Nel clima tutto particolare in cui attualmente ci troviamo, alla fine
dell’Anno Sacerdotale e all’inizio di un tempo di riflessione necessario sulla
vita e sulla formazione dei preti, si è alle prese con una duplice sensazione:
da una parte si avverte un certo disorientamento per le tante notizie diffuse
dalla stampa, ma dall’altra c’è un diffuso bisogno di speranza, necessario per
ravvivare il significato profondo dell’identità del sacerdozio, perché l’essere
e il fare di questo ministero siano integrati «nello spirito e secondo lo stile
di Gesù buon Pastore» . Infatti, quanti sono invitati al ministero pastorale,
diocesani o religiosi che siano, sono chiamati a custodire con amore vigile e
attento il dono della verità che portano dentro di sé, e lo fanno vivendo nella
carità il servizio che è loro affidato.
In quanto pastori, essi rispondono a questa chiamata per il bene degli altri,
«in un clima di costante disponibilità a lasciarsi afferrare, quasi “mangiare”,
dalle necessità e dalle esigenze del gregge» , fino a farsi assorbire
completamente dalla missione apostolica. In questo ministero di totale
dedizione, il loro compito è di seguire l’esempio di Cristo, il quale si è
donato completamente per l’umanità, per portare a compimento la volontà di amore
del Padre che lo aveva inviato a realizzare la sua opera di salvezza per il
mondo intero.
Nell’unicità e nella singolarità della sua vocazione, il sacerdote sente di
essere un importante punto di riferimento per la salvaguardia dei valori
evangelici della giustizia, della pace, della solidarietà intesi non solo come
obiettivi dell’umana convivenza ma come segni del Regno di Dio presente in mezzo
agli uomini. Egli pertanto non può rinchiudersi in una visione privatistica e
riduttiva della propria vocazione ma, al contrario, è chiamato a rendere
testimonianza della verità, annunciandola con le parole e con la testimonianza
della sua vita, ai fratelli e alle sorelle che sono affidati alla sua cura
pastorale, con lo sguardo fisso al Vangelo di Cristo Gesù. Rispondere a questo
appello vuol dire non solo fare delle cose con la gente, ma essere testimone di
vita nuova, quella che ogni prete sperimenta nel suo cammino di fede e di
comunione con la chiesa intera.
Identità sacerdotale e senso di appartenenza ecclesiale
L’identità della persona è alla base della sua crescita personale e del suo
progetto di vita. Essa riguarda il senso del proprio essere che si rafforza e si
distingue con le caratteristiche di ognuno. L’identità è anche una costruzione
della memoria psichica dell’individuo, che cresce e si rafforza con il procedere
del tempo attraverso le relazioni importanti che egli sviluppa nella sua vita.
Anche nella missione sacerdotale c’è un’identità da riconoscere e da accrescere
attraverso le relazioni con Dio e con gli altri. Un’identità che è frutto di una
relazionalità profonda ispirata al modello trinitario ed espressa in una
fraternità concretamente vissuta nella propria chiesa di appartenenza. È una
identità essenzialmente “relazionale”, che risponde al bisogno di consistenza
psicologica ed esistenziale di ogni chiamato .
Questo bisogno di identità autentica si riflette nello stile di vita e nel
cammino di fede del prete, e prende corpo nelle modalità di azione che egli
assume, con cui si muove verso la meta della santità.
C’è però una condizione fondamentale, perché questo stile di vita sia coerente
con l’ideale vocazionale, ed è la capacità di lasciarsi modellare da colui che è
esempio di amore e di altruismo autentico. Infatti, il sacerdote può affrontare
le diverse situazioni pastorali, può dedicarsi con generosità e abnegazione per
la gente, può anche rischiare di vivere condizioni di stress e di stanchezza
emotiva per il lavoro che fa, ma a condizione che sia docile agli insegnamenti
dello Spirito di Cristo . Pertanto, egli potrà essere dono totale per gli altri,
nella misura in cui si lascia trasformare e sfamare da Gesù, fonte di amore e
maestro di dedizione.
Tale identità è alimentata dalla stessa cura pastorale dei fedeli, perché è
nella dedizione alla gente che egli può realizzare la propria vocazione, con
l’autorevole testimonianza della parola e «con una tenerezza che si riveste
persino delle sfumature dell’affetto materno, capace di farsi carico dei “dolori
del parto” finché “Cristo non sia formato” nei fedeli» . Mentre guida il gregge
che gli è affidato verso l’unità di Cristo, «egli può avvicinarsi più
efficacemente alla perfezione di colui del quale è rappresentante» , rendendo
sempre più trasparente il proprio cammino di maturazione spirituale e la propria
risposta vocazionale.
Un presbitero che si dedica al lavoro pastorale ha già fatto la scelta di
disponibilità totale alla sequela di Gesù Cristo, che lo impegna a conformarsi a
lui dedicandosi con amore ubbidiente alla porzione di chiesa che è affidata alla
sua cura. Questa scelta di vita, però, deve rinnovarla lungo il cammino di
maturazione umano-spirituale, per aderire con libertà e fermezza alla chiamata
di Dio.
«Perché il suo ministero sia umanamente il più credibile e accettabile, occorre
che il sacerdote plasmi la sua personalità umana in modo da renderla ponte e non
ostacolo per gli altri nell’incontro con Gesù Cristo Redentore dell’uomo» . La
sua vocazione, quindi, comporta questo compito di trasformazione e di
conversione personale, che si traduce in una continua fedeltà a una spiritualità
di dedizione che sia per il bene della chiesa e sulle orme del buon Pastore. Ciò
implica un cambiamento del cuore e della mente, per integrare la chiamata divina
con la propria realtà umana ed esistenziale, in modo da vivere il servizio del
proprio ministero come un’autentica testimonianza di carità . Essere fedeli
all’amore di Cristo vuol dire curare la propria capacità di amare ma anche
prendere sul serio il processo di crescita permanente inteso come metodo di vita
che aiuta a essere docili alla voce dello Spirito, per imparare dal Vangelo
l’arte della dedizione totale agli altri.
Il prete, uomo del cuore secondo il modello di Cristo
La condizione per un amore sacerdotale autentico è la capacità di crescere
nell’amore di Dio lungo il cammino della propria esistenza. Amare pastoralmente
le persone vuol dire accettare questa esortazione divina e tradurla in una
testimonianza continua e coerente, che richiede vigilanza e consapevolezza. Dice
Enzo Bianchi: «vigilare su se stessi, aver cura di se stessi, è una condizione
necessaria per la qualità del ministero e la fedeltà ad esso» . Ciò comporta una
continua conversione e maturazione affettiva che educa il presbitero a
realizzare costantemente i valori superiori della propria crescita, senza
regredire a forme ambivalenti di permissivismo superficiale e mediocre, oppure
di onnipotente e rigido narcisismo .
Non si può quindi parlare di vocazione presbiterale senza riferirsi al processo
di crescita che ogni sacerdote avvia lungo il percorso della propria esistenza,
nel proprio modo di essere e di amare. Non possiamo pensare che, per il solo
fatto di essere a servizio degli altri, o perché depositario di un mandato
ministeriale, il prete sia “naturalmente altruista”. Si tratta invece di un
lavoro di continua conversione ai fratelli e alle sorelle con cui lavora, per
essere disponibile «a farsi epifania e trasparenza del buon Pastore che dà la
vita» .
Tale ottica pedagogica della capacità di amare del prete contrassegna non tanto
la quantità delle sue azioni e dei suoi progetti pastorali, ma la qualità, cioè
il modo con cui si dedica alle persone. Egli quindi potrà rispondere alla sua
missione sacerdotale se si lascia lui stesso trasformare dall’amore di Cristo,
per assumere uno stile dedicazionale qualitativamente orientato verso le persone
e verso le loro reali richieste, motivato e sintonizzato con le aspirazioni
profonde del metodo evangelico. Solo così egli vivrà, sull’esempio di Cristo, un
atteggiamento di autentica carità pastorale, connaturale al suo essere sacerdote
e coerente con le sue scelte esistenziali.
