Secondo tutti i dati recenti, confermati anche dall’Annuario Pontificio 2010,
la vita consacrata in Africa è in fase di crescita e di sviluppo. Ma per
giudicare della sua vitalità, sarebbe molto riduttivo guardare solo ai dati
statistici. Come ha affermato anche il card. Franc Rodé, 3 febbraio a Napoli,
Prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di
vita apostolica, in occasione del II Convegno diocesano dedicato ai religiosi,
«da un lato è necessario non pensare unicamente in termini di numero e d'età.
Per essere valida la vita dei consacrati e delle consacrate non richiede la
massa e per provare la sua validità non sono indispensabili i grandi numeri. È
necessario tenere d'occhio la qualità della vita consacrata, non solo la
quantità, e ciò deve contraddistinguere e dare senso alla nostra vita». Più che
ai numeri quindi, bisogna fare molta attenzione al “discernimento vocazionale”
che deve essere serio e accurato. Inoltre, alla formazione, che deve essere
anch’essa solida, completa, personalizzata. In altre parole, «occorre che le
nostre comunità siano in grado di formare persone appassionate... nessuna
scorciatoia e nessun trucco sono leciti: ne va di mezzo non solo la persona
stessa, ma anche l'istituto e la Chiesa. La formazione dovrà, pertanto,
accompagnare nell'esperienza viva della sequela Christi, secondo lo stile di
vita proprio di ogni singolo istituto, nella dinamicità e complessità del mondo
e della società attuale».
L’attuale esperienza ci dice che anche vita consacrata in Africa ha ormai i suoi
problemi, soprattutto perché, come scrivono due missionarie di Gesù, Maria e
Giuseppe, Janvière Mukansanga e Angéline Mukahaguma, da Butare-Rwanda, in un
articolo riprodotto anche dalla rivista spagnola Vida religiosa (giugno 2010,
pp. 36-43) perché deve fare i conti con «la nascita dolorosa di nuove culture
con prospettive insospettate… Se non stiamo attenti, corriamo il pericolo che
queste si costruiscano a partire da valori che hanno perso il loro centro così
che l’uomo e il suo destino finiscano in pezzi».
A parere di queste due religiose, «è necessario aiutare a umanizzare il tessuto
creatore e relazionale delle persone. La vita consacrata deve trovare nelle
culture un uno spazio per Dio e per i valori del Regno e contribuire
all’affermazione della dignità della persona umana e fare in modo che suo genio
creatore non rimanga sterile».
Entra così in campo il discorso sulla formazione. Infatti, «una delle esigenze
più vivamente sentite da tutti gli ordini e le congregazioni è quella di una
formazione religiosa e spirituale solida ed equilibrata».
La beatitudine della povertà
Possiamo prendere alcuni punti fondamentali come i tre consigli evangelici e la
vita di comunità. Come sono intesi e vissuti in Africa?
Anzitutto alla povertà. Il punto di riferimento per tutti è la beatitudine della
povertà per il Regno dei cieli (cf. Mt 5,3). Parlando di vita consacrata ciò è
importante. Le due missionarie affermano che anche in Africa c’è una piena
consapevolezza di questo valore, benché sia più difficile farlo diventare
mentalità e tradurlo in corrispondenti atteggiamenti evangelici.
«Povero, scrivono, è la persona che vive in una totale dipendenza da Dio, unico
salvatore. Un cuore da povero è libero per accogliere con semplicità gli uomini
suoi fratelli, senza essere schiavo di programmi o orari. Un cuore da povero
rende felice gli altri… pone la sua fiducia in Dio con cui tutto è possibile;
infonde energie affinché la gente e noi stessi abbiamo a lottare contro il
disfattismo e lo scoraggiamento. È un cuore che prega. Avere un cuore da povero
è una grazia e una chiamata. Essere poveri vuol dire sentirsi nel bisogno e
aprirsi a una esperienza che conduce a una preghiera di domanda, di riconoscenza
e lode a Dio, l’unico in grado di colmare il cuore che cerca».
Ma come è percepita dall’africano la povertà professata dalle persone
consacrate? «L’africano, scrivono le due missionarie, capisce che il consacrato
è, anzitutto, un uomo di Dio. Ciò che egli è e possiede viene da Dio. Come
persona di tutti, è debitore verso tutti e deve darsi a tutti. Per questo tutti
si rivolgono spontaneamente a lui per avere un aiuto materiale. Quando non ha
“né oro né argento” (At 3,6) egli può dare se stesso».
