«La teologia trasmessaci durante il noviziato era quella che definiva la Vita
Religiosa secondo categorie di “separazione”, ”diversità”, “perfezione”. A metà
degli anni ’60, nel ruolo di maestra delle novizie, ho insegnato la teologia del
Vaticano II che aveva evitato intenzionalmente l’espressione di “stato di
perfezione” anche se ha continuato a vedervi uno stato. Nel contempo in rapida
successione si sono alternate accentuazioni diverse (…) Ma nei Vangeli ci sono
davvero parole o avvenimenti che fondano inequivocabilmente la vita religiosa?
(…) Oggi che cosa si dice di essa? (…) Come porsi di fronte al domani?».
La maggior parte dei religiosi/e sono entrati con la convinzione di dire addio
al mondo per essere collocati in una dimensione “altra”, “speciale”, “di più”.
Dunque a definire lo stato di vita religiosa erano prevalentemente categorie di
diversità in riferimento, soprattutto al grado di perfezione, vale a dire di
pienezza della vita cristiana (santità), ritenuta privilegio, almeno fino al
Concilio (LG 41), di un esiguo numero di cristiani per i quali la perfezione era
intravista nei consigli evangelici professati con i voti. Era/è la teologia dei
due generi di cristiani. Il primo genere indica quelli che cercano la salvezza
attraverso i precetti, e il secondo quello di coloro che cercano la perfezione
attraverso i consigli ”, tesi alla quale peraltro nel sec XI un testo di Urbano
II aveva conferito una base ufficiale. Ma questa differenziazione di categorie
non si trova nelle forme più antiche di vita monastica. Nel racconto della vita
di Antonio fatta da Anastasio il “se vuoi essere perfetto” si pone nella
rievocazione della vita della comunità pentecostale; in s.Basilio nella vita
fraterna e in s.Agostino nel divenire una sola anima e un solo cuore . Oggi,
anche se il Vaticano II si è posto nella prospettiva tradizionale, di fronte
all’esegesi contemporanea e alla riscoperta dello statuto di fondo del mistero
cristiano, la teologia si sente chiamata a sfumare anche questa linea
tradizionale di risposta, proprio a partire dal fatto che la distinzione
classica tra consigli e precetti suona male di fronte all’insieme del dato
biblico. Per Matteo come per Paolo essere perfetto significa osservare la legge
informata dalla carità, caratteristica essenziale della nuova legge. Come
concepire un di più di perfezione che oltrepassa l’adempimento della legge della
carità? Per s.Tommaso questo precetto non conosce limiti, non c’è un margine al
di là del precetto ove si possa installare il consiglio. Questo offre dei
vantaggi ma non mette in causa il raggiungimento della perfezione. Comunque –
qualcuno potrebbe dire – la VR è la via migliore in ordine alla perfezione in
qualsiasi modo la si intenda. Per tanti secoli dicendo via migliore si è inteso
dire vocazione migliore. Certamente c’è un aspetto oggettivo che come forma di
vita cristiana comporta un certo “meglio” perché imita la forma di vita scelta
da Cristo e si concentra sui valori evangelici essenziali, ma bisogna
considerare anche l’ aspetto soggettivo essendo la vocazione l’incontro del
credente con la realtà che gli è propria, per cui la vita consacrata è migliore,
in concreto, solo per coloro che vi sono chiamati, come la vita laicale o
matrimoniale è la via migliore per chi è chiamato a sottolineare meglio altri
aspetti : “ciascuno dice Paolo, deve santificarsi conformemente alla condizione
che il Signore gli ha assegnato e in cui lo ha chiamato” (1 Cor 7,17-24). Più
santo allora è colui che ama di più, qualunque sia il suo stato di vita. È una
questione di modi differenti di ricercare e seguire il Signore, e le forme di
tale ricerca superano, in molteplici direzioni, lo spazio racchiuso nella vita
religiosa . Infatti diversa è stata la sequela degli apostoli da quella di Maria
madre di Gesù, o da altri come Nicodemo, Marta, Lazzaro, Zaccheo, i quali
continuando a condurre un’esistenza più “normale” non possono essere considerati
per questo meno perfetti.
Nel testo biblico ci sono parole o avvenimenti attraverso i quali fondare
inequivocabilmente la vita religiosa? In particolare su quali testi si fondano i
“consigli”?
