Gli ultimi anni hanno visto un tasso di sviluppo esponenziale nelle funzioni delle tecnologie disponibili per facilitare la comunicazione. Telefonia mobile, informatica, fibra ottica e satelliti: molti di noi portano ora con sé dispositivi che danno accesso istantaneo a una straordinaria gamma di informazioni, notizie e opinioni da tutto il pianeta. Non è solo questione di crescita di comunicazione e scambio di informazioni, ma anche di cambiamento di paradigma nella cultura stessa della comunicazione.

Una vita vissuta in Rete

È dunque in atto una rivoluzione, la rivoluzione digitale, che ha già da ora modificato il registro delle nostre possibilità mentali e sensoriali. Proprio perché cariche di fascino, queste possibilità devono indurci a percepire e a riflettere criticamente circa i loro effetti sulla vita psichica e relazionale. Le dinamiche della vita reale si possono rivelare insufficienti e inadeguate a una vita in Rete che è tutta da inventare. La comunicazione virtuale è infatti caratterizzata da velocità, sostanziale anonimato, giochi di identità, superamento dei normali vincoli spazio-temporali, accesso a relazioni multiple, anarchia e libertà di trasgressione. In Rete, dunque, è possibile amare, studiare, comprare, sognare… vivere.
Internet non è strumento ma “ambiente” culturale, che definisce un modo nuovo di abitare il mondo e di organizzarlo. A trasformarsi non sono solo i mezzi con i quali si comunica, ma l’uomo stesso e la sua cultura. La Chiesa, per attuare sino in fondo la sua missione, è chiamata a vivere nella Rete e incarnare in essa il messaggio del Vangelo. Internet connette persone, ma ciascuno al suo interno può anche costruire una propria identità fittizia, simulata e intendere la relazione come un gioco. In Rete ciascuno può far credere di essere ciò che non è a livello di età, sesso e professione, esprimendosi senza i limiti dati dalla propria identità pubblica. In Rete si diventa sostanzialmente messaggio.

Religiosi e l’utilizzo della rete

Si chiama web 2.0 il salto di qualità in Rete: dalla mera pubblicazione di pagine siamo passati alla condivisione tra le persone. Riemergono i concetti di persona, autore, relazione, amicizia, intimità. La “connessione” è chiamata a essere luogo di “comunione”. La missione dei consacrati che operano nei media è quella di «spianare la strada a nuovi incontri, assicurando sempre la qualità del contatto umano». «Come il profeta Isaia arrivò a immaginare una casa di preghiera per tutti i popoli (cf Is 56,7), è forse possibile ipotizzare che il web possa fare spazio – come il “cortile dei gentili” del Tempio di Gerusalemme – anche a coloro per i quali Dio è ancora uno sconosciuto?» (Messaggio del papa per la Giornata delle comunicazioni 2010).
Per questo motivo abbiamo intervistato alcuni religiosi presenti al recente convegno della Cei “Testimoni digitali” (22-24 aprile 2010) e rappresentativi nell’annuncio nei social network (reti sociali) .
P. Flavio Bottaro, gesuita, giovane ingegnere informatico e licenziando in teologia dogmatica, è coinvolto nell’Ufficio delle comunicazioni della provincia della Compagnia di Gesù. Ci dice che il suo ruolo si inserisce in una duplice prospettiva: verso l’interno, per dare più coesione interna alle realtà dell’istituto e far circolare le informazioni; verso l’esterno, perché «ora ci rendiamo conto che fare comunicazione non è semplicemente dire quello che facciamo, ma è in se stessa attività di apostolato».
Al convegno della Cei i gesuiti hanno parlato con efficacia per bocca di p. Antonio Spadaro (redattore de La Civiltà Cattolica, docente del Centro di comunicazione sociale dell’Università Gregoriana).
P. Flavio, riagganciandosi proprio alla relazione di Spadaro, sottolinea l’importanza di alcune «categorie della tradizione gesuita: testimonianza, fedeltà, condivisione. I nuovi media stanno riplasmando queste categorie, che finora sono state intoccabili per noi. Un convegno come questo per la Chiesa è dunque un atto di coraggio, perché vuol dire che essa sta riconfigurando quello che da sempre la caratterizza. Si sta lasciando interrogare». Siamo di fronte a un fenomeno generazionale: « anch’io, che sono figlio di questo tempo, non uso con disinvoltura i social network. Li uso perché altrimenti sei tagliato fuori: qui sta la differenza tra il migrante e il nativo digitale! Ora il migrante digitale può traghettare la nuova generazione di nativi trasmettendo i valori. Dobbiamo trovare le tracce della grazia nella Rete, ritraducendo per i giovani categorie come testimonianza e salvezza».
Don Antonio Rizzolo, della Società San Paolo, al servizio dei periodici paolini (Famiglia Cristiana, Vita Pastorale) e direttore della diocesana Gazzetta d’Alba, ricorda che è in pieno svolgimento il capitolo generale della congregazione, nei cento anni (1914-2014) della fondazione della Famiglia da parte di don Alberione. «L’intuizione originaria e fondamentale è stata quella dell’equivalenza di predicazione orale e predicazione scritta nell’annuncio del Vangelo… oggi diremmo mediale e digitale. Questa comunicazione non è di supporto alla prima, ma è forma di annuncio essa stessa».
Parla con una punta di rammarico don Antonio, perché ritiene che proprio i religiosi, i quali hanno contribuito molto a questo salto di qualità, non vengano oggi debitamente riconosciuti nella Chiesa. Si dice però contento che il convegno Cei confermi la nuova “cultura della comunicazione”: «questo è il mondo che abitiamo! E abitarlo richiede a noi consacrati non solo l’utilizzo dei mezzi disponibili, ma l’inserimento in essi della presenza di Cristo con la logica del vivere “tutto Cristo e tutto l’uomo” con tutta la vita». Per Rizzolo il limite più evidente della comunicazione della Chiesa odierna è quello di una certa superficialità. «I media sono ambiente difficile. La più piccola cosa rimbalza facilmente a livello mondiale. A mio avviso, dovrebbero parlare meno le gerarchie ecclesiastiche e più, con testimonianze dirette, i cristiani laici. Per esempio nel giornale Gazzetta d’Alba i temi più recenti come la pedofilia li abbiamo affrontati con i laici (non ha scritto il vescovo). Chiesa siamo tutti».

