C’è chi distingue tra “essere soli” (separazione spaziale dagli altri, sentimento neutrale), “isolamento” (sentirsi respinti o tagliati fuori, esperienza dolorosa) e “solitudine” come stato di serenità/tranquillità. Certo, per quanto riguarda la solitudine religiosa (di consacrate/i e preti) si sta fortunatamente uscendo dalla logica che la considera o pedaggio da pagare al proprio essere vergini o un bