C’è una massima che dice: «la calvizie inganna; le rughe lasciano dei dubbi;
lo strascicare i piedi, questa è la vecchiaia». La cita p. José M. Guerrero SJ
in un articolo che tratta dell’anzianità dal punto di vista formativo,
psicologico e spirituale, dal titolo significativo Non rimpiangere ciò che sono
stato, ma amare ciò che sono. Si invecchia come si vive. La riflessione, qui un
po’ liberamente rielaborata, riguarda non solo l’anziano, ma anche coloro che
vivono accanto a lui, in particolare nella comunità, e descrive le opportunità
che vengono offerte alla persona e agli altri in questa fase della vita se
vissuta con serenità e in un fecondo atteggiamento di fede.
Coloro che Dio “ha saziato di anni” (cf. Sal 90,16), ossia gli anziani, scrive
Guerrero, sono chiamati a scoprire il tesoro che portano dentro di sé sapendo di
custodirlo in fragili vasi di creta. E ciò per poterlo condividere con i propri
fratelli con la serenità gioiosa della speranza cristiana. “Se gli anni
raggrinzano la pelle, rinunciare alla speranza raggrinza l’anima. Ci sono certe
vitamine nella età anziana che nutrono l’anima del religioso anziano: la voglia
di vivere che mai va in pensione, la curiosità che significa desiderio di
crescere e l’intensità di una vita interiore…
L’anzianità non è l’età del ritiro nel senso di età sterile. In questa epoca
della vita, se non ci si sente capaci di fare molto, bisogna evitare il pericolo
di dedicarsi a non fare niente. Vivere il riposo dell’età del ritiro infatti non
significa non far niente. L’inattività porta all’amarezza, alla noia, allo
squilibrio emozionale. La macchina che rimane ferma si arrugginisce, come la
casa che non viene ventilata” (Carlos del Valle ai suoi compagni più anziani
della provincia). Perciò l’età del ritiro non è l’equivalente della inattività,
ma il passaggio alla gioia della riconoscenza, al riposo della contemplazione,
al piacere sereno e umile per tutto ciò che Dio ha dato e permesso di
realizzare, come anticipazione del’eterno.
Tempo da dedicare a Dio ciò che la vita ha dato
L’età del ritiro è sinonimo di libertà. È motivo di gioia. È il tempo di vivere
con la serena preoccupazione di fare il bene oggi. Gli anziani non sono degli
spettatori annoiati che guardano, stando in poltrona, il cammino della Chiesa e
della propria congregazione; devono essere dei protagonisti attivi e impegnati
nella missione anche se secondo le loro possibilità. Ogni persona anziana è un
membro valido, necessario e utile nell’istituto. Ci sentiremmo impoveriti se non
tenessimo conto della presenza di queste persone, della loro missione, della
loro esperienza, del loro buon animo e dei loro piccoli servizi. Anch’esse sono
testimoni del Signore: non sono notizie fatte di parole che il vento porta via,
ma notizie viventi. La notizia verbale può offrirla un giornalista, ma per
essere notizia vivente bisogna essere testimoni. Le persone anziane
evangelizzano per contagio, per “un di più di amore”. E tutto questo in chiave
di silenzio, di insignificanza, nell’apparente inutilità e inefficacia agli
occhi del mondo.
Non si è meno religiosi con gli anni. L’importante non sta nel fare molto o
poco, ma nell’ essere per Dio e per gli altri una persona riconoscente per la
vita, gioiosa nel sapersi amata in maniera gratuita e incondizionata da Dio.
Questa è la missione dell’anziano: l’accettazione gioiosa della volontà del
Padre. L’accento non va posto su quello che si può fare per gli altri, ma su ciò
che posso essere per loro. E l’anziano potrà sempre essere spazio di
comunicazione, di sapienza, di calore umano… Potrà essere paziente e
pacificatore, maestro di riconciliazione e di vita. Con la sua esperienza e la
sua vita di preghiera, lo Spirito può donargli il carisma di trasmettere la
pace, di accogliere, di infondere respiro alla comunità.
Intensificare la preghiera
I fratelli e le sorelle più anziani sentono oggi rilevante la loro vocazione di
essere persone di preghiera. Qui ha anche il suo luogo privilegiato la
possibilità di dedicare tempi più ampi e, soprattutto, più tranquilli, gratuiti
e spontanei alla preghiera, di ogni genere, e al colloquio diretto con Dio,
senza un oggetto speciale, ma semplicemente parlando con lui come un amico parla
con un altro amico di tante cose vissute insieme per tanti anni.