Ma, osservano le due missionarie, malgrado tutti i segni non sempre la povertà è
facilmente compresa dalla gente. Poi ci sono alcuni religiosi non sono veramente
poveri in Africa, ma stanno tra i più ricchi. Si ha una certa impressione che i
religiosi giovani vivano in una illusione: da una parte dicono che la povertà
materiale non ha importanza e, dall’altra, che possono possedere molte cose
nella convinzione che il loro cuore non è attaccato ad esse.
La povertà in Africa, prosegue l’articolo, si manifesta sotto due aspetti: la
precarietà e l’aspetto relazionale. La precarietà trova nella solidarietà
familiare un punto d’appoggio molto importante per l’equilibrio della famiglia:
coloro che hanno maggiori possibilità finanziarie o di altro genere aiutano
coloro che ne sono privi. Purtroppo oggi questo non sempre avviene in una
cultura mondiale di autosufficienza e di libertà propagandata in ogni parte del
mondo, compresa l’Africa.
L’altro aspetto, quello relazionale, si esprime nell’affermazione della
superiorità della persona sulla povertà e la ricchezza. Una persona, compreso il
povero, conserva la sua dignità fondamentale e le sue potenzialità umane e non
perde la sua capacità relazionale, di capitale importanza per l’africano. Per
lui, vivere significa condividere la propria vita con gli altri. La relazione è
vitale per la persona e la comunità.
In Africa la persona viene iniziata alla relazione fin dai primi momenti di
vita. Nascendo, il bambino entra in una rete relazionale attraverso le persone
che lo accolgono. Cresce in questo ambiente, vive, dorme e impara assieme agli
altri. La relazione diventa per lui una parte integrante della sua vita.
Di conseguenza, un povero o un ricco che non mantiene buone relazioni con la sua
famiglia e il suo enturage può essere socialmente un povero è tagliato fuori dal
suo vincolo vitale.
In una mentalità del genere possono nascere evidentemente dei problemi,
soprattutto nei riguardi della povertà e i valori evangelici che essa incarna.
I problemi circa la castità
Il secondo ambito riguarda il voto di castità. Per l’Africa, scrivono le due
religiose, esso rappresenta un capovolgimento totale di mentalità, nel senso
che, in contrasto con il sentire comune, la fertilità e i figli non sono
ritenuti i beni più preziosi. I beni più preziosi sono invece l’amore a Dio e al
prossimo. In questo senso le persone consacrate sono dei veri segni profetici:
avendo avuto l’esperienza del Dio vivo, un Dio vicino alla gente, esse
rinunciano al matrimonio e alla fecondità biologica per giungere a possedere un
amore che abbraccia l’intera umanità.
In Africa, perciò la castità non costituisce solo una sfida all’idea africana
del matrimonio e dei figli, ma rivela anche una nuova immagine di Dio. Per
quanto riguarda la difficoltà nel dominio degli impulsi sessuali, si tratta di
un problema universale, non unicamente degli africani. Un problema invece
caratteristico dell’Africa in questa materia è il fatto che l’iniziazione e
l’educazione sessuale in alcune culture viene fatta tra eguali in età molto
precoce. Si tratta di esperienze che creano delle abitudini e rendono poi
difficile il dominio di sé.
A partire dagli anni ’90 sono circolate informazioni molto imbarazzanti circa
gli abusi sessuali tra le giovani e persino violenze da parte di individui che
offrivano aiuti materiali e protezione, comprese le loro famiglie. Notizie
circolate in internet a partire dal marzo 2001 parlavano di abusi, con
conseguenti gravidanze e aborti. Alcune religiose si sono lasciate andare per
paura di persone in autorità che le manipolavano e condizionavano. Altre , col
pretesto dell’amicizia, sono cadute poi nella trappola di un certo regresso
nell’adolescenza non vissuta normalmente prima di farsi religiose. Anche alcuni
religiosi soffrono del regresso nell’adolescenza e diventano dei seduttori. Per
questa ragioni, scrivono le due missionarie, ci sono attualmente dei casi
deplorevoli di abusi sessuali nella vita consacrata anche in Africa. In non
poche occasioni si tratta di ricatti e di menzogne per guadagnare denaro.
