Credo che non ci sia nessuno di noi religiosi che non abbia condannato la
dissociazione etica tra pubblico e privato che in questi tempi è stata neppure
tanto larvatamente e privatamente sostenuta a parole, ma comunque largamente e
apertamente adottata nella prassi nella sfera pubblica. E la condanna è
legittima: vi è in gioco, infatti, la coerenza morale dell’esistenza, come pure
la credibilità delle leggi, delle dichiarazioni, degli interventi pubblici per
lo Stato che si governa, per i territori che si amministrano. E tutti noi
religiosi abbiamo – giustamente – avuto parole più o meno di fuoco contro il
fariseismo (rinvigoriti dal vangelo che conosciamo bene) di tanti uomini
politici e li abbiamo più o meno fortemente stigmatizzati – a seconda del colore
politico condiviso – ma li abbiamo nondimeno stigmatizzati. Tutto bene e secondo
copione: abbiamo fatto il nostro dovere.
Una domanda: ma… e noi?
Ma è soltanto la sfera politico-amministrativa che non ammette scissioni tra
pubblico e privato? Non è, per caso, che anche la vita consacrata (come tutta la
vita umana e cristiana, ovviamente) non ammetta questa dicotomia? La risposta la
diamo, convinti: certamente nessuna separazione, ma coerenza massima.
Eppure…Eppure. Abbiamo nelle prediche o durante la catechesi o presentando corsi
di esercizi spirituali (“pubblico”) parole che “sgorgano dal cuore” circa la
carità, ma non sempre vi è la carità vissuta in comunità tra i confratelli
(“privato”).
Abbiamo parole struggenti sulla necessità della preghiera (“pubblico”), ma
talvolta la preghiera è biascicata in fretta e diventa marginale nella nostra
vita (“privato”).
Abbiamo ferme e vigorose parole sulla necessità della partecipazione e
condivisione nella vita della comunità, della parrocchia, della Chiesa
(“pubblico”), ma poi, concretamente, vi è superficialità di interesse,
noncuranza della vita interna della comunità, ricerca del proprio “particolare”
(“privato”). E così via.
Ora la debolezza e l’incoerenza sono sempre possibili per noi, povere creature;
ma abbiamo la capacità, la forza (con la grazia) e l’obbligo (per la crescita
umana e spirituale) di cambiare. Ad un patto: che avvertiamo l’incoerenza,
altrimenti non ci convertiremo mai alla coerenza. Molte volte ci presentiamo
come “specialisti” della “distinzione”, quando la situazione ci tocca
personalmente, ma spesso non possiamo tollerarla negli altri: di conseguenza noi
ci perdoniamo volentieri, mentre non perdoniamo le stesse cose agli altri, ai
quali chiediamo coerenza ferrea.
La facile autoassoluzioni
Si presentano anche per noi religiosi – per la verità della nostra vita – l’
esigenza e l’opportunità (proprio partendo dal vituperato clima di “furbizia
morale”) per fare un piccolo esame di coscienza.
Non vi è nessuno di noi (attento alla vita sociale e politica almeno come alla
Tv ed allo sport) che non abbia detto, e più di una volta, in pubblico e con
voce più o meno moderatamente indignata, che alla società civile occorre
“un’anima” per ridarle vita, per rinnovarla in tanti ambiti, per “animarla”,
appunto. Eppure…spesso non pensiamo all’ “anima” di cui le nostre comunità hanno
bisogno; l’anima della fraternità, della comprensione, della corresponsabilità,
della valorizzazione, della comunicazione, della carità. È una questione di
coerenza morale ed evangelica. Siamo pronti a denunciare il “pubblico” degrado
morale, ma sorvoliamo prudentemente ed elegantemente sul degrado “privato” delle
nostre comunità, che dovrebbero essere modello ed esempio di “moralità”, senza
aggettivi.
Chi di noi – predicatori consacrati – non ha magnificato, nella predicazione
“pubblica”, la bellezza e il bisogno della sobrietà, della povertà, del
dedicarsi all’altro e non ha innalzato al cielo (come giusto) la dignità della
persona umana, sostenuti da un’antropologia radicata nella Rivelazione?
Eppure…talvolta con le persone consacrate accanto a noi (“privato”) ci
comportiamo non proprio con conoscenza (non l’abbiamo mai cercata) dei loro
bisogni, della loro psicologia, rispettandone la dignità di confratelli e –
prima ancora – di persona umana. E poi, dopo avere osannato le virtù della
sobrietà, del distacco, della povertà per il Regno, noi ci priviamo di qualche
cosa?