Nell’insieme del messaggio evangelico esiste certamente una convergenza di
elementi che confluiscono assieme e delineano una certa maniera energica di
“seguire Cristo”, ma altra cosa è che sia possibile, attraverso una lettura
abbastanza letterale e non sufficientemente critica della Scrittura, trovare
quella parola, avvenimento o l’analogo di una istituzione risalente a Gesù, su
cui fondare la VR. Il limite che si è avuto nel corso dei secoli è stato proprio
quello di sovraccaricare i testi biblici di significati che non hanno,
dimenticando che nei Vangeli, in riferimento alla VR, ci sono i fondamenti e non
la forma . Oggi la maggioranza dei teologi è d’accordo nel dire che è
impossibile trovare nella Scrittura l’affermazione immediata ed esplicita della
dottrina dei tre consigli evangelici pur concordando circa la rilevanza dei vari
elementi che nel tempo sono andati a configurare una specifica forma discepolare.
Gli elementi sempre presenti e inseparabili nella vita della Chiesa delle
origini sono la fraternità e la comunione dei beni. A Gerusalemme, dopo la
Pentecoste, nasce una forma di comunità i cui appartenenti, in fedeltà alla
Parola, considerano ciò che posseggono come un bene per gli altri, prassi che
rendeva visibile l’unione dei cuori. Infatti per Luca l’accento nell’essere
comunità è posto sull’uso fraterno dei beni, posto in stretta relazione con la
koinonia spirituale che la sollecita e la provoca. Gli elementi di questa
koinonia sono, oltre all’unione dei cuori e alla medesima disposizione di
spirito anche il “ritrovarsi insieme”, espresso con i termini “epì tò autò”, che
però non sembrano avere alcun significato “locale” in riferimento, per esempio
al luogo di riunione . Una koinonia non legata a strutture istituzionali. Il
centrare la vita sulla comunione dei beni si ritrova anche nella “dottrina degli
apostoli” (Didaché 4,8) che indica come centrale questo elemento identitario per
chi vuole realizzare l’ amore cristiano: «non rifiutare il sostentamento al
povero. Metti tutto in comune con tuo fratello e non dire che qualcosa è tuo».
Dunque fraternità e povertà sono due valori biblici fondamentali, ma non
costituiscono un carisma concesso solo ad alcuni, bensì un ideale proposto a
tutti cristiani e di conseguenza anche ai Religiosi (T. Matura), cioè a quei
credenti che si propongono di rendere più intensa, più continua, dunque più
percepibile la koinonia, la quale costituisce il fondamento stesso della Chiesa.
Per quanto riguarda il celibato c’è da dire che certamente questo “è un modo
privilegiato di instaurare una familiarità con Dio totale, personale, unica ed
esclusiva … segno che l’amore è la vocazione di ogni uomo, e che anche alle
persone sole è aperta tale possibilità” , ma altra cosa è far risalire il
“consiglio” della VR al testo di Paolo. L’apostolo – osserva. J.Haering – «si
limita a dare il proprio parere nella veste di un cristiano che riflette, ma
senza riferirsi alla sua autorità apostolica e a fortiori senza identificare il
consiglio dato come un consiglio del Signore» . La sua esperienza spinge
l’apostolo ad affermare che tutto sommato, il celibato implica meno rischi di
divisione almeno per colui che vi è chiamato. Inoltre questo passo ricorre nel
contesto della escatologia considerata imminente da Paolo. Circa lo stesso
argomento Matteo (19,10-12) dice: “ci sono quelli che si sono fatti eunuchi da
sé, in vista del regno dei cieli”. J.Dupont pensa che l’eunuco che si rende
volontariamente tale per il regno sia inizialmente il marito separato dalla
sposa, il quale comprende come, di fronte agli imperativi del Vangelo, non possa
più sposarsi : non sarebbe dunque un appello al celibato o la sua approvazione,
quanto l’affermazione dell’esigenza dell’indissolubilità coniugale.
Oggi che cosa si dice al riguardo?