È questa centralità di un amore autentico, mediato da un profondo cammino di
fede, che dà significato ai suoi comportamenti e alle sue scelte pastorali,
anche quando vive emozioni difficili e negative, o quanto è stanco, o quando ha
un carattere problematico, o quando la gente non corrisponde alle sue
aspettative . La carità pastorale non può restare imprigionata nel torpore del
proprio egoismo, deve invece aprirsi con un atteggiamento di costante ricerca,
al mistero di Dio presente nei fratelli e nelle sorelle che sono affidati alla
cura del ministero sacerdotale. Diversamente, un amore senza fede e senza questa
chiarezza allocentrica potrà anche essere una buona azione sociale imperniata
sul fare di più o fare meglio, o potrà anche alleviare i propri sensi di colpa
dinanzi alle richieste della gente, ma non corrisponde all’amore di Cristo.
Quando manca la chiarezza vocazionale
I preti sono importanti e sono una ricchezza per la chiesa intera. Il loro
ministero sacerdotale è un dono da accogliere ma anche una risposta concreta da
dare ogni giorno attraverso la testimonianza schietta e autentica del Vangelo,
vissuta e realizzata con uno stile di vita pastorale che lasci trasparire
l’amore di Dio nelle diverse situazioni in cui ognuno opera. Eppure, la dignità
del loro ministero non li esime dal riconoscere le difficoltà, le tentazioni e
le debolezze che a volte scuotono e mettono a dura prova il cammino verso la
santità. La fedeltà al dono ricevuto non è per niente scontata, per cui «anche i
presbiteri, immersi e agitati da un gran numero di impegni derivanti dalla loro
missione, possono domandarsi con vera angoscia come fare ad armonizzare la vita
interiore con le esigenze dell'azione esterna» .
Pertanto, integrare la chiamata vocazionale con le vicende umane di ognuno
implica una partecipazione attiva e permanente al proprio processo di crescita.
Le diversità culturali, le difficoltà di comprensione e di collaborazione, la
complessità della propria storia psichica, i disturbi della propria affettività…
sono soltanto alcune delle condizioni che possono mettere a dura prova l’armonia
tra vita interiore e azione esterna. Disorientati dalle tante emergenze di una
pastorale che li vuole sempre al meglio, anche i preti quindi possono avvertire
la fatica delle loro fragilità e delle loro debolezze, specialmente se non
riescono a porsi dei limiti nella loro dedizione né sanno prendersi cura di se
stessi!
Ognuno di loro, pertanto, ha il compito di tutelare la propria storia di
maturazione, in modo da vivere la missione come un’opera di santificazione da
realizzare nel quotidiano. Per questo occorre prendere sul serio il disagio e la
confusione che a volte essi avvertono, soprattutto quando smarriscono il
significato del loro coinvolgimento vocazionale ed entrano in una spirale di
ambiguità che compromette la loro identità più profonda.
Il pericolo di una pastorale centrata sulle tante cose da fare è che col tempo
essa logora non solo le energie fisiche ma anche le certezze motivazionali della
persona: la fatica che ne deriva non riguarderà solamente il carico di lavoro, o
le poche ore di sonno, o le tante riunioni da attendere, o i momenti di
preghiera mancati. Ma sarà una fatica di tipo esistenziale, che emerge con
sempre più forza man mano che l’individuo non riesce più a dare un senso alla
sue difficoltà o alle sue crisi psico-affettive, lasciando così atrofizzare la
chiarezza profetica della propria vocazione sacerdotale.
Per spiegare questa spirale disadattiva sono stati impiegati termini diversi
(“nevrosi pastorale”, “malattia dello spirito”, “crisi spirituale o di senso”,
“rischio di mediocrità”, “interrogativo angosciante”), ma con la comune
accezione di un malessere che si insidia nelle radici spirituali e carismatiche
del suo essere prete.
