La crisi economica attuale ha imposto a ogni paese il dovere di mettersi in questione, a ogni industria, azienda, organizzazione nazionale e internazionale di operare cambiamenti per far fronte a questa crisi.
Il criterio di fondo non fa una piega: se canovaccio e scenario cambiano, deve cambiare anche il modo in cui gli attori interpretano la loro parte. Se il contesto economico muta, anche le aziende devono cambiare il modo in cui si strutturano.
Analogamente, se cambia lo scenario culturale, tutte le realtà sociali sono in qualche misura messe in discussione e chiamate a una ridefinizione dei propri progetti e del loro modo di essere nel mondo. Sono chiamate, cioè, a un cambiamento. Anche la Chiesa – e in essa la vita consacrata – deve fare i conti con questa prospettiva. È la storia che lo esige, con la logica evolutiva che la caratterizza. Oggi, come in ogni epoca della storia, ci è chiesto di vivere e incarnare i valori assoluti del Vangelo e dei diversi carismi in modi e forme che rispondano alle esigenze dell’uomo, della società e della Chiesa attuali.

Difficile mettersi in questione

Quanto scritto sopra, probabilmente, è un dato abbastanza scontato. Già da tanto tempo se ne parla e se ne scrive. E dovremmo ormai sapere che, anche in ambito ecclesiale, il tanto scrivere e parlare può dare l’illusione di aver già fatto ciò che si poteva e doveva fare. Sembra, invece, che la nebbia sia ancora fitta, e che ancora pochi siano i tentativi seri di far fronte alla crisi e alla nuova realtà sociale e ecclesiale in cui viviamo. Sembra legittimo pensare che funzioni il meccanismo inconscio per il quale il tanto parlare preserva dal fare, esorcizzando spiacevoli esperienze di confronto con la dura realtà di ciò che siamo oggi, o con il fallimento. Così, senza rendercene conto, seguiamo la logica del: parliamone tanto… purché tutto rimanga come prima!
È difficile mettersi in questione. È difficile perché, normalmente, percepiamo il metterci in discussione come un’implicita ammissione di colpa: se è necessario cambiare, vuol dire che non eravamo nel giusto, che non abbiamo fatto bene. Ancora facciamo fatica a pensare al cambiamento come a una realtà auspicabile e necessaria, proprio perché fa parte del processo vitale, del nostro divenire pienamente persone e, insieme, della nostra capacità di incarnare sempre più in pienezza il carisma ricevuto come gruppi, istituti, comunità. Proviamo a pensare alla questione formativa dei seminari e delle case di formazione dei consacrati/e: un punto critico su cui da anni si discute e si fanno convegni, ma che non vede crescere la qualità dell’impegno educativo. Anzi, assistiamo a fenomeni di ritorno a sensibilità e modelli preconciliari e a un devozionismo che preserva dal mettersi in questione, dal necessario confronto con la storia e dal pensare, dal discernimento di come meglio dare il nostro contributo specifico al cammino dell’uomo.
Questa fatica ci dice quanto siamo più orientati e motivati dai compiti e dalle mansioni che non dal fine a cui questi dovrebbero fare riferimento; più attenti alle opere e ai ruoli che alle persone e ai valori che sono alla base della pastorale e del progetto carismatico. Perciò, quando le nostre opere e la nostra azione pastorale sono messe in discussione, ci sentiamo disorientati.
