Sono veramente lieto e onorato di festeggiare con voi i vostri giubilei religiosi e sacerdotali, in questo luogo, dove tante persone hanno trovato e trovano personale conforto e alimento dal vostro spirito religioso e sacerdotale

La stima di cui gode la bella e frequentata chiesa di San Francesco in città è segno che il binomio di vita religiosa e ministero sacerdotale è pastoralmente efficace e riconosciuto.
Un grazie a chi, perseverando, ha reso possibile questo ministero qui e altrove.
Questo è un momento di gioia e di rendimento di grazie per il bene fatto, come corrispondenza ai doni ricevuti. È un giorno di luce e di celebrazione della fedeltà del Signore, fondamento e garanzia della nostra fedeltà.
Se qualche nube può offuscare la memoria festosa, sappiamo che anche le nubi più foriere di tempesta e di bufera in alta montagna finiscono per lasciare il posto agli spettacoli splendidi di bianchi mantelli di nevi che rendono ancora più affascinante il panorama.
E se le nubi oggi non mancano, esse vanno viste come premesse di apporti per visioni sempre più pure e attraenti di quegli altipiani dello spirito che sono di per sé il ministero ordinato e la vita consacrata.
La prima nube che sembra più densa è quella del secolarismo, che svuota lentamente le nostre chiese e ancor più le coscienze, che diventano legge a se stesse. Senza contare la silenziosa ma non invisibile corrosione che offusca talvolta la nostra testimonianza.
Non pochi di noi hanno iniziato il loro ministero in una “società religiosa” per trovarsi poi in una “religione della società” costituita da un miscuglio di opinioni più che di fede.
La seconda nube è quella che ha flagellato proprio in quest’anno sacerdotale il clero: quello che doveva essere un anno di rilancio della figura del prete è diventato invece un annus horribilis, che ha devastato la credibilità della figura del sacerdote, provocando in non pochi una crisi nelle coscienze e nell’intero corpo ecclesiale.
E se queste nubi portassero non solo tempesta, ma un’abbondante nevicata destinata a rendere ancora più limpido il panorama della nostra realtà sacerdotale e religiosa?
Alla domanda a quali condizioni le nubi attuali possono migliorare la nostra immagine e, ancor più la nostra realtà, sarei tentato di rispondere che il vento dello Spirito ci porta a tre altitudini, o livelli o vie: la via humilitatis, la via veritatis, la via caritatis. Diamo uno sguardo rapido a ciascuna delle tre vie.

Via humilitatis
a) La legittima riaffermazione dell’identità del prete, dall’alto profilo cristologico, giustamente fatta in quest’anno, non può essere usata a copertura delle nostre aspirazioni a essere riconosciuti socialmente.
Gli avvenimenti tristi scoppiati, o fatti scoppiare, quest’anno ci inducono all’umiltà.
Siamo poveri peccatori come gli altri. Ogni uomo è un povero uomo e ogni prete è un povero prete. E al seguito di Francesco, che si considerava sinceramente “il più peccatore di tutti”, il prete si considera “più povero degli altri” .
La “minorità” francescana, che parte da un “basso sentire di sé” è di grande sostegno al ministero sacerdotale, che viene sentito e vissuto non come potere o strumento di prestigio, ma come umile servizio ai fratelli, mendicanti con noi.
Un prete è un mendicante che indica ad un altro mendicante il cibo per vivere.
La povertà e l’umiltà sono il segno del divino, il segno che si vuol portare la ricchezza di Dio al mondo. Per annunciare il potere di Dio sugli uomini, bisogna rinunciare al potere umano e all’autocompiacimento.
Ha il diritto di dire le parole di Cristo, colui che “cerca di essere come Cristo in tutto”: da qui viene la consapevolezza del grande fossato, della enorme distanza dal Modello e quindi della necessità di entrare nella via humilitatis, specialmente da chi deve annunciare le sante parole del Signore.

