Durante la 57° assemblea USMI, svoltasi a Roma dal 7 al 9 aprile scorsi, don Massimo Grilli ha proposto una sapiente rilettura della storia di Sara e Hagar (Gn 16,1-15; 21,1-18), figure bibliche presentate come un’icona espressiva della promessa di Dio e delle lacerazioni umane. La loro, infatti, «è la storia di due donne che vivono in una situazione lacerata da divisioni classiste e sessiste. È la storia di due donne vittime dell’ingiustizia, da cui una è più colpita dell’altra, ma è anche la storia di un Dio che vede, abbattendo i muri della separazione». È una storia di esclusione, di violenza, di sofferenza e disagio, di elezione nella persona di Hagar.
Forse non è facile capire, ma entriamo dentro il mistero, cercando di scavare nella Parola, “pozzo” dell’amore di Dio per il suo popolo. Anzitutto, subito leggiamo un’indicazione di tempo (Gn 16,3), un tempo che vuole dire a ciascuno di noi che per costruire un futuro, abbiamo bisogno di fare esperienza, di maturare. Per arrivare a questo, bisogna avere quella capacità di saper ascoltare la parola di Dio e farla entrare dentro il nostro cuore, perché il Signore ci guidi nelle sue vie. Certo, non è facile fare questo cammino perché spesso i fatti, la stessa parola di Dio, non concordano col nostro pensiero e si creano delle rotture, lacerazioni come la lacerazione tra Sara e la sua schiava Hagar.

Dalla morte alla vita

In Hagar troviamo la storia di una donna perdente, ma troviamo anche lo stesso Dio di Abramo che capovolge la sua storia di morte in storia di vita.(Gn 21,13). «Abramo carica sulle spalle di Hagar pane e acqua…» (Gn 21,14). Sono i simboli della vita che l’umanità, ogni giorno, è chiamata a portare, e sono i simboli della fatica, rappresentati dal peso sulle spalle. I simboli del pane e dell’acqua, nella Bibbia, raffigurano la presenza di Dio che continua a prendersi cura anche nella disperazione, in situazione di morte, per realizzare il suo disegno: Abramo consegna ad Hagar il figlio perché da questi, anche se il cammino conduce alla morte, il deserto fiorirà (cf. Is 32,15), nascerà una grande nazione (cf. Is 49,15). Questa sicurezza è racchiusa nelle parole che l’Angelo comunica ad Hagar: «Che hai? non temere!» (Gn 21,17). Sono parole che il nostro cuore accoglie ogni volta che la nostra storia è segnata da fatiche e sofferenze, sono parole di sostegno per la vita. Nei simboli che Abramo consegna, possiamo leggere i simboli della cristianità, frutto dell’amore di Dio che consegna il Figlio unigenito “mettendo sulle spalle” un nuovo pane e una nuova acqua perché anche da Lui, «sorgente zampillante» nasca un nuovo popolo. Dio può fare che questo succeda. Egli, che con la sua forza può fare tutto, e ce ne ha dato prova con Cristo – liberandolo dalla morte lo fece rivivere – oggi continua a liberarci dalla nostra situazione di morte per ricondurci alla vita: è il passaggio dalla stagione invernale alla stagione primaverile che tutti siamo chiamati a fare, dove tutto sboccia, la risurrezione “cammina”, il futuro è buono. È l’amore singolare e universale di Dio: amore che si estende a tutti in modo gratuito, senza distinzioni o preferenze perché il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è anche il Dio di Ismaele, di cui ascolta il gemito.

La promessa di Dio che ascolta l’afflizione

Don Grilli parla della storia di Sara e Hagar suddividendola in quadri, quasi ad aiutare l’ascoltatore a constatare come Dio veda i più deboli e come provveda a sostenerli e a difenderli. Il primo quadro ci presenta la situazione di partenza: il Signore ha già promesso ad Abramo un figlio. A comporre il secondo quadro è Sara: sterile, pensa di poter risolvere lei il problema e così, secondo l’usanza del tempo, offre ad Abramo la sua schiava. Per Sara e per Abramo, Agar è un oggetto: di lei non si dice mai il nome. “La tua schiava”, dirà Sara di quella donna senza stato sociale e senza volto. Quando Agar s’accorge di essere incinta sorge la competizione tra lei e Sara. Sara è gelosa, si lamenta col marito, si pensa disprezzata. La vendetta di Sara che opprime Hagar è espressa con lo stesso verbo utilizzato per l’oppressione degli ebrei in Egitto. Ci sono diversi modi di negare l’altro: ucciderlo (come Caino con Abele), venderlo (come i fratelli con Giuseppe) oppure mettere l’altro in condizioni di andare via e lasciarlo così in balìa al proprio destino. Questo fa Sara e Hagar, fugge (Gn 16,6). Ma proprio a lei – in un terzo simbolico quadro – si manifesta Dio, mediante il suo angelo, che la trova nel deserto. Quando questi le rivolge la parola, Hagar acquisisce una diversa percezione di sé e della sua condizione. L’angelo del Signore l’ha chiamata per nome; a lei, donna senza futuro, viene fatta una promessa: moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà contarla (Gn 16,10). Attraverso vie imperscrutabili, Dio mantiene le sue promesse. Alla schiava viene fatta la stessa promessa che una volta era stata fatta ad Abramo! È la prima donna nella Bibbia che riceve la promessa di un figlio ed è l’unica donna che riceve una promessa divina riguardante una discendenza che non si può contare! Il figlio si chiamerà Ismaele che significa: Dio ascolta. Hagar tornerà sotto la sua padrona, ma il nome del figlio le ricorderà per sempre che Dio ha ascoltato la sua afflizione e dunque non sarà più sola.
Davanti agli aut-aut delle donne e degli uomini, allo sguardo dia-bolico (dia ballō in greco = separare) che separa e divide, Dio abbraccia la contraddizione, abbatte il muro della separazione che uomini e donne continuamente erigono. La promessa per Abramo rimane, perché Dio non si pente delle sue promesse, ma c’è anche un’altra promessa per Hagar la schiava e per il suo figlio Ismaele.