In alcune liste delle congregazioni religiose, accanto al nome di un anziano,
c’è questa scritta: Orat pro Ecclesia et Societate. La sua missione è di pregare
per i fratelli. Pregare per coloro che stanno alle frontiere dell’umanità
affinché abbiamo la creatività e il coraggio di vivere là dove c’è più rischio,
più impotenza e dove non c’è nessuno; pregare per i fratelli che sono fiacchi,
che vivono delusi e annoiati la loro vita religiosa e per coloro per i quali la
vita religiosa è un peso: pregare per i giovani che sono la nostra speranza e il
nostro futuro; perché il Signore renda feconda la missione di tutti e perché la
melodia di Dio suoni in modo meraviglioso in questi strumenti che siamo tutti
noi; pregare per i poveri e gli emarginati, per coloro che cercano il pane per i
propri figli e nessuno ne dà loro; per coloro che in questo momento hanno la
missione di animare le loro comunità.
Ricordo con pena, osserva p. Guerrero, quando un giovane religioso disse a un
anziano che era andato a visitare: «Dal momento che lei non può fare più niente,
non mi meraviglio che si annoi». Il padre gli rispose: «Anzitutto non mi annoio
e inoltre pensavo che pregare molto e santificarmi per i fratelli fosse una
bella missione per la congregazione e per la Chiesa».
Gesù redime la sofferenza
Senza dubbio gli anziani devono tener conto dei limiti e della sofferenza. Non
si tratta solo di qualcosa da offrire. Bisogna piuttosto donare l’essere, la
persona stessa che soffre. Gesù redime la sofferenza perché ama il soffrire e
soffre nell’amare. Come seguaci del Signore noi non predichiamo la croce, ma
Cristo crocifisso. Bisogna pensare sempre che attorno a sé c’è qualcuno che
soffre più di te e ha bisogno di te. Perciò il detto che forse viene a proposito
potrebbe essere: “Occupati di più degli altri e lascia che Dio si occupi di te”.
Nella Congregazione XXXIII del 1983 p. Pedro Arrupe, già molto deteriorato per
l’embolia cerebrale, per i servizi offerti alla Chiesa e alla Compagnia, e
soprattutto per la sofferenza enorme sopportata in silenzio in seguito alla
decisione del papa di intervenire nella Compagnia senza consultarlo, presentò la
sua rinuncia con queste commoventi parole: «Mi sento meno che niente nelle mani
di Dio. Questo è quanto ho desiderato durante tutta la mia vita, fin da giovane.
Ed è anche ciò che continuo a desiderare ora. Ma con una differenza. Oggi tutta
l’iniziativa è nelle mani di Dio. Vi assicuro che sapermi e sentirmi totalmente
nelle sue mani è una profonda esperienza».
Gli scogli da evitare
Nell’età anziana, scrive A. Guerrero, bisogna però stare attenti a non
incagliarsi in alcuni scogli.
Il primo di questi è di non rimanere fermi al passato, con un atteggiamento
amaro, critico e risentito per certi fatti accaduti e che hanno provocato ferite
che non riescono a cicatrizzarsi. Il riferimento è a certe incomprensioni, forme
di disprezzo, di emarginazione paralizzante e anche di ingiustizie subite e a
fallimenti dovuti alle nostre infedeltà. Che fare? si domanda Guerrero. E
risponde: non chiudere le porte e le finestre. Lasciamo che entri la luce. E
soprattutto abbiamo il coraggio di guardare con gli occhi e il cuore di Dio.
Egli è un Dio misericordioso, il Dio trino e uno, sensibile alle nostre lacrime,
comprensivo senza limiti, che vede e cura le ferite e riempie di gioia la nostra
vita, allo stesso modo la nostra giovinezza e la nostra anzianità.
L’anziano che ha saputo invecchiare, guarda al passato con serenità e amabilità,
ma senza rimanere bloccato in esso, non rimpiangendo nostalgicamente le cose
come si facevano al suo tempo, ma accettando la vita, le persone e gli
avvenimenti e la nuova storia che si sta sviluppando.