b) Umiltà che è comprensione nei confronti delle difficoltà che sovente i battezzati trovano davanti alla via stretta indicata dalla Chiesa.
Umiltà che è anche comprensione dell’indignazione delle persone, in questi mesi.
Recentemente, proprio al clero di Dublino tanto provato dagli scandali, l’ex generale dei domenicani faceva questa diagnosi: «Diversamente da quello dei farisei, il giogo di Gesù è leggero (Mt 23,4). Se pensiamo alla nostra amata Chiesa negli ultimi secoli, sembra che siamo stati più simili ai farisei, perché abbiamo posto pesanti fardelli sulle spalle della gente.
Spesso questi carichi sono stati associati al comportamento sessuale. Abbiamo detto alle famiglie che hanno molti figli che non è consentito alcun genere di contraccezione, e ai giovani che non possono permettersi di sposarsi che il loro comportamento sessuale dev’essere posto sotto stretto controllo e alle persone omosessuali che nulla è permesso e che devono vergognarsi della loro sessualità».
«A prescindere da quanto di giusto o di sbagliato vi sia nell’insegnamento della Chiesa, ciò è stato percepito dai nostri cristiani come un peso molto gravoso. Ed ecco che ora scoprono che i preti che li hanno caricati in questo modo, hanno peccato in maniera sessuale più gravemente. Alla stregua dei farisei, abbiamo predicato bene e praticato male.
Potete immaginare la rabbia di una donna che ha avuto un bambino dopo l’altro e non ne può più, o di un giovane omosessuale, quando sentono quello che i preti, per quanto pochi, sono stati capaci di combinare» (T. Radcliffe op).
Che fare?
«Si tratta di sentire, e di far sentire, il Vangelo come la “buona notizia”, la notizia che consola, che conforta, che indica la via per l’amicizia a Dio.
Il Vangelo non presenta Dio come gendarme, ma come Padre che vuole il bene dei suoi figli. Il Vangelo è l’annuncio della agape, dell’amore benevolente di Dio, e va offerto con amore. Questa non è l’occasione per cambiare la legge, ma per annunciarla come la risposta all’Amore di Dio, quindi con pazienza, con benevolenza, senza ira, senza fare il processo alle intenzioni, senza aggressività, senza durezze, con l’umiltà di chi comprende tutte le difficoltà, perché sa di essere peccatore, di avere difficoltà come ogni uomo tratto dal fango» (Ib).

c) Bisogna armarsi di umiltà, anche di fronte alle difficoltà che ci attendono.
Il domani è nelle mani di Dio, ma qui da noi, se non avviene qualche scossone imprevedibile, la secolarizzazione sembra destinata ad avanzare, con tutti i problemi di adattamento che imporrà, a cominciare dalla nostra riduzione numerica e dalla conseguente diminuzione del nostro influsso sociale.
Ciò comporta inevitabilmente delle umiliazioni. Penso ai nobili decaduti di un tempo, vergognosi di non poter mantenere il loro status sociale.
Ma sarebbe proprio questa la vittoria del mondo, se riuscisse a farci “vergognare”, a farci perdere la fiducia nel Vangelo e nel nostro genere di vita.
Umiliati, ridotti, dalla scarsa rilevanza, sì, ma non demoralizzati o sfiduciati o tristi (cf. 2 Cor 4.7ss).
Il Nemico potrà cominciare a cantare vittoria quando ci vedrà tristi e privi di speranza.
Anche la memoria continua della “perfetta letizia” di Francesco non ci permette di avere sfiducia né del nostro ministero, né del nostro genere di vita.
Il vero discepolo è triste non quando non è seguito dagli altri, ma quando lui non segue Cristo.
La sua gioia, la sua realizzazione si misura sulla sua fedeltà al Signore, non sul successo terrestre, anche se un poco di successo non fa male e sostiene umanamente.
La via dell’umiltà ci conduce a purificarci dal clericalismo, dall’idea cioè che tutto dipende dal prete, anche se sappiamo che non è facile distinguere tra quello che è “dovere” da quello che è “potere”.
“È bene per me che tu mi abbia umiliato”, dovremmo poter dire a conclusione di quest’anno burrascoso, se ci servirà a incamminarci sulla via dell’esame di coscienza personale e collettivo, sul come ci rapportiamo al nostro ministero.

