La Conferenza missionaria mondiale svoltasi in Scozia, a Edimburgo, dal 14 al 23 giugno del 1910, è considerata il luogo di nascita del movimento ecumenico contemporaneo. Fu infatti in quell'occasione che venne costituita per la prima volta una commissione permanente per la promozione dell'unità dei cristiani.
A cento anni esatti di distanza, difficilmente potremmo considerare quell’avvenimento come un evento ecumenico in senso proprio. Vi partecipavano, infatti, esclusivamente rappresentanti di società missionarie anglicane e protestanti, mentre erano assenti cattolici e ortodossi, oltre che, naturalmente, le chiese pentecostali appena nate e oggi in crescita tumultuosa. Dei 1200 delegati solo 17 provenivano da fuori Europa, elemento che indicava come la missione avesse ancora come cornice il colonialismo e la predicazione cristiana si sovrapponesse, di fatto, all'affermazione della cultura occidentale. All’epoca i cristiani erano quasi tutti in Europa e in America e rappresentavano circa il 31 per cento della popolazione mondiale. Cent'anni dopo, in ogni porzione del pianeta ci sono comunità cristiane e proprio in Asia e in Africa i battezzati crescono di più. Eppure, occorre notare come la quota globale dei cristiani sia rimasta immutata, ferma al 31 per cento della popolazione mondiale: un dato che segnala ulteriormente, se ce ne fosse bisogno, come una testimonianza comune dei cristiani oggi vada ripensata in profondità. In questa direzione, per fare memoria dell’avvenimento si è tenuta nella stessa città, dal 2 al 6 giugno scorsi, una Conferenza dedicata a Testimoni di Cristo oggi, che ha riunito alcune centinaia di cristiani di varie confessioni con l’obiettivo di riflettere sul futuro della missione ad gentes.