Nonostante questi fatti, la verginità continua a essere un valore per i non
sposarti e per coloro che hanno scelto il celibato. Si può dire pertanto che
sbagliano coloro che affermano che la castità e il celibato consacrato sono
difficili da praticare e da capire da parte degli africani. La sfida si estende
anche alle altre culture. La castità è grande valore evangelico e culturale.
Un’obbedienza più facile?
L’obbedienza sembrerebbe invece più facile da comprendere nella cultura
africana. L’africano infatti è educato obbedire alle persone più anziane, ai
sacerdoti e a qualsiasi autorità. Prima ancora di essere un valore cristiano,
essa è un valore umano.
Ciò si comprende meglio se si tiene presente che nella cultura africana
l’obbedienza è strettamente collegata con l’appartenenza al clan. Questo è
infatti il canale attraverso il quale la persona viene al mondo, cresce e
realizza il suo destino. L’individuo si sente legato esistenzialmente al clan e
dentro di esso si attua il destino della sua esistenza. La legge che governa la
sua vita viene dallo spirito che sta all’origine del clan. Rifiutare questa
legge vuol dire mettersi fuori della protezione dei suoi antenati.
Per questo tutti si sforzano di conoscere lo spirito del loro clan e la sapienza
degli antenati per vivere nella pace.
L’obbedienza religiosa si pone però su un piano diverso e ha le sue radici in
quella di Cristo. È un’obbedienza di amore che invita la persona consacrata a
scoprire la volontà di Dio attraverso le mediazioni umane. L’elemento che
distingue l’obbedienza cristiana/religiosa da quella puramente umana è la fede
in Cristo, Figlio obbediente al Padre. Obbedendo riponiamo la nostra vita
unicamente in Dio in base alla nostra fede.
Questo non è facile per un religioso africano dal momento che l’obbedienza
religiosa può urtare contro ostacoli culturali. Perciò «formare i giovani
africani all’obbedienza suppone partire da questo valore culturale ma insegnando
loro ad essere adulti responsabili affermando la loro personalità con delle
posizioni conformi al loro stato di vita».
La comunità luogo da redimere
Un discorso analogo riguarda la comunità, elemento molto sentito in Africa.
infatti la cultura africana è centrata sulla comunità. La comunità non nasce da
una necessità sociale, ma è qualcosa che appartiene intimamente ad ogni
africano. Lo “stare con” non è solo uno stare con gli altri. È qualcosa di molto
più ampio. Implica la comunione con la natura, con il cosmo, gli antenati e la
famiglia. L’africano ha la ferma consapevolezza di essere radicato nel gruppo.
Si adatta facilmente alla comunità, ne rispetta le tradizioni e le norme e si
preoccupa di più dell’armonia del gruppo che della sua stessa persona.
In Africa la famiglia deve garantire la continuità della vita mediante la
procreazione e assicurare il benessere di tutti i suoi membri. Il compimento di
questa missione implica solidarietà, sollecitudine, aiuto reciproco e
ospitalità. Ma ha anche degli elementi negativi: il fatto di limitarsi al clan o
alla tribù, di eliminare gli individui che non accettano la loro responsabilità,
la paura dell’autorità, il voler ricevere tutto dalla comunità.
«È evidente, sottolineano le due missionarie, che le comunità devono essere
redente dal vangelo e quando ciò diventa realtà, la religiosa si trasforma in
vero segno profetico per la gente».
Si può dire, in conclusione, che «la vita consacrata è uno stato di vita che non
è capito da tutti in Africa. All’interno della cultura africana ci sono persone
che resistono alla comprensione di questa vita che sembra loro estranea. Per
questo, alcune persone consacrate, dopo essere entrate nella vita religiosa,
sono state rifiutate dalle loro famiglie».
Ma, scrivono con convinzione le due missionarie: «La vita consacrata continua a
essere una sfida per la cultura africana. La Chiesa del continente ha bisogno di
persone consacrate convinte, capaci di vivere fedelmente la consacrazione senza
tuttavia venir meno ai loro valori tradizionali. Per questo la vita consacrata
ha bisogno di una formazione cristiana solida come base per la formazione
religiosa caratteristica del nostro stato di vita».