Succede così che quando vacilla la chiarezza vocazionale, o quando è soppiantata
da uno stile di vita normalmente apatico e superficiale, anche il modo di amare
nonché la stessa carità pastorale ne risentirà negativamente. È il caso di chi
si accontenta di fare il minimo indispensabile, o di chi riduce il ministero a
un attivismo sterile, che però preclude la creatività dello Spirito. «Pur con
tutto il loro zelo, si ha tuttavia l’impressione che queste persone non irradino
nulla dell’amore e della bontà di Cristo. Da esse non traspare neppure alcun
entusiasmo. Tutto ha il sapore della pedanteria, della rigidità. Sono individui
pignoli, privi di gioia, duri nel giudizio, pieni di sé» .
Vita sacerdotale a rischio di immaturità?
Nel loro lavoro i preti vivono situazioni che richiedono un continuo adattamento
e una capacità di rinnovamento carismatico, per portare avanti le loro attività
con un senso di coesione e di unità interiore. Eppure, nonostante questa
insistenza sulla centralità delle motivazioni spirituali, si assiste a volte a
una crisi di credibilità e di coerenza che scuote il loro modo di essere e di
vivere, soprattutto quando assumono uno stile di vita che è in contraddizione
con il carattere profetico della loro vocazione apostolica. Inoltre, il
confronto con un mondo che relativizza i valori e gli ideali può mettere ancor
più a nudo le loro fragilità interne svilendo la ricchezza della missione
evangelica a favore di facili compromessi con le mode del momento, o con le
false aspettative su di sé o sulla gente.
Le conseguenze di questa ambiguità spirituale e motivazionale possono essere
disastrose quando riflettono il divario tra le parole professate e alcune
relazioni pastorali ambigue, tra le prospettive ideali di dedizione e uno stile
di vita poco significativo; fino a tradursi in atteggiamenti anomali se non
addirittura devianti, nel modo di essere e di relazionarsi. In effetti, quando
ci si allontana dalla specificità profetica della vita sacerdotale trovano
terreno fertile tanti episodi disfunzionali, che sono indicatori di un malessere
che va oltre gli eventi patologici e investe la radicalità del messaggio
evangelico.
È lecito allora parlare di disagio psichico nella vita sacerdotale? Oggi che si
sente il bisogno di recuperare il senso carismatico di questo ministero, direi
che è doveroso, non soltanto in riferimento ai casi diagnosticabili con chiare
patologie psico-affettive, ma anche per il clima di mediocrità che a volte
sembra sdoppiare e sfuocare la missione apostolica dinanzi alle sfide del mondo
attuale. Tale preoccupazione può diventare una preziosa occasione per imparare a
dare priorità a un processo formativo che aiuti veramente a vigilare sui doni
ricevuti e a prendere chiare posizioni educative, soprattutto quando la fedeltà
diventa più difficile per le inettitudini psicologiche che possono turbare la
stabilità psico-affettiva del soggetto.
Per cui, prendersi cura della propria storia vuol dire custodire questo
atteggiamento di consapevolezza e di attenzione verso se stessi, ma anche di
gratitudine propositiva verso colui che chiama al servizio dell’amore pastorale,
cogliendo le tante opportunità di crescita umana e spirituale che emergono lungo
il cammino della vita. Ma vuol dire anche saper guardare alle proprie difficoltà
pastorali con un’ottica di sano realismo, assumendosi la responsabilità delle
proprie scelte perché siano coerenti con il progetto vocazionale, imparando a
differenziare con onestà e rettitudine i valori positivi presenti dalle
situazioni disfunzionali.
Un’immaturità affettiva che viene da lontano
È possibile che quanti hanno accolto l’invito del Signore a vivere un amore
perfetto fatto di totale dedizione agli altri, possano essere affettivamente
immaturi? O dobbiamo supporre che il loro status li dispensa da tale rischio?