Via veritatis

L’umiltà personale non può tuttavia cancellare la grandezza del dono altissimo del ministero cui siamo chiamati e che non ci permettere di giocare al ribasso.

a) L’insistenza dei media nei confronti della Chiesa, in questi ultimi tempi, non è stata talvolta priva dell’obiettivo di eroderla nella sua credibilità, a delegittimarne il ministero, in nome delle sue colpe.
Ma già i Padri della Chiesa, che pur essi facevano esperienza della debolezza dei sui figli, parlavano della chiesa come di una prostituta (come Raab) tuttavia resa bella e pura dal sangue di Cristo. È il tema noto e discusso della casta meretrix.
San’Ambrogio in un passaggio del commento al Vangelo di Luca, ricordava recentemente papa Benedetto, parla della Chiesa immaculata ex maculatis.
«L’espressione sta a significare che la Chiesa è santa e senza macchia pur accogliendo in sé uomini macchiati di peccato. Ma proprio perché santa – della santità indefettibile che le viene da Cristo – la Chiesa può accogliere in sé i peccatori, e soffrire con loro per i loro mali, e curarli. In giorni calamitosi come gli attuali, pieni di accuse che vogliono invalidare proprio la santità della Chiesa, questa è una verità da non dimenticare» (Benedetto XVI).
La santità di Cristo che sostiene la Chiesa deve apparire anche sul volto della Chiesa.
Anche oggi, in mezzo a noi, si fa udire la voce del Signore: “Francesco, ricostruisci la mia Chiesa”. Ricostruisci il suo splendore. Fa apparire il suo vero volto. Mostra la sua bellezza.
Anche ai suoi tempi non mancava chi era preoccupato della riforma della Chiesa: chi lavorava a rafforzare il diritto canonico, chi si preoccupava di riformare monasteri, chi si ergeva a giudice della Chiesa, combattendola in nome della riforma dei costumi, chi creava la chiesa dei “puri” (i catari), chi indiceva concili.
Il programma della riforma delle strutture della Chiesa era abbondante.
Francesco ha compreso che si trattava in primo luogo della sua riforma personale, della sua conversione al mistero di Cristo e della Chiesa da rendere sempre più bella, con la propria vita cristiforme.
La riforma più profonda della Chiesa è in primo luogo quella che parte da un cuore desideroso di essere il più possibile “simile a Cristo”, perché la bellezza della Chiesa è quella di assomigliare a Cristo, suo Signore e suo Sposo.
“La regola dei frati minori è questa, cioè vivere in obbedienza, in castità e senza nulla di proprio e seguire la dottrina e l’esempio del Signore nostro Gesù Cristo”.
Il primo contributo al rinnovamento della Chiesa non è quello di abbassare il modello, o di proporre nuovi modelli, ma di innalzarci verso il modello che è sempre e unicamente Cristo.
Con la sua “tensione conformativa a Cristo”, Francesco ha dato un contributo notevole alla spiritualità e alla teologia della vita consacrata, ma ha evidenziato anche il suo nesso con il ministero ordinato che non è solo una “fare”, ma un “essere”.
Per portare il popolo cristiano dalla “terra della dissomiglianza” a quella della somiglianza a Cristo, la vita consacrata, che è “la ripresentazione della forma di vita di Cristo” , ha storicamente sostenuto e vivificato dall’interno il ministero ordinato, in quanto ha richiamato come il “fare come Cristo” poteva essere illuminato e sostenuto dall’“essere come Cristo”.