Ma fu un evento fondamentale

Nonostante i limiti citati, la Conferenza del 1910 fu, scrissero i giornali del tempo, “la cosa più grande che abbia mai affascinato la Scozia”. In effetti, essa presentò dei chiari punti di forza che ne determinarono l'influenza per il futuro. In prima battuta, l'autorevolezza della sede e dei protagonisti: Edimburgo fu scelta per rendere omaggio a un paese relativamente piccolo che aveva però dato al movimento missionario numerose figure di primo piano (per citarne una, l'esploratore David Livingstone). A presiedere la Conferenza fu Sir Arthur James Balfour, ministro del governo britannico; mentre ne fu segretario il metodista americano John R. Mott, che rappresentò l'apporto dei laici alla Conferenza. In secondo luogo, la Conferenza fu influenzata dalle prime generazioni formatesi nelle associazioni giovanili quali la Young Man Christian Association (YMCA), nate con il preciso intento di superare gli steccati confessionali che dividevano i cristiani. Infine, la Conferenza fu influenzata dall'entusiasmo di chi riteneva verosimile riuscire a evangelizzare tutti i popoli della terra entro una generazione, mostrandosi così disposto a superare gli ostacoli che rendevano meno efficace la predicazione cristiana.
Fu appunto a quest’ultimo livello che emerse la questione dell'unità: l'esperienza della maggioranza dei partecipanti mostrava in modo evidente che le divisioni tra le chiese, triste retaggio della storia europea, risultavano incomprensibili ai popoli asiatici e africani e nuocevano alla credibilità della predicazione evangelica. Lo disse apertamente uno dei pochi partecipanti non europei alla Conferenza, il cinese Cheng Ching-Yi: «Parlando chiaramente, noi cinesi speriamo di vedere nel prossimo futuro una Chiesa cristiana unita, senza alcuna distinzione denominazionale». Il primo slancio ecumenico nacque pertanto in vista di una predicazione cristiana coerente e convincente. Fu così che la Conferenza decise di istituire un Comitato permanente che potesse continuare la riflessione e promuovere finalmente l'unità delle diverse chiese.
Da allora il percorso ecumenico si muoverà su due binari fondamentali: quello del dialogo teologico e quello dell’ecumenismo pratico. Quest’ultimo prenderà avvio nel 1925 a Stoccolma con la nascita del gruppo Life & Work, Vita e Azione, sorgente a sua volta dell’odierno movimento ecumenico, partendo dall’idea che non la teologia ma l’impegno sociale, le relazioni e la preghiera rafforzano i processi unitivi (la sua prima riunione era avvenuta a Ginevra nel 1920). Due anni più tardi (1927, Losanna) il dialogo teologico porterà alla nascita del movimento Faith & Order, Fede e Costituzione (1937, Oxford), che intendeva affrontare di petto le questioni dottrinali che dividono i cristiani. Ad Amsterdam, poi, dal 22 agosto al 4 settembre 1948, alla presenza di 147 chiese protestanti, anglicane e ortodosse di 44 paesi si terrà l’assemblea fondativa del Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC), sul tema Disordine del mondo e piano salvifico di Dio, a coronare un quasi quarantennale percorso di intuizioni, esperienze e iniziative che avevano attraversato, custodendo tenacemente viva la speranza dell’unità, le devastazioni di due tremende guerre mondiali e le tragedie dei totalitarismi europei.
È con l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni XXIII, infine, che la chiesa cattolica decide di mutare rotta, aprendosi appieno al cammino dell’ecumenismo. Nella sua prima enciclica, Ad Petri cathedram (1959), consacrata al problema dell’unità, egli saluta i cristiani non cattolici come “fratelli separati”; nel giugno del ’60 crea il Segretariato per l’unità dei cristiani, nominando il cardinale Agostino Bea presidente, e nel dicembre seguente riceve l’arcivescovo di Canterbury Geoffrey Fisher; nel ’61 invia delegati a Istanbul a salutare il patriarca ecumenico Athenagoras e scambia lettere di saluto anche con Alessio, patriarca di Mosca; nel frattempo, approva l’invio di cinque osservatori ufficiali all’assemblea del CEC di Nuova Delhi. Fino al Vaticano II, con il quale in maniera solenne – con l’Unitatis redintegratio – anche la chiesa cattolica aderisce al movimento ecumenico, pur senza diventare membro del CEC. Quando il vecchio papa Roncalli, il 25 gennaio 1959, aveva annunciato a sorpresa la prossima apertura di un concilio ecumenico, la meraviglia era stata grande. Al termine ecumenico, in particolare, venivano collegate vaste aspettative: quell’appuntamento sarebbe stata un’occasione privilegiata di riunione con tanti mondi religiosi che storicamente erano stati nemici? Sarebbero bastati pochi anni per rendersene conto. Quelle attese, qualunque sia l’ermeneutica con cui oggi si legga il Vaticano II, non sarebbero andate deluse.

L’enciclica “Ut unum sint”

È in questo quadro che Giovanni Paolo II avrebbe dedicato un’intera enciclica al tema dell’unità dei cristiani, l’Ut unum sint, del 1995: qui l’intero movimento ecumenico, a cominciare da quello sorto e sviluppatosi in ambienti non cattolici, viene letto come evento dello Spirito. Vi si legge, al n.23: “Si può dire che il movimento ecumenico abbia in un certo senso preso l’avvio dall’esperienza negativa di quanti, annunciando l’unico Vangelo, si richiamavano ciascuno alla propria chiesa o comunità ecclesiale; una contraddizione che non poteva sfuggire a chi ascoltava il messaggio di salvezza e che vi trovava un ostacolo all’accoglimento dell’annuncio evangelico”. Non è un caso che il nuovo incontro fra le chiese cristiane sia giunto a dotarsi, su scala europea, di una Charta Oecumenica. La firma del documento è avvenuta il 22 aprile 2001, a Strasburgo, in un appuntamento significativamente organizzato insieme dalla KEK (Conferenza delle Chiese europee), e dal CCEE (Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee). Il motto risuonato costantemente, nell’occasione, è stata la promessa del Cristo risorto: “Io sarò con voi, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Fra i partecipanti all’incontro (caduto immediatamente dopo la Pasqua che, per una rara e fortunata coincidenza, era stata festeggiata contemporaneamente da tutte le Chiese cristiane, sia occidentali sia orientali), oltre ai responsabili delle chiese stesse, un centinaio di giovani al di sotto dei trent’anni, in rappresentanza di tutte le confessioni cristiane e di tutte le nazioni del continente, dalla costa atlantica agli Urali, da Creta alla Norvegia: una scelta che si è dimostrata assai felice, stando anche ai commenti in assemblea degli stessi ragazzi, e che ha consentito un confronto fra le generazioni assolutamente inedito.