Ci fu una grande levata di scudi quando, anni fa, Drewermann tentò una interpretazione del prete del nostro tempo definendolo “funzionario di Dio”. Oggi, anche se non si vuol sottoscrivere tutto quanto egli dice, guardando con obiettività nei nostri ambienti non si può non dargli ragione. Alla Chiesa-istituzione interessa che siano assicurati i programmi pastorali (sacramenti, liturgia, catechesi); ai sacerdoti e ai religiosi interessa ottemperare alle incombenze fondamentali del ministero pastorale e delle indicazioni di vescovi e superiori. E si naviga all’insegna del “minimo indispensabile”, non certo del “davvero necessario” o del “massimo possibile”.
Non per nulla, quando emergono problemi e siamo messi in discussione, perdiamo lucidità e ci vestiamo rapidamente di atteggiamenti di auto giustificazione o di vittimismo. Il che dimostra che il nostro modo di procedere abituale non è comunitario – “noi Chiesa”, fedeli e ministri insieme –, ma ancora molto clericale. Perciò, è molto più facile lamentarci dell’incomprensione altrui piuttosto che ammettere la nostra scarsa attitudine e disponibilità autocritica. Stranamente, provoca più coesione il sentirsi sotto assedio come Chiesa, vittime di un complotto, piuttosto che unire le forze per guardarci dentro, dare un nome ai nostri problemi e al senso della nostra missione nel mondo oggi, trovando risposte adatte a questo nostro tempo.
Al di là di certe punte molto critiche – peraltro sempre presenti in ogni epoca della storia –, di fronte alla crisi e agli scandali di oggi, non c’è bisogno di tirare in ballo la teoria dell’assedio o del complotto contro la Chiesa. Il complotto più riuscito è quello che riusciamo a montare molto bene da soli… contro noi stessi! Gli “attacchi” di oggi, infatti, non sono dovuti alla nostra testimonianza dei valori evangelici, non siamo accusati a motivo di Cristo. Semmai sono un dito puntato sui nostri peccati, sui nostri silenzi, sulla nostra contro testimonianza. Il complotto più efficace e temibile è sempre quello costituito dalla nostra infedeltà e tiepidezza, forse anche dalla nostra presunzione di sentirci sempre a posto per il ruolo che rivestiamo e insindacabili dall’alto dei nostri pulpiti, senza mai metterci davvero in questione, perlomeno tanto quanto mettiamo in questione gli altri.
E invece è proprio il metterci in discussione, lo stare sempre in un sano atteggiamento di ricerca di una “migliore” risposta alla proposta evangelica, di un di più evangelico nell’esercizio del servizio pastorale, che dovrebbe essere il tratto caratteristico della vocazione presbiterale e consacrata, e insieme il nocciolo dell’azione pastorale, proprio perché costituisce il fondamento della conversione personale e comunitaria.
Da anni si continua a parlare di discernimento ad ogni livello. Se non lo viviamo noi questo atteggiamento, come possiamo chiederlo ai nostri fratelli e al mondo, e come possiamo aiutarli a viverlo?