b)La forma di vita di Cristo
Quello che è successo in questo tempo nel comportamento detestabile di qualche prete o religioso, è stato presentato alcune volte come una conseguenza del celibato ecclesiastico. Anche se l’accostamento non è affatto corretto, la sensazione è che la tempesta abbia contribuito a scuotere la fiducia nel celibato e quanto meno abbia portato armi a favore di coloro che da tempo lo vorrebbero libero, anche per provvedere al calo delle vocazioni e garantire l’eucaristia a gruppi sempre più numerosi che ne sono privi.
Non tocca a noi decidere, anche perché, qualsiasi decisione venga presa, la cosa non ci riguarda direttamente, essendo il nostro celibato componente costitutivo della nostra scelta di vita e quindi del nostro stato di vita.
Il nostro stato di vita, proprio in questo momento di confusione, deve essere riconsiderato con chiarezza, fatto nuovamente nostro con rinnovata convinzione, presentato e vissuto non come obbligo, ma come un atto di amore verso il Signore Gesù.
Non abbiamo fatto i voti perché, come alcuni dicono, siamo legati a una concezione antiquata di chiesa, vittime della repressione sessuale di una istituzione medioevale, ma perché confessiamo apertamente e riconosciamo pubblicamente che Gesù è nostro Signore, il cuore del nostro cuore, il nostro Tu, il nostro Tutto.
Il celibato è da noi abbracciato “in onore della carne del Signore”(secondo l’espressione di Sant’ Ignazio di Antiochia, nel primo decennio del secondo secolo), che è venuto in questa forma di vita per dirci che l’amore di Dio è così grande che può riempire ogni cuore e per darci l’esempio che si può consacrare la vita, tutta la vita, anche quella più intima, al Padre per i fratelli.
Il celibato è la cifra oggi più significativa di una vita “votata al nome del Signore Gesù” (At 15,26).
E in un tempo di quasi rassegnato e disinvolto edonismo, la nostra forma di vita dice che non siamo necessariamente determinati dagli istinti, ma possiamo vivere una tonificante vita spirituale, grazie alla “infinta potenza dello Spirito Santo mirabilmente operante nella sua Chiesa” (LG 44) che sostiene una sequela impegnativa, ma serena.
Questo stato di vita, abbracciato con amore appassionato e riconoscente al Signore Gesù, reso possibile dal suo Spirito, dà gloria a Dio, sorregge i fedeli, dà splendore alla Chiesa.
E richiama “la vita del secolo futuro”, la nostra fede nel mondo della risurrezione, la proclamazione più efficace della nostra speranza in quel futuro in cui “saremo sempre con il Signore”.
Si tratta di togliere l’idea di una chiesa repressiva, per far risplendere il volto della Chiesa sposa di Cristo, da Lui amata fino alla fine. Una sposa che lo vuole riamare seguendolo nel suo amore “folle e inutile”.
Una sposa che si considera felice non quando ascolta altri amanti, ma quando risponde all’amore, talvolta esigente, dello Sposo. “Che cosa altro c’è per me in cielo? E che cos’altro desidero all’infuori di te sulla terrà”? (cf. Sal 73).

c) In tutte le vicende di questo nostro tempo, è bene non dimenticare le parole scritte a tutti i fedeli da Francesco: «Dobbiamo riverire i sacerdoti, non tanto per loro stessi, se sono peccatori, ma per il loro ufficio di ministri del santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo, che essi consacrano sull’altare e ricevono e distribuiscono agli altri».
La proclamata “tolleranza zero” nei confronti di certi gravi abusi, se deve salvare la giustizia verso terzi, non può tradursi in mancanza di “riverenza” verso i colpevoli o diminuire la “riverenza” verso gli altri nostri confratelli.
Se Gesù avesse praticato la “tolleranza zero” verso Pietro, l’adultera e altri, non avremmo il vangelo della misericordia e della ricostruzione attraverso il perdono. Il tema è delicato, perché sembra che certe tendenze siano poco curabili. Ma qui sta la croce del discernimento e della decisione, che deve muoversi tra “giustizia, cura e grazia”.
Lo sguardo di fede va affinato per non oscurare l’opera di Dio presente nel sacerdote, e per non diminuire lo sguardo misericordioso che ci rende cauti nel “giudicare” per non essere giudicati.
E soprattutto non dimenticare che “se il laico cade, il sacerdote lo rialza; se il sacerdote cade, il monaco lo rialza”. Le vostre comunità siano sempre luoghi ove tutti, anche i sacerdoti, si sentano compresi e aiutati a rialzarsi per riprendere il cammino.
Ma se il monaco o il religioso cade, chi lo sostiene?
La risposta è facile, quanto problematica: è la comunità che lo sostiene, a patto che sia una comunità di “frati fratelli”.