A sollevare questi interrogativi concorrono non solo le notizie di cronaca sui
crimini della pedofilia tra il clero, ma anche molti studi relativi alle
difficoltà affettive dei preti nel campo della pastorale. Già negli anni ’70
Rulla aveva sottolineato le conseguenze negative di certe disfunzioni affettive
nella struttura di personalità di quanti intraprendevano la vita religiosa o
sacerdotale. In particolare egli aveva osservato che le loro difficoltà
psico-affettive non erano un fatto episodico o accidentale ma riguardavano
“inconsistenze psichiche centrali” che mettevano a nudo un certo contrasto –
riscontrabile anche negli anni successivi alla formazione di base – tra i valori
proclamati e le motivazioni subconscie del soggetto .
Anche oggi, alcuni studi clinici più recenti effettuati tra il clero confermano
tali affermazioni, soprattutto in riferimento ai disturbi dell’area affettiva e
delle relazioni con la gente. In effetti, quanti vivono un’affettività poco
integrata tendono ad avere una cattiva qualità di vita e uno stile
interpersonale ambiguo e inadeguato con la gente .
Le conseguenze saranno ancora più negative se il soggetto non è consapevole
degli aspetti trasferenziali o comunque non è preparato a integrare i propri
bisogni o i propri vissuti intrapsichici con quelli dell’ambiente relazionale
con cui lavora pastoralmente. Quando non riesce a stabilire chiari confini nel
suo modo di essere e di amare, attiverà relazioni disfunzionali e confusive che
generano malessere e disorientamento dentro di sé e attorno a sé.
Se poi questi comportamenti sono associati a una storia psichica vulnerabile e
fragile, la persona riproporrà dei meccanismi nevrotici che interferiscono con
il normale funzionamento nella vita relazionale quotidiana, creando problemi che
si ripercuotono sia sulla sua struttura di personalità che sull’identità
profetica del gruppo di appartenenza (la fraternità sacerdotale, la comunità
religiosa, la diocesi, ecc.), creando delle condizioni istituzionali poco
compatibili con le scelte vocazionali esteriorizzate nei ruoli o nelle funzioni
pastorali.
Per evitare tale disagio, spesso il soggetto tende a normalizzare i
comportamenti devianti con forme di adattamento che, se da una parte servono ad
attenuare il senso di incongruenza tra comportamenti esterni e ideale
professato, dall’altra sottendono un’affettività immatura che col tempo diventa
difficile da controllare.
Un esempio per capire di più
Facciamo un esempio . Prendiamo il caso di un prete che si prodiga anima e corpo
nella dedizione verso i suoi parrocchiani; egli vede che riesce bene nel suo
lavoro e ne è soddisfatto. Non solo, ma anche gli altri riconoscono che è un
tipo affabile e ben disponibile, sempre sensibile alle condizioni e alle
situazioni che la gente gli presenta.
Questa sua attenzione, però, è diventata problematica da quando ha avuto degli
atteggiamenti invadenti e inopportuni nei confronti delle persone che gli erano
più affezionate. Nessuno, comunque, glielo faceva notare, né la gente né i suoi
stessi confratelli. Anche perché, in fondo, il suo lavoro lo faceva bene, anzi
per certi compiti pastorali era la persona di cui si potevano proprio fidare.
Infatti, era sempre disponibile, aperto e attento ai bisogni di tutti,
soprattutto dei più giovani.
Senza accorgersene, però, questa sua sollecitudine era diventata sempre più
assillante e insistente. Forse era il segno di un bisogno conflittuale di
dipendenza affettiva che a tratti emergeva con più forza, ma che normalmente era
velata da un fare altruistico vissuto in tutta buona fede.
In effetti, nonostante si sentisse accolto e amato, avvertiva un sottile disagio
interiore, come se non riuscisse a colmare appieno il vuoto affettivo che
sentiva dentro di sé. Benché con la sua insistente disponibilità riuscisse ad
ottenere – forse inconsapevolmente – un senso gratificante di protezione e
sicurezza, necessario per non sentirsi abbandonato dalle persone a cui si legava
affettivamente. Fino a quando non successe qualcosa che lo ha particolarmente
turbato.
