Benedetto XVI, il 27 maggio scorso, parlando discorso all’assemblea generale della CEI, dedicata al tema dell’educazione, accennando ai recenti scandali della pedofilia nella Chiesa, ha detto: «Questa umile e dolorosa ammissione non deve, però, far dimenticare il servizio gratuito e appassionato di tanti credenti, a partire dai sacerdoti. L’anno speciale a loro dedicato ha voluto costituire un’opportunità per promuoverne il rinnovamento interiore, quale condizione per un più incisivo impegno evangelico e ministeriale. Nel contempo, ci aiuta anche a riconoscere la testimonianza di santità di quanti – sull’esempio del curato d’Ars – si spendono senza riserve per educare alla speranza, alla fede e alla carità».
E sono tante le testimonianze di sacerdoti, e sono la stragrande maggioranza degli oltre 400 mila sparsi in ogni parte del mondo, che vivono con passione ed entusiasmo, la loro vocazione, a volte fino all’eroismo e al martirio. Sono persone che i grandi mezzi di comunicazione generalmente ignorano, preferendo buttarsi sugli scandali, veri o presunti che servono maggiormente a far vendere il prodotto.
Fra coloro che invece hanno cercato di indagare nel mondo dei sacerdoti, almeno qui in Italia, un merito particolare va soprattutto al prof. Vittorino Andreoli, psichiatra veronese, grande studioso della psiche, e acuto osservatore di fenomeni culturali. In un lungo dossier, pubblicato su quotidiano Avvenire fra il 13 febbraio 2008 e la fine di gennaio del 2009, in oltre una cinquantina di puntate, dal titolo I preti e noi, ha compiuto una specie di lungo viaggio nel tentativo di presentarci la figura del prete nella varietà e complessità della sua vocazione e missione, nella quantità di situazioni e condizioni, in cui vive, di cogliere le gioie e le fatiche, comprese quelle psicologiche, che l’accompagnano nella quotidianità in cui svolge il suo ministero apostolico, raccogliendo in tal modo una lunga galleria di testimonianze, alcune delle quali bellissime e di straordinaria intensità.
Un lavoro compiuto con grande onestà e rispetto, anzi si potrebbe dire, con amore, come egli stesso ha dichiarato: «Non sono credente, ma voglio bene ai preti. Tutti devono voler loro bene. Sono figure importanti per tutti. E io voglio che siano felici».
Un tentativo analogo, anch’esso a puntate, è stato compiuto ora dal quotidiano cattolico francese La croix. Fra le testimonianze raccolte ne cogliamo qui qualcuna che dimostra quanto i sacerdoti siano felici di esserlo, quanto essi amino la loro gente e siano riconoscenti a Dio per il dono della vocazione.
Le notizie sugli abusi sessuali compiuti da qualche sacerdote, che del resto costituiscono un numero infinitesimale rispetto a quelli di altri contesti e ambienti, di cui però i mass media non parlano quasi mai, non deve assolutamente oscurare questa realtà profonda.

La comunità come luogo di equilibrio

Una di queste testimonianze è di un sacerdote-religioso, gesuita, il quale parla dell’equilibrio necessario per vivere questo genere di vocazione. È un problema, sottolinea, che riguarda ogni stato di vita, non solo quella del sacerdote. Personalmente afferma di trovare nella comunità il luogo dove coltivare questo equilibrio. Qui, infatti, sostiene di sentirsi aiutato da una vita spirituale, che deve essere sempre coltivata, mediante la preghiera, l’Eucaristia, il ritiro, ecc. In secondo luogo di equilibrio,a suo parere, è la missione concreta che viene affidata, dove uno può esplicare le proprie capacità che richiedono un investimento sia intellettuale che emozionale. Coopera a questo equilibrio anche la vita fraterna in comunità, con i suoi alti e bassi, i suoi momenti difficili e gioiosi, caratteristici della vita.
Certo, osserva, «non si tratta scuramente di un cammino di rose; le spine sono numerose. Ma se si abbraccia questa vocazione, non bisogna cercare per prima cosa il calore della vita d’insieme, cosa che diversi giovani sono tentati di fare. Lo scopo a cui deve tendere il religioso sacerdote è anzitutto la sua missione e non il proprio conforto affettivo. Ma ci sono anche dei grandi momenti di gioia comunitaria, che valgono ampiamente i periodi di aridità dell’esistenza…».