Via caritatis

a)In dulcedine caritatis quaerere veritatem
Sant’Agostino considera “monastica” una comunità fraterna: la parola “monaco” (da monos) vuol dire una persona sola.
E monos, una persona sola deve diventare una comunità; una comunità di molte persone mosse dall’amore fraterno. Qui si può costruire la santa amicizia, “dolce” perché rende più cara l’unità.
«Pregare insieme, ma anche conversare e ridere insieme. Scambiarsi favori con amabilità; leggere in comune libri interessanti. Scherzare assieme e anche stare seri. Dissentire di quando in quando, senza animosità, come se fosse con se stesso e, per mezzo di questo dissentire specialissimo, consolidare la mutua armonia. Insegnare o imparare reciprocamente qualsiasi cosa. Sentire la mancanza degli assenti e accogliere i nuovi arrivati con gioia. Con questi segni che si manifestano nel volto, nella lingua, negli occhi e in mille gesti pieni di affetto, che provengono dal cuore di coloro che si amano e si ripagano amore con amore, come se fossero scintille, si infiammano i cuori di molti e si fa una cosa sola» (Confessioni IV, 8)
Una comunità “monastica” è umanamente ricca, è sostegno alla perseveranza, fonte di aggiornamento, aiuto alla ricerca di risposte nuove alle nuove domande.
Il problema sta nella convinzione che la vita fraterna faccia parte della nostra missione e che richiede dedizione di tempo e di energie.
È frequente la tentazione di crearsi una comunità alternativa o attraverso attività personali o,oggi, anche attraverso i media, a partire da Internet, una comunità che diventa spesso in pratica una comunità virtuale e dispersiva nei confronti di quella reale, alla quale sottrae tempo e dedizione.
Non si vuol demonizzare questo nuovo strumento di comunicazione, ma mettere in luce che può di fatto diventare una nuova forma di potenziamento dell’individualismo sempre in agguato, che cerca vie solitarie, per evitare il confronto e l’incontro fraterno.

b)Esperti di fraternità
Sempre Agostino voleva vivere con i suoi preti (ecco il monasterium clericorum) perché imparassero quegli atteggiamenti fraterni di fondo che permettono poi di costruire comunità fraterne.
La comunità “monastica” era la scuola pratica della fraternità, che i suoi membri dovevano praticare prima fra di loro, per poi realizzare nelle comunità cristiane.
Saranno dei “fratres” fratelli, che potranno predicare con l’esempio e la parola, la grande e difficile fraternità. Non è questo uno dei capisaldi della vostra tradizione?
Ora questo è un punto decisivo per il domani nostro e della Chiesa: nell’eclissi del sacro o nella moltiplicazione delle opzioni religiose, nell’offuscarsi dell’immagine di Chiesa istituzionale, nella concorrenza delle sette e nella palude dell’indifferenza, la testimonianza cristiana sarà affidata a comunità fortemente caratterizzate dalla fraternità.
La fraternità è il segno dell’autenticità cristiana, ma anche la prova della perenne forza trasformante del Vangelo. Dove arriva il vangelo della fraternità tutto si rinnova.
Ma se non ci sono preti o religiosi capaci di fraternità, come possono sorgere ed essere alimentate queste cellule vive di una Chiesa?
Il prete oggi è oberato di lavoro, e lo sarà sempre più: accorpamenti, unità pastorali, problemi di ogni genere, dall’emergenza educativa alla presenza sul territorio…è tutto un insieme di occupazioni che rischiano di mettere in secondo piano la costruzione di comunità fraterne.
Il prete è destinato a essere sempre più uomo di comunione, di relazioni, di coordinamento, di fraternità.
Non spetta a noi religiosi, specie se figli di san Francesco, tener viva per noi, per i sacerdoti diocesani, per le comunità, per i gruppi, il valore altissimo della fraternità?
Meglio ancora, la cura del cuore fraterno, degli atteggiamenti fraterni, quali premesse alla coltivazione della fraternità?
Il grande servizio che possiamo fare al sacerdozio presbiterale non è quello di essere “costruttori di fraternità”, con l’accoglienza fraterna e lo sviluppo di una cultura della fraternità?