La nostra incoerenza si manifesta anche nella sottigliezza – che viviamo spesso
senza particolari traumi interiori – della distinzione tra universale e
particolare: parliamo volentieri e con cognizione intellettuale di “uomo”, una
dottrina tutto sommato indolore per la nostra vita. Ma questo uomo – cioè il
concreto vicino – viene dimenticato e magari tenuto lontano; nelle migliore
delle ipotesi tollerato.
E pare già di sentire – in questo decennio che la CEI ha voluto dedicare alla
formazione – dotte conferenze ( “pubblico”) sugli aspetti molteplici, raffinati,
complessi dell’educazione e della formazione a… e qui si metteranno i
destinatari: giovani, famiglie, politici, insegnanti, genitori, fidanzati, ecc.
Tutto bene e sappiamo che hanno bisogno – loro – di una formazione umana,
culturale, morale, spirituale che li aiuti a inserirsi nel multiforme mondo di
oggi. Eppure … vi è anche la formazione interna, “privata” alla vita fraterna
comunitaria. Forse a questa si pensa e si penserà molto meno. E comunque qui non
occorrono corsi pubblici (conferenze, assemblee) che lasciano più o meno il
tempo che trovano, ma corsi privati (interiori, personali), i più efficaci, se
sinceri. Distinguiamo tra l’obbligo di aggiornamento pubblico e il piacere di
ritrovare se stessi e gli altri in una ricerca personale, quotidiana, nascosta
agli occhi del mondo, ma dai risultati ben visibili nella prassi e nei rapporti
quotidiani.
Come dice il Vangelo: “Dicono” e “Non fanno”
È solo la coerenza – almeno quotidianamente cercata anche se spesso, per
debolezza, violata – che ci abilita ad essere consacrati, che ci indica come
persone non dissociate tra “pubblico” e “privato”.
La doppia personalità è presente nella vita religiosa più di quanto sembri.
D’altronde è una costante (il che non significa che non debba essere combattuta)
che già Cristo aveva visto quando diceva di ascoltare le parole dei maestri
pubblici di allora, ma di non imitarli nella loro condotta privata. “Dicono e
non fanno”. Lapidario! La verità e l’umiltà ci obbligano a sentirci coinvolti.
Chi di noi religiosi non ha bollato (“pubblico”) la mancanza di una scala di
valori nelle concezioni e nei comportamenti dei “nostri fedeli”, soprattutto di
quelli che hanno qualche responsabilità sociale, politica, formativa? Vi anche
per noi una scala di valori il più possibile oggettiva (perché data ed attinta
dal vangelo) oppure abbiamo costruito una scala personale, occasionale e
sporadica, sempre nostro uso e consumo? Magari chiediamo a gran voce – per gli
altri – la luce della conoscenza, della giusta valutazione, dell’indispensabile
discernimento, mentre noi preferiamo restare in quel nebuloso e indistinto –
oltre che comodo – clima di correttezza che non ci coinvolge e non disturba più
di tanto la vita.
Chi di noi non ha spiegato alla gente (“pubblico”) che Cristo è venuto “per
servire e non per essere servito” e che questo è (dovrebbe essere)
l’atteggiamento del vero suo discepolo? Eppure... a volte, all’interno delle
comunità (“privato”) ci aspettiamo che gli altri tengano conto di noi, ci
aiutino nel bisogno, si accorgano della nostra “eccellenza”, lodino le nostre
doti. Ma da noi non un segno (e se c’è è piuttosto ipocrita o interessato) di
considerazione per gli altri, uno schermirsi quando ci viene chiesto qualcosa
(sempre occupati!), uno scansare certe situazioni nelle quali sospettiamo di
essere chiamati in causa.
Vi sono non pochi religiosi che – giustamente – in pubblico tuonano contro lo
strapotere di molti poteri politici, economici (realtà di cui gli scandali
attuali forniscono abbondante testimonianza) e invitano con convinzione i laici
a non essere passivi, a esprimere a voce alta, e con il voto, il loro parere e
il loro eventuale dissenso e denunciano – sempre giustamente – come una colpa il
silenzio, la passività. Eppure…spesso gli stessi religiosi, in privato (cioè
negli incontri comunitari, nelle assemblee) non aprono bocca, restando in un
silenzio non certo accogliente delle cose dette, ma non rotto da interventi
chiarificatori, da suggerimenti diversi, in una semplice e sacrosanta parresia.
E – loro – non si sentono in colpa, continuando poi – nel privato – a lamentarsi
e a manifestare, con la prassi, il proprio dissenso.
Dunque: la dissociazione tra pubblico e privato risulta spesso una componente
anche della vita consacrata e non soltanto una caratteristica tradizionale di
parecchi protagonisti della vita sociale, economica e politica. E come – con
ragione – la si condanna in loro, dovremmo – come religiosi – cercare di
estirparla tra noi. La coerenza è anch’essa una virtù da coltivare.