Eppure L’avevamo fatto…

La celebrazione del concilio Vaticano II rimane un esempio lampante di come la Chiesa può mettersi in questione in modo salutare e trovare delle risposte adatte al tempo in cui si trova a vivere. Quell’evento ha messo sotto gli occhi di tutti la bellezza dei frutti prodotti dallo sforzo di capire il disegno di Dio per l’uomo e il mondo che, uscito dal tempo nefasto della guerra, entrava decisamente nella modernità. La Chiesa riscoprì, allora, alcune sue caratteristiche che nel corso dei secoli si erano smarrite ed è tornata di nuovo a ristorarsi alle fonti della sua identità evangelica.
Dal concilio è stata rimessa a fuoco la centralità del Vangelo per una chiesa “popolo di Dio” che riconosce nel primato della Grazia il suo fondamento insostituibile. Regole e diritto canonico vengono solo dopo, importanti sì, ma in quanto aiuto al servizio di una comunità di figli di Dio che si sforzano di vivere il comandamento dell’amore come unica legge che conta veramente. Dal concilio viene la riscoperta della creazione e dell’uomo, la necessità di difendere il mondo e lavorare alla comunione con ogni uomo, a qualunque popolo o religione appartenga, per quanto tutto questo, oggi più che mai, possa apparire utopico. Dal concilio viene il riconoscimento e la valorizzazione della coscienza individuale e comunitaria come elemento imprescindibile per la crescita come individui e comunità cristiane. Questo solo per ricordare alcuni punti tra i tanti che la Chiesa ha rimesso al centro della propria coscienza identitaria con l’evento conciliare, strumento di reale discernimento nel percorso della storia. È lì che la Chiesa di oggi dovrebbe tornare, da lì ripartire per ripensarsi in relazione alla sua missione nel mondo d’oggi.
La prova che il concilio Vaticano II fu un’esperienza dello Spirito – paradossalmente – è data dal fatto che, dopo un entusiasmante impegno iniziale, la prospettiva conciliare si è lentamente arenata nelle secche delle nostre paure anziché resistere, mantenendosi in un rapporto di confronto salutare con il mondo, difficile ma carico di fecondità. Il passaggio da una struttura monolitica e sostanzialmente autoreferenziale alla Chiesa intesa come “popolo di Dio”, che cammina nel mondo condividendo con tutti gli uomini la luce del Vangelo di Cristo, è stato per molti un passaggio traumatico, di fatto non ancora accettato. Quando, per esempio, assistiamo alla rivendicazione del diritto di celebrare l’eucaristia secondo l’antico rito latino (non quello previsto dal rinnovamento liturgico conciliare), non ci troviamo solo davanti a un fenomeno di qualche appassionato di “antiquariato liturgico”: è la visione ecclesiologica conciliare che è messa in discussione. Non per nulla chi vuole questo ritorno al passato (non solo liturgico!), lo definisce l’“autentica liturgia”.
Rivendicazioni di questo genere, al di là di tante polemiche, ricordano una semplice verità: chi non accetta il cammino della storia non dimostra un grande amore neppure per la tradizione, perché non si dà tradizione al di fuori della storia. C’è solo la rigidità di chi affronta la propria paura del nuovo con il semplice ritorno al passato, giustificandolo come amore per la tradizione. Di fatto, la Chiesa manifesta il dono dello Spirito ricevuto dal Risorto nella qualità della sua testimonianza dei valori evangelici che esprime nel tempo. Non può mai adagiarsi in modo definitivo sulle forme concrete, con le quali è riuscita a esprimere nel corso della storia i valori evangelici. Per quanto rassicuranti, quelle forme hanno svolto il loro ruolo, adatte ai tempi per i quali erano state pensate e, proprio per questo, necessariamente da superare.
Chi vuole un ritorno al passato, oltretutto, mi sembra faccia un torto alla provvidenza di Dio, che ha dato a tutti i suoi figli – anche quelli di questo nostro tempo – doni e talenti da orientare al bene e alla crescita della creazione. Chi vede tutto il bene nel passato e in una “tradizione”, valutata in modo molto soggettivo, forse più che riflettere l’immagine del buon pastore dà l’idea del custode di un museo archeologico. Chi ama davvero la tradizione cammina con la storia, la ama pur con tutte le sue contraddizioni e cerca modi nuovi, adatti ai tempi nuovi, di testimoniare la ricchezza e la promessa di vita dell’unico Vangelo.

Quale fatica vogliamo fare?

Non è facile sostenere la visione dei nuovi scenari della storia mondiale attuale, non ultimi quelli ecclesiastici finalmente emersi da un imbarazzante silenzio, difficilmente giustificabile come “discrezione”, “prudenza” e ancor meno come “carità”. Se non altro, le vicende legate alla questione della pedofilia ci ricordano che non è possibile smarcarsi, tirarsi fuori, considerarci estranei alle logiche e alle dinamiche che segnano la vita dell’umanità di oggi, proprio perché la nostra “carne” – che lo accettiamo o no – ci lega alle vicende storiche e culturali di tutti gli altri uomini e del nostro tempo. Così come ci ricordano che il sacramento dell’Ordine o la professione solenne non sono un vaccino contro la patologia o una garanzia della maturità psichica e spirituale di sacerdoti e consacrati.
Vivere è difficile. È un divenire che ci rimette continuamente in discussione; ci chiede, nel mutare delle circostanze, di riaffermare costantemente i valori su cui vogliamo fondare la nostra esistenza. Anche nella Chiesa e nella vita consacrata, ogni uomo e ogni donna fatica a vivere e fatica a dare un volto alla propria fede e al proprio amore. Bisogna scegliere quale fatica vogliamo fare! Se quella dello sforzo di un continuo discernimento per capire come vivere oggi i valori perenni del Vangelo – uno sforzo che ci porta a crescere insieme a ogni uomo di buona volontà – oppure se vogliamo vivere la fatica frustrante di chi vuole difendere posizioni, privilegi e immagini di chiesa che forse alimentano le nostre illusioni, ma non rappresentano la Chiesa di Cristo, promessa di vita per tutti gli uomini.