Un’occasione per fare il punto

A un secolo dall’evento di Edimburgo, il cammino ecumenico è oggi letto, dagli osservatori ma anche da chi vi partecipa direttamente, con lenti diversificate. In genere, però, si può dire che quest’anniversario giunga in una stagione che non offre eccessivi motivi di consolazione per quanti vivono la convinzione che un incontro fraterno fra le chiese potrebbe aiutarle a rendere più trasparente il loro annuncio del vangelo. Prendiamolo, dunque, come un’occasione propizia per fare il punto sulla situazione dell’ecumenismo, questo straordinario quanto inatteso dono di Dio nel Novecento: a proposito del quale è invalso l’uso di ricorrere alle immagini meteorologiche, per cui spesso si legge dell’attuale inverno ecumenico, o perlomeno di un autunno quanto mai piovoso, seguito alla primavera densa di speranze che ha caratterizzato l’età del Vaticano II. Quando diversi fattori incisero nelle coscienze, fino a immaginare vicino il momento in cui la Chiesa sarebbe tornata una: la pressione di base delle comunità ecclesiali, una buona elaborazione teologica, ma anche il clima sociale degli anni Sessanta, nonostante mille contraddizioni appassionato per il dialogo, la ricerca della pace, il superamento delle barriere fra i popoli e all’interno delle nazioni. Non andò così. Anzi, gli attuali processi di globalizzazione, che hanno reso obsoleti i classici strumenti di analisi sociopolitica, hanno contribuito a produrre un pianeta ancor più squilibrato, preda di reciproche paure, incapace di guardare al futuro. Nel quale anche i nuovi protagonismi delle compagini religiose, più che favorire dinamiche di vicendevole accettazione e di dialogo, hanno al contrario alimentato chiusure identitarie. Da più parti, così, si è cominciato a parlare di un’epoca post-ecumenica…
Da Edimburgo a oggi, del resto, solo almeno quattro le grandi fratture che ci fanno sentire il secolo trascorso ancor più lungo, sul piano religioso: il mutato contesto geopolitico, la nuova concezione della missione (slegata dai colonialismi e fondata sull’appello evangelico), una diversa qualità dei fondamentalismi e una differente geografia delle religioni (come accennavamo sopra, con l’Africa baricentro del cristianesimo e il sorgere di un islam europeo, ad esempio).
All’ecumenismo, attualmente, si chiede di rispondere a una triplice e pressante esigenza: quella di far fronte alla responsabilità della memoria; di trasformare le divisioni in differenze; e di elaborare un progetto comune, praticando l’ermeneutica evangelica dell’alterità. Nell’incontro ecumenico, infatti, l’ascolto reciproco appare soprattutto condivisione della vita e dei beni spirituali, frequentazione reciproca per imparare i rispettivi linguaggi, apprendimento di ciò che può ferire l’altro o risultargli irricevibile. Così potrebbero cadere i pregiudizi, si sconfiggerebbe la paura dell’altro e la tentazione di identificare differenza e divisione: mentre si aprirebbe la possibilità di pensare con l’altro la fede, la sua trasmissione, l’evangelizzazione di quel mondo che Dio ha tanto amato da dargli il suo unico Figlio. Da questo punto di vista, più che parlare semplicemente di crisi dell’ecumenismo, potremmo leggere tale processo in chiave di riorientamento complessivo, che ha tutto da guadagnare in un rapporto virtuoso con la teologia della missione.
Come ha ricordato Benedetto XVI in occasione della conclusione della Settimana per l’unità dei cristiani, il 25 gennaio scorso: «L’impegno per l’unità dei cristiani non è compito solo di alcuni, né attività accessoria per la vita della Chiesa. Ciascuno è chiamato a dare il suo apporto per compiere quei passi che portino verso la comunione piena tra tutti i discepoli di Cristo, senza mai dimenticare che essa è innanzitutto dono di Dio da invocare costantemente. Infatti, la forza che promuove l’unità e la missione sgorga dall’incontro fecondo e appassionante col Risorto, come avvenne per san Paolo sulla via di Damasco e per gli Undici e gli altri discepoli riuniti a Gerusalemme».