Il problema della solitudine

Un altro sacerdote affronta invece il tema scottante della solitudine e osserva che il sacerdote è sì “solo, ma non isolato». L’argomento è importante anche perché, la solitudine del prete è ciò che spaventa maggiormente i giovani quando si prospetta loro la possibilità di abbracciare la vocazione sacerdotale. Ad essi, la vita in comunità offerta da certe fraternità o comunità di preti, anche se a volte un po’ idealizzata, sembra ad essi più rassicurante e corroborante.
Senza dubbio, la solitudine rappresenta un problema vero, in particolare per un prete di parrocchia. Per rassicurare i giovani non bisogna sbrigare l’argomento con delle facili affermazioni o con dei ragionamenti puramente spirituali. Per colui che ha accettato di seguire Cristo come sacerdote e come pastore alla testa del gregge esiste una vera solitudine che è inevitabile. Il sacerdote infatti deve portare da solo molte confidenze e il peso di certe decisioni… è solo la sera quando si ritira in casa, dopo le riunioni, gli incontri, le cene, le veglie di preghiera, e niente potrà rimpiazzare la tenerezza o l’ascolto di una donna che egli ha scelto di non avere a suo fianco. Ci sono delle ore pesanti che si vorrebbero condividere; delle confidenze o situazioni difficili su cui si vorrebbe tornare a parlare; delle gioie pastorali, degli riuscite, c’è il bisogno che si ha di riconoscimento e si vorrebbe che tutto questo fosse compreso, incoraggiato e cordialmente accolto… Sì, il prete è alle volte solo. Solo con il Solo. E questo non è sempre facile.
Ma, prosegue questo sacerdote, «non è né un peso né un fardello che mi renda triste. È la mia condizione di vita, liberamente scelta, a immagine di Colui che mi ha chiamato. Assomiglia a volte alla solitudine del capo, o del primo della cordata: solitudine vissuta come un servizio a coloro che ci sono affidati».
Ma la solitudine, prosegue, «è il luogo della mia relazione personale con Cristo, dell’intimità particolare che egli intrattiene con coloro che ogni giorno gli prestano la loro voce, le loro mani, per servire il mondo. Questa solitudine non è un vuoto relazionale… anzi essa segna in maniera tutta particolare il mio rapporto con gli altri. Il prete è un uomo messo a parte per meglio servire il mondo. È l’uomo di Dio che si va a cercare, a cui si va per confidarsi, proprio perché egli è “a parte”…»
Infine, cosa importante, «questa solitudine può essere vissuta serenamente e gioiosamente se è legata al ministero che mi rende gioioso. Infatti è questo ministero che le dà significato».
Indubbiamente, per vivere in maniera equilibrata e avere relazioni equilibranti è necessaria una base umana. Per questo, essere soli non vuol dire essere isolati.
Per quanto lo riguarda, egli afferma di trovare un grande sostegno nelle amicizie di tante persone con cui aprirsi, con cui condividere i momenti pesanti e quelli di gioia; in una parola, persone con cui trascorrere semplicemente momenti sereni insieme.
Molte importanti sono, suo modo di vedere, le vere amicizie sacerdotali, ossia avere degli amici preti che comprendono e condividono le medesime gioie, le stesse difficoltà, le medesime speranze e poter contare sulla loro franchezza. Amici con cui ci si può rilassare, con cui ci si capisce, persone prese dallo stesso invito, con cui si condivide il desiderio di “servire e salvare”… «Ho bisogno di questi amici, del loro umorismo, della loro gioia di essere preti, della loro schiettezza… Ciò richiede di prendersi del tempo per coltivare queste amicizie e dei tempi gratuiti per ritrovarsi».
Un altro punto di appoggio è il padre spirituale. Nel suo caso, questi, afferma, «è un sacerdote anziano, dal cuore di padre, a cui posso dire tutto e tutto confidare senza avere mai la paura di deluderlo o che si stupisca. In una parola, “un padre che mi aiuta a essere “figlio”».
C’è poi la gioia di poter contare sulla presenza dei parrocchiani: «è un vero sostegno sentirli presenti, con la loro benevolenza e il loro incoraggiamento… È attraverso le loro attese, la loro fede, il loro sguardo che comprendo poco alla volta ciò che sono per loro: un prete di Gesù Cristo… Quale gioia quando sono ricevuto nelle famiglie, quando mi trovo in un ambiente così vivo, così equilibrante: poter pregare con i bambini prima di condividere un buon pasto animato. Gioie umane, preziose e semplici che si apprezzano grandemente!».

