dio”. Se
privilegiamo questa prospettiva, il ruolo del clero sarà certamente diverso.
Invece di essere gli unici responsabili del lavoro ministeriale, i sacerdoti
sono chiamati a facilitare il coinvolgimento di tutti nel ministero. Tale
cambiamento di prospettiva deve però fare i conti con un certo numero di
difficoltà. La prima concerne la formazione del clero. Formarsi a essere guida è
ben diverso dall’abilitare altre persone a essere responsabili del loro
ministero. Il secondo problema riguarda i presupposti che sono alla base delle
competenze, delle conoscenze e dell’impegno richiesto ai fedeli, soprattutto ora
che sono chiamati ad un sempre più grande coinvolgimento nel ministero della
Chiesa. L'evidenza dei fatti mi porta a dire, però, che spesso i laici che
cerchiamo di coinvolgere non sono sufficientemente preparati, almeno non come
noi supponiamo che lo siano.
Con la prospettiva del sacerdozio comune, anche il problema del burnout si
sposta, dal lavoro stressante dei preti al lavoro ancor più stressante di dover
preparare i laici a essere responsabili del loro ministero. Condivido pienamente
la visione teologica che vede tutto il popolo di Dio coinvolto nel ministero,
grazie alla comune chiamata battesimale. E riconosco la diversità tra il
ministero di chi è laico e la specificità di un ministro ordinato. Ma la
psicologia delle organizzazioni mi porta anche a dire che, per il clero, è più
logorante far funzionare adeguatamente il ministero dei collaboratori pastorali,
che non gestire essi stessi il ministero. Infatti, aiutare l’intero popolo di
Dio a partecipare al comune ministero sacerdotale richiede di più in termini di
tempo e di capacità, che non dover portare avanti da soli quel ministero.
Lo stress insidia non solo l’attività e la funzionalità del servizio dei
sacerdoti, ma anche le motivazioni che fondano la loro identità ministeriale. In
che modo possono proteggersi?
Arrivare a proteggersi in modo adeguato dallo stress credo sia indice di
maturità personale e professionale. La protezione dalle condizioni di una vita
stressante è il risultato di un lavoro di consapevolezza. Ma non è un obiettivo
facile, perché una maggiore consapevolezza mette in crisi le dipendenze che
l’iniziale chiamata vocazionale può suscitare. La consapevolezza, per come la
vedo io, è un itinerario da fare insieme. Non è un percorso che i singoli preti
fanno individualmente. Per questo essi hanno bisogno di una crescita di fede e
di competenze pastorali che sia programmata e permanente, nonché di persone
capaci di sostenerli in modo qualificato lungo questo percorso. Questo ideale di
formazione permanente pone alla Chiesa interrogativi molto forti. Ma poiché la
Chiesa è la prima responsabile della loro preparazione, essa ha bisogno di far
fronte a tali esigenze.
Il lavoro di evangelizzazione, con le sue esigenze di radicalità carismatica,
mette in crisi le certezze personali e le sicurezze istituzionali, perché
richiede ai diversi operatori pastorali una coerenza nel loro stile di vita e
nel loro lavoro. Basta rifugiarsi dietro il ruolo per essere sicuri di non
sbagliare nel proprio ministero?
Nel lavoro di evangelizzazione ci sono due aspetti che sono molto importanti: la
visione teologica della Chiesa, e il contesto sociale dove essa opera. La così
detta società postmoderna nella quale ci troviamo ha radicalmente cambiato il
contesto nel quale si evangelizza. In tale contesto sociale è difficile che il
messaggio del Vangelo sia accettato, se è imposto in modo autoritario quasi
dall’alto. Mentre è accolto quando è accompagnato da un modo nuovo di vivere le
relazioni interpersonali, da una testimonianza credibile e da uno stile di vita
autentico. In altre parole, nella pastorale i preti non possono fermarsi solo
agli aspetti burocratici e funzionali del loro servizio, ma hanno sempre più
bisogno di sviluppare un senso di autorevolezza e di coerenza nel proprio stile
di vita personale e nella qualità delle loro relazioni pastorali. Purtroppo,
però, questa prospettiva non è certamente facilitata da come i media parlano dei
preti, soprattutto quando si divertono a denigrare l'autorità del clero.
La fede vissuta in modo superficiale diventa fattore di rischio per il burnout
nei sacerdoti?
Credo che una fede immatura, una fede che non è stata adeguatamente tradotta o
integrata nel contesto di un’esperienza di vita matura e adulta, sia
terribilmente pericolosa. Diviene una maschera, uno scudo di protezione, dietro
il quale il clero si può nascondere. La sfida del Vangelo, per come la vedo io,
obbliga invece a togliere via questa corazza e a uscire da dietro questa
maschera. Ancora una volta, però, questo comporta un percorso di crescita e di
accompagnamento, in cui i sacerdoti possono sentirsi guidati e sostenuti da
persone qualificate e propriamente formate per un lavoro di confronto e di
supervisione.