Far consistere la VR in alcuni elementi di diversità rappresenta un
impoverimento della più ampia prospettiva evangelica. Non si può separare troppo
la VR dalla vocazione di tutti, comprimaria nell’attuare l’universale “chiamata
alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” invocata dal
Concilio (LG 40). La VC non è né a lato dell’esistenza cristiana, né in
parallelo né sopra, ma dentro. T. Matura si esprime così: «La vita cristiana non
è una sotto-categoria della vita religiosa, un minimo comune multiplo; è la vita
religiosa ad essere un certo modo di realizzazione della vita cristiana, e non
c’è niente di più grande e di più alto di quest’ultima» . Per questo profilo
teologico, lo specifico e le conseguenti funzioni della vita religiosa non
possono che essere individuate in riferimento alla vita cristiana. «Noi
religiosi – scriveva p. Ferrari – dobbiamo ritornare a essere cristiani, senza
troppe distinzioni, che hanno solo una responsabilità in più: non quella di
incarnare il buon esempio personificato ma di essere un segno visibile e una
sollecitazione rivolta a tutti a vivere secondo il Vangelo. La nostra
preoccupazione deve essere solo una: realizzare questa funzione nella Chiesa»,
proprio perché con più chiarezza, porta alla luce, la totalità di
un’appartenenza al Signore. Nella introduzione al suo lavoro, Sorelle nello
Spirito, Balthasar distingue tra una santità abituale e una santità
rappresentativa; la prima è quella normalmente presente nella vita della Chiesa,
la seconda è quella propria di alcune persone a cui Dio ha attribuito il compito
di dare origine ad una nuova esperienza di vita spirituale «illustrazione ed
esemplificazione del vangelo ai nostri giorni» . La VC si inserisce allora
dentro il discepolato, a cui tutti sono chiamati, distinguendosene non
innanzitutto (o non soltanto) per la sottolineatura di questo o quel
particolare, ma per una propria concentrazione del “centro” dell’intero Vangelo
, proponendosi di manifestare alla Chiesa ciò che questa è nel profondo del suo
mistero.
Come porsi di fronte al domani?
La VC si è sempre incarnata nei contesti culturali successivamente segnati
dall’evoluzione della storia per questo si può far credito a p. J. Aubry quando
afferma che non è mai esistita una univoca teologia globale della VC. Si sono
succedute delle teologie, di più o meno ampio respiro e successo, che potremmo
chiamare parziali nei due significati della parola cioè ogni volta centrate su
un tipo di VC o su qualche aspetto più tipico, quindi riduttive. La domanda
posta anni fa dalla commissione teologica dei superiori generali diceva: «Che
fare per ricuperare la freschezza evangelica di questa forma di vita, persino
nella sue formulazioni, nella sua dottrina?» . Ossia che fare perché questa
forma evangelica «di nicchia» non finisca in qualche nicchia della storia,
stante il fatto – diceva Tillard già trentacinque anni fa – che oggi «le
personalità più forti o quelle più avide di un dono radicale al Signore le
passano accanto sfiorandola?» . Ma il futuro non sta nel chiudersi nelle
categorie teologiche e giuridiche che la VR si è costruita addosso e che si
porta dietro per inerzia, e neppure ne servono di nuove, perché la scelta
vocazionale il giovane non la fa a partire da proclamazioni teologiche: «oggi
queste giustamente sono meno importanti della verità dei fatti, quali il
dinamismo spirituale e apostolico di cui ad esempio varie nuove fondazioni sono
portatrici, così come la loro autenticità di vita, l’apertura ecumenica, lo
slancio missionario, l’inserimento nelle realtà parrocchiali, l’impegno per la
nuova evangelizzazione» .
In estrema sintesi, il cammino al quale è chiamata la VR è dunque quello di
visibilizzare la sua “particolarità” intesa come il fatto di essere parte di un
tutto, la cui differenza consiste nella densità e nell’ampiezza di
significazione di un valore evangelico, vissuto in seno a una più estesa
comunità ecclesiale, perché «chi riceve un dono dello Spirito Santo potrà farlo
fruttificare solo se egli sarà profondamente inserito nel dinamismo della vita»
(Giov.Paolo II).
Tutto questo porta a far intravvedere all’orizzonte il profilarsi di un nuovo,
positivo equilibrio tra le vocazioni nella Chiesa, all’interno della quale i
consacrati non avranno tanto la funzione di dire che Cristo guarisce ma di far
vedere persone che sono la testimonianza viva della guarigione.