Comunicazione e comunità

Un rammarico simile a quello del sacerdote paolino si avverte anche nelle parole di Franco Lever, preside della Facoltà di Scienze della comunicazione sociale dell’Università Salesiana, nata nel 1989. «Sono qui al convegno “Testimoni digitali” perché cerco visibilità nella Chiesa per il mondo della scuola. Trovo miope la disattenzione verso le specifiche scuole ecclesiali (es. Santa Croce, Gregoriana, Spics dei paolini, salesiani ecc.). Io voglio preparare gente appassionata di comunicazione e di servizio all’interno della Chiesa, ma se la Chiesa non è nostra committente, allora noi siamo in difficoltà». Il segno di questo disagio sono stati anche gli studenti della Facoltà che, con casacche rosse, si aggiravano per tutta la sede del convegno filmandone le varie fasi.
Il prof. Lever è invece soddisfatto del livello culturale dell’evento: «Ci si è accorti dei nuovi linguaggi. Adottiamo un linguaggio nuovo quando siamo davanti a cose nuove. Le parole nuove ci servono a definire mondi nuovi. E siamo obbligati a una nuova teologia. Mi è piaciuta molto la ricerca fatta dall’Università Cattolica sulle relazioni comunicative e affettive dei giovani nello scenario digitale. Manca ancora, probabilmente, la coscienza che i media non sono solo relazione ma linguaggio nuovo finora mai espresso. Oggi non sono più solo legato alla parola, ma ho sempre a disposizione secoli di storia dell’arte, di poesia, di musica. Se vogliamo garantirci che il volto di Cristo o quello del fratello che noi tracciamo sia quello vero, allora dobbiamo attingere ai maestri che ci hanno preceduto. Il linguaggio digitale ci mette a disposizione una potenza espressiva che mai nessuno ha avuto. Ciascuno di noi, come Mosè, deve attraversare il deserto e vedere il roveto ardente».
Abbiamo strumenti che consentono alla Chiesa di tracciare un volto di Dio affascinate, bello, grande e profondo. Certo, conclude il preside, «è emerso anche che non siamo preparati a gestire il rapporto con i media. Occorre gente preparata. Gli avvenimenti recenti ci dicono che siamo “una casa di vetro” e come tale occorre gestire i rapporti di comunicazione. Come ha detto p. Spadaro, possiamo come Chiesa avere un’incidenza enorme in questo mondo se ogni nostra azione è coerente con il nostro progetto. Non bastano le parole: tutte le nostre dissonanze oggi si vedono e diventano comunicazione! O siamo comunità che testimonia o facciamo chiacchiericcio. C’è un modo di essere che garantisce la verità di quello che diciamo».
Questa prospettiva educativa dei media per la comunità è decisiva: solo se si costruisce una vera comunità ecclesiale regge la comunicazione di fede. Siamo infatti sulla piazza (spazio pubblico), il luogo in cui interagiscono le opinioni senza che nessuna possa arrogare per sé un primato, che non emerga dalla discussione e dal confronto. Luogo delle relazioni orizzontali, circolari: siamo al tramonto dei sistemi di relazioni comunicative centralizzate, che rispondevano unicamente a valori e interessi di chi ne deteneva la proprietà o il controllo.
E siamo anche nello spazio della cacofonia, aperto e sempre più caotico e frammentato, soggetto alla più grande confusione. Spazio di voci disordinate e casuali, invasive, disturbanti o seduttive, che adescano e che possono ingannare. Ma anche voci contraffatte (vedi molti blog che si fingono indipendenti e amatoriali e in realtà sono al servizio di imprese, governi o gruppi politici). Secondo questa immagine, il sistema dei media attuale realizza uno dei caratteri propri della modernità: il relativismo dei valori e degli stili di vita. Nello spazio cacofonico, la Chiesa deve parlare non con una sola voce, ma con una pluralità di voci, che corrispondono alla pluralità delle esperienze e delle sensibilità, personali e di gruppo, ma queste voci devono esprimere una sostanziale unità. Per questo, occorre l’autorevolezza di comunicatori professionali (va sostenuto chi ha una particolare vocazione a impegnarsi in questo campo con una adeguata formazione).
C’è poi anche una terza immagine, che riguarda il campo di tensioni. Ci piaccia o no, i media sono un campo di battaglia per conquistare consumatori, per la propaganda politica, per l’affermazione di ideologie. Un campo di interessi forti e non proprio benevoli verso la Chiesa cattolica. Per questo occorre presidiarne il territorio: qui la Chiesa può ricevere, ce ne accorgiamo, delle ferite terribili.