Uno dei suoi giovani si era confidato con lui a proposito dei problemi che aveva
con la sua famiglia. Durante i loro incontri, gli ha anche rivelato il suo
timore di essere omosessuale e la sua paura di sentirsi abbandonato e isolato
dai suoi amici. Il prete si è sentito molto vicino a lui, anzi si è identificato
con la sua situazione, perché anche lui, nonostante i suoi sforzi e la sua buona
volontà, aveva spesso la sensazione di essere messo da parte nel suo lavoro con
la gente, non capito, isolato. Dentro di sé avvertiva che quel giovane non era
soltanto qualcuno che stava cercando dei consigli, ma lo sentiva come un amico.
Poco alla volta cominciò anche lui a rivelargli di aver avuto simili paure e di
essersi sentito solo. Nei loro colloqui, sia il prete che il giovane si
sostenevano reciprocamente. Iniziarono pure a frequentarsi passando del tempo
insieme. Quando si salutavano avevano preso l’abitudine di abbracciarsi. Col
tempo i loro abbracci diventarono più lunghi, ma il prete li sperimentava come
un segno affettuoso di amicizia fraterna. Restò scioccato quando il giovane più
tardi gli disse di essersi sentito confuso e sessualmente molestato.
Ampliando la nostra riflessione ai diversi vissuti di immaturità affettiva nel
clero, possiamo dire che queste dinamiche disfunzionali sono spesso vissute con
un basso livello di consapevolezza. L’individuo, cioè, potrebbe continuare a
vivere i rapporti come “normalmente” coinvolgenti e pastoralmente necessari,
casomai con tutta una serie di giustificazioni che, se da un lato lo confortano
nella sua “buona fede”, dall’altro alimentano pettegolezzi e pregiudizi verso di
lui.
D’altra parte, certi stili relazionali (come quello riportato nell’esempio)
apparentemente innocui, possono celare alcune rigide convinzioni o pregiudizi
interiorizzati, su di sé, sugli altri e sul mondo che, se enfatizzati o
persistenti, incidono negativamente sulla struttura psichica nonché sul sistema
di adattamento dell’individuo, fino a diventare altamente patogeni. Inoltre,
quando i comportamenti disfunzionali sono associati ad altri disturbi
psico-affettivi, l’individuo può reagire con un disagio profondo che si
ripercuote sulle proprie scelte e sulla stessa identità presbiterale .
Disorientato dalle sue stesse incongruenze e confermato dalla vulnerabilità del
proprio sistema emozionale, il soggetto potrà sentirsi profondamente inadeguato
e incapace di dare un senso a quello che sta vivendo. Per proteggersi da tutto
ciò, utilizzerà un sistema difensivo di ripiego, inteso a contenere gli
squilibri affettivi che però restano immutati dentro di sé. Mentre all’esterno
si adatterà a uno stile di vita povero e carente sul piano delle motivazioni e
delle scelte, adottando comportamenti negativi, di ritiro emotivo, cinismo,
negativismo, insoddisfazione continua, dipendenza affettiva, depressione.
Queste “soluzioni”, se da un lato compensano un’affettività sregolata e poco
equilibrata, espressa con un ritmo di vita dispersivo e disordinato, dall’altra
servono a giustificare se non a normalizzare il senso di svuotamento interiore,
operando una sorta di scissione schizofrenica tra ideale professato e stile di
vita praticato.
Se eserciti la cura d’anime, smettila di trascurare te stesso!
Quali indicazioni dare per integrare la chiamata vocazionale con le esigenze e
la complessità della vita reale? Anzitutto occorre ridare una giusta valutazione
agli aspetti formativi che accompagnano il processo di maturazione del singolo.
La sensazione è che purtroppo «di formazione permanente si parli parecchio, ma
se ne faccia poca, o che addirittura vi siano ancora idee piuttosto confuse al
riguardo, come se la formazione permanente consistesse nei corsi straordinari di
aggiornamento» .
Ora più che mai credo che a ragione si possa parlare di una vera e propria
emergenza educativa per preti e religiosi, in particolare quando sono impegnati
spiritualmente e affettivamente con i vissuti della gente. È un’esigenza oramai
necessaria, perché quando emergono delle inconsistenze psico-affettive o quando
la loro affettività è dissociata dall’identità sacerdotale, i comportamenti
disfunzionali che emergono devono essere prontamente confrontati e allo stesso
tempo occorre ravvivare le certezze motivazionali della loro vocazione.