Il secondo scoglio da evitare è di rinchiudersi in un infantilismo da bambino
viziato con atteggiamenti che tendono a guadagnarsi l’approvazione dei giovani e
degli altri membri della comunità. «Semaforo rosso, osserva Guerrero, a un
egoismo camuffato che porti a sentirsi il centro della tavola ed esige che tutti
gli facciano corona. Vivere per gli altri vuol dire decentrarsi da se stessi per
centrarsi sugli altri».
Un terzo scoglio: aver paura di passare il testimone al momento giusto. Non
bisogna aggrapparsi a quello che prima si faceva, probabilmente molto bene e con
competenza e capacità, ma che ora non si è più in grado fare, con le qualità
richieste e il grado di responsabilità di un tempo, ma nemmeno dobbiamo
ripiegarci su noi stessi, prima del tempo, senza necessità, per insicurezza e
paura o per indolenza, in una attività sterile e nociva che ci isola e chiude,
aggravando indebitamente la nostra situazione. È opportuno che viviamo finché
possiamo con un progetto e un’attività adatta alle nostre possibilità e a quelle
capacità che sono presenti in ciascuno di noi.
Tuttavia, bisogna saper passare il testimone a quelli che vengono dopo. Di
solito costa molto, ma è meglio anticiparlo elegantemente che non vederselo
imporre… Sentirsi convinti si essere ancora atti ai compiti di sempre è un modo
di comportarsi che ha come scopo di non danneggiare la nostra immagine
narcisista, Ma dirlo e protestare quando si osservano gli indizi che fanno
capire che è tempo di ritirarci, serve solo a suscitare la compassione e una
certa lamentela in coloro che ci circondano.
Molti temono il tempo del ritiro come l’inizio della fine. Entrano in una crisi
di noia ingovernabile, muoiono in loro le speranze e si sentono del tutto
inutili per il resto dei loro giorni. Ma il tempo del ritiro è una tappa non il
termine di un progetto… L’importante non è fare molto o poco, ma essere per Dio
e per gli altri una persona riconoscente della vita, gioiosa per sapersi amata
da Dio gratuitamente e senza limiti.
Un ulteriore scoglio da evitare è non abbandonarsi alla nostalgia del passato.
Il ricordo melanconico e un po’ morboso del passato diventa una fonte di
frustrazione che inaridisce la gioia del presente e può giungere a intossicare
il senso stesso della vita.
Infine, gli anziani non devono emarginarsi. È importante che essi stiano sempre
con le antenne ben protese, per registrare le sfide che interpellano la Chiesa e
la congregazione e percepire le risposte che, nel discernimento e in fraternità,
si vanno scoprendo per rispondere di più e meglio ad esse. Conosciamo tutti
molti anziani e anziane nella vita religiosa che conservano, come un ciocco che
arde e mai si spegne, il buon umore, una buona dose di ottimismo e persino un
sorriso contagioso e stimolante, anche se il loro organismo ha bisogno di
molteplici riparazioni…
Ma se è importante che gli anziani non si emarginino, altrettanto importante è
non emarginare persone che hanno vissuto la loro vocazione con fedeltà e amore.
Bisogna ricordarsi che la solitudine della persona anziana – anche nella vita
religiosa, benché in misura minore – è spesso la malattia principale. Capita di
frequente di vedere anziani e anziane che cercano qualcuno con cui parlare,
semplicemente per parlare, ma non è facile che ci si presti. Eppure questo è uno
dei regali più preziosi che possiamo offrire oggi ai nostri anziani e alle
nostre anziane.. Condividere con loro la vita senza fretta, regalare un po’ del
nostro tempo nella gratuità, offrire le nostre possibilità di ascolto e di
attenzione amorosa a chi ha bisogno di una parola, di un silenzio, di uno
sguardo, di una carezza.
Guerrero termina la sua riflessione con due importanti osservazioni: anzitutto
affermando che la cosa migliore è lasciare gli anziani nelle comunità dove hanno
le loro amicizie, le loro piccole missioni e svaghi, fintanto che riescono a
regolarsi da soli. Anche perché, osserva, «una casa senza nonni è una casa senza
radici».
In secondo luogo, è missione importante dei superiori creare un ambiente
riconoscente, in cui regni la fiducia e il rispetto vicendevole fra tutti i
membri della comunità. L’opzione preferenziale per i poveri ha qui un luogo
privilegiato, tenendo presente che i nostri anziani appartengono a questa
categoria di persone che, per il loro deperimento, la loro emarginazione e
solitudine di cui molto frequentemente soffrono e hanno bisogno di noi.