I figli della promessa

Il quarto quadro (Gn 21) mette sulla scena di nuovo Sara e Hagar, per volere di Dio ancora insieme, ma per loro scelta ancora in contrapposizione. Perché Sara, partorito il figlio della promessa, non sopporta che Isacco giochi con Ismaele, il figlio della schiava e pone ad Abramo l’aut-aut: manda via questa schiava e suo figlio. Egli non deve spartire l’eredità con mio figlio Isacco (Gn 21,10). La Bibbia ci dice che la cosa dispiace molto ad Abramo, perché anche Ismaele è suo figlio e allora si appella a Dio. Ma Agar deve partire. Il quinto quadro, infatti, presenta Hagar sola nel deserto con il suo bambino, minacciata dal sole, dalla fame, dalla sete e dalla morte. In un momento di disperazione quando non ci fu più acqua nell’otre, prese il figlio e lo lasciò sotto un cespuglio e fuggì e si mise a sedere di fronte a lui, alla distanza di un tiro d’arco, dicendo fra sé: non voglio veder morire il mio fanciullo. E, standosene seduta, si mise a piangere (Gn 21,15-16). Il pianto della madre diventa il pianto del bambino, ma Dio, come sempre nella storia della salvezza, ode la voce del bambino e interviene: Alzati, prendi il bambino e sii la sua guida, perché io farò di lui un grande popolo. E Iddio le aprì gli occhi ed essa vide un pozzo d’acqua, vi accorse, riempì l’otre e diede da bere al fanciullo ( 21,18-19). Dio, fedele alla promessa, interviene. Anche per lei e per suo figlio ci sarà un popolo numeroso.

Lo sguardo di Dio sulla storia umana

Tutta la storia di Sara e Hagar – attingendo anche alle conclusioni di don Grilli – ci mostra come il comune argomentare tra uomini e donne, in politica come in religione, in comunità civili come in comunità cristiane, in famiglia come in comunità religiose, sia spesso un argomentare per via di opposizione: schiavo-libero, maschio-femmina, compatriota-straniero, superiore-inferiore, capace-incapace, destra-sinistra … È un argomentare di tipo “dia-bolico” nel senso etimologico del termine. Questo argomentare per via di opposizione, che facilmente innalza muri di separazione, è del tutto contrapposto al pensiero di Dio, il quale vede “oltre” le contraddizioni, le gelosie, i vari istinti umani classisti e razzisti. Dio “vede” una strada per Isacco, il figlio della promessa, e una strada per Ismaele il figlio di Hagar, anche se non appartiene al popolo eletto. È un Dio che ha uno sguardo “simbolico” sulla storia umana. Uno sguardo cioè che ricompone non affastellando e confondendo, ma trovando sempre una specificità in sintonia con altre vie. Lo sguardo simbolico (syn-ballô = comporre, mettere insieme), che è lo sguardo proprio di chi ama, incomincia là dove si dà credito alla Promessa di un Dio “che vede” infinitamente più in là della miopia umana. La promessa di Dio abbatte le barriere culturali e istituzionali; incomincia là dove finiscono le corazze dell’io, là dove l’altro mi interessa di più della mia sopravvivenza, della mia giustizia, di qualunque presunta garanzia. La promessa di Dio incomincia a operare e a trasformare la storia, là dove finisce l’estenuante competizione per giustificarci, superarci, arrivare prima secondo criteri di potere e di efficienza.
La storia di Hagar e Sara – entrambe vittime, pur in modi diversi, del loro contesto sociale – mostrano come la donna, con le sue viscere materne, sia chiamata a testimoniare la verità di un Dio che ha viscere di misericordia e a sperare nella bellezza di un mondo dove non ci sia più “né giudeo né greco, né schiavo né libero”, ma dove tutti siano uno in Cristo Gesù, affidati a una grande promessa: Dio ha mandato il suo Figlio perché diventasse il cuore del mondo.