Per questo serve ripensare profondamente la formazione permanente nello stile di
vita dei presbiteri e nella vita consacrata, svincolandola da una concezione
pressappochista e superficiale, oppure da una visione semplicistica e poco
competente che la relega a eventi straordinari di aggiornamento o a
miracolistici anni sabbatici. Bisogna invece riscoprirla come un vero metodo di
vita, che aiuti le persone a integrare le diverse dimensioni umane (compresa
quella affettiva) con il cammino di conversione spirituale, perché con questa
prospettiva di crescita integrale le persone possano imparare a essere fedeli al
proprio progetto vocazionale.
Solo equilibrando la vigilanza su di sé con una chiara opzione di fede si
potranno acquisire degli atteggiamenti attentivi che aiutino a valutare e a
discernere nello stile di vita ciò che è incompatibile con la propria storia
vocazionale. Senza mai stancarsi, anche quando è più difficile! Riconoscere le
difficoltà come parte della propria esperienza pastorale sta a significare che è
possibile avvertire il peso e la fatica delle proprie incongruenze, fino a
decidere di aderire in modo nuovo e autentico a Cristo con un itinerario di
effettiva conversione personale ed interpersonale.
In altri termini, è importante saper reagire dinanzi alle difficoltà,
ripristinando il sostegno interiore centrato sulle motivazioni di fondo e sul
proprio cammino spirituale. Quando la persona avverte i segni di un divario
sempre più marcato tra fede e vita, deve imparare non solo a riconoscere le
proprie contraddizioni ma anche a ri-sintonizzarsi con le motivazioni
evangeliche della sua dedizione, senza negare le problematiche che vive, ma
orientandosi verso scelte decisamente improntate sull’esempio di Cristo buon
Pastore!
A tale orientamento può e deve contribuire anche l’ambiente relazionale di
appartenenza, poiché tutti i presbiteri, in quanto cooperatori della verità,
sono responsabili della crescita e della santità del loro sacerdozio comune,
specialmente «nei confronti di coloro che soffrono qualche difficoltà» . Per
questo giova guardare con viva preoccupazione ma anche con sollecitudine alle
diverse situazioni di immaturità affettiva, per sostenere amorevolmente chi vive
momenti difficili, ma anche per stimolarli autorevolmente e con adeguati
ammonimenti, a ricostruire uno stile di vita coerente con il Vangelo.
Questa ottica propositiva aiuta a considerare la fedeltà alla chiamata non solo
come frutto di buone intenzioni o di codici di prescrizione incentrati sulla
riparazione apparente della condotta esterna, ma come una continua e rinnovata
risposta al progetto di Dio, che coinvolge la totalità della persona nei suoi
elementi inconsci e nelle dinamiche socio-affettive.
È tempo quindi di intendere la formazione permanente come un “assoluto
necessario” (e non un optional facoltativo, come purtroppo spesso succede!) di
questo processo di strutturazione della personalità presbiterale sollecitata
continuamente dal Magistero della chiesa , che ravvivi l’itinerario di crescita
e di cambiamento, anche quando emergono le reali difficoltà del singolo, senza
lasciarle inascoltate o senza relegarle a fatti marginali da risanare o da
accomodare. Ma, al contrario, integrandole con chiare opportunità di scelta, per
«riaccendere come si fa per il fuoco sotto la cenere, il dono divino, nel senso
di accoglierlo e di viverlo senza mai perdere o dimenticare quella “novità
permanente” che è propria di ogni dono di Dio, di Colui che fa nuove tutte le
cose, e dunque di viverlo nella sua intramontabile freschezza e bellezza
originaria» .
Solo così sarà possibile riscoprire il proprio cammino di perfettibilità e di
santificazione come un processo evolutivo che permette di elaborare delle
risposte efficaci che siano coerenti con la propria vocazione, sulla base di un
comune rinnovamento interiore e di una permanente fedeltà alla comunione col
Cristo.