c) Una fraternità capace di stupore
Il cuore fraterno è tenuto vivo anche dallo stupore per quanto il Signore opera di grande nella propria comunità e nel mondo.
Perché non stupirsi della fede dei nostri confratelli? Perché non stupirsi della loro fedeltà? Perché non stupirsi della fedeltà di tanti santi sacerdoti; della fede dei semplici e dei dotti, del bene immenso che fa la chiesa, della sua espansione del mondo, della sua tenuta pur in mezzo a tante contraddizioni ?
Non siamo guidati talvolta dai criteri di giudizio del mondo, che valuta in termini quantitativi o di immagine, invece che in termini evangelici di umiltà, di amore, di dedizione disinteressata?
Lodare il Signore per il dono del fratello, con tutte le sue doti, è più costruttivo per la fraternità che mettere sempre il dito sulla piaga dei difetti da eliminare.
Se giudichiamo in termini di statistiche, possiamo essere tentati di pessimismo, cioè di peccare contro la speranza, dimenticando che siamo nello statuto dell’incompiuto, del perfettibile, della risposta al dono.
“Dal sorgere del sole fino al tramonto lodate il nome del Signore: l’immensa sua gloria supera i cieli”(Sal 113,3).
Solo il servo che loda il Signore Altissimo, con riconoscenza per quanto lo circonda può portare avanti con serenità la sua missione di fronte alle basse prospettive umane...
Sarà il servo lieto che annuncerà la lieta notizia, in mezzo ad altre mutevoli notizie. “Fratelli, siate lieti nel Signore…la vostra benevolenza sia nota a tutti”!

Siate lieti, anche perché, dispiegando le vostre vele al soffio dello Spirito che vi sospinge sulle vie dell’umiltà, della verità e della carità, potete attraversare le bufere di questi tempi per rendere più candido e immacolato il manto nevoso che avvolge le alture della sua chiesa, rendendola sempre più bella e attraente.
Non è forse dall’ora delle tenebre che è scaturita la veste candida del Risorto e dei risorti?
Vorrei concludere queste mie considerazioni “di pianura”, o piatte, con una citazione che porta in alto. È di Mauriac: «Ma che cosa ci riserva il futuro? Quando si tratta di Chiesa le parole di vittoria e di disfatta non hanno più il senso abituale. Mai la sentiamo così inerme come nei suoi trionfi né così potente come nelle sue umiliazioni. Fino alla consumazione dei secoli vi saranno attorno alla croce lo stesso tumulto, lo stesso fermento di insulti e di scherni, soprattutto la stessa indifferenza di Pilato, lo stesso colpo di lancia al cuore inferto da una mano qualunque; ma vi saranno anche la stessa supplica del ladrone pentito, le stesse lacrime della Maddalena; e dinanzi a Gesù agonizzante l’atto di fede del centurione pentito e l’amore silenzioso del discepolo prediletto. A ciascuno di noi conoscere la parte che vuol fare in questo dramma eterno. A nessuno è concesso di non prendervi parte. Rifiutare di scegliere vuol dire aver già scelto» (Parole ai credenti, Morcelliana, 1960, 62 ss).