La gioia di servire la comunità

Per un giovane sacerdote, ordinato nel 2009, la gioia di essere prete consiste, come egli si esprime, nell’avventura di essere posti al servizio di una comunità. In effetti, «è veramente un’avventura quella di consacrare la propria vita per dire oggi la parola di Dio, dire il senso della vita, della morte, essere inviati in missione nel cuore di un ospedale parigino. È un avventura parlare di un Dio vicino agli uomini, di un Dio che libera, che ama, un Dio vulnerabile che, per la salvezza di ogni uomo, si è incarnato, ha sofferto, è morto, è disceso agli inferi, è risorto ed è vivo!... è un’avventura straordinaria annunciare questo Dio a coloro che non lo conoscono, a coloro che credono di conoscerlo e anche a me stesso, ogni giorno un po’ di più e ogni giorno un po’ meglio. Quale compito più esaltante può riempire una vita? O anche quale impegno più urgente? Questa parola di Dio che mi fa vivere costituisce il cuore del mio ministero, e senza dubbio rappresenta l’essenza del sacerdote. Un uomo è sacerdote perché è anzitutto un credente che ha incontrato Dio, che condivide la vita pellegrina e la speranza a volte precaria dei suoi fratelli di umanità».

Un altro, infine, scrive: «La mia gioia di essere prete sta nel rivelare a ciascuno di coloro che mi sono affidati che egli è fatto per la felicità di lassù. Che è atteso. La mia gioia è di trasmettere ai miei parrocchiani, o a quanti incontro, il desiderio del cielo. E col mio ministero di sacerdote, sta nel fare del mio meglio per prepararli, per aiutarli ad avvicinarvisi: Percorrere con loro un tratto di questo pellegrinaggio verso le vetta cui è rivolta la nostra vita; rivelare, incoraggiare, consolare, entusiasmare, accompagnare, servire… mettersi al servizio di questo incontro di ciascuno con il Signore.
Ho capito questo al capezzale di alcuni bambini che ho accompagnato fino alla loro partenza per il cielo. Confessandoli per l’ultima volta, ho avuto forte la consapevolezza di prepararli a questo grande incontro. Istanti così dolorosi, ma così profondi: fra qualche ora Dio verrà. E io, sacerdote, sono l’indegno servitore di questo grande mistero. Così piccolo davanti a un fanciullo… e tuttavia è dalle mie mani di sacerdote che egli ha voluto ricevere quest’ultimo perdono, rendendolo pronto a partire incontro al Padre. Non mi sono mai sentito così povero come davanti a questi “fratelli piccoli” diventati per me dei grandi fratelli nella fede. Senza saperlo, essi mi hanno fatto comprendere interiormente perché ero sacerdote».

Leggendo queste testimonianze ci pare di poter pienamente assentire a quanto scrisse il settimanale dell’episcopato spagnolo Ecclesia, lo scorso mese di aprile, trattando delle recenti vicende degli abusi sui minori di cui si sono resi responsabili anche alcuni preti: «In questa ora, tenendo presente la testimonianza globale di tante e tante centinaia di migliaia di sacerdoti fedeli – conosciuti o anonimi – bisogna rivendicare la verità e la bellezza del sacerdozio e del sacerdote e della sua appassionata vita al servizio del prossimo. Il sacerdote è il prolungamento del ministero salvifico di Cristo, è suo sacramento visibile. Il sacerdote porta nei vasi di creta della sua umanità – come è quella di tutte le persone – i più grandi tesori della grazia e della sapienza di cui tanto ha bisogno il nostro mondo di ieri e di oggi e di sempre. È evidente perciò che vale la pena essere sacerdote. È chiaro che il Signore continua a chiamare al sacerdozio. È chiaro che la vita del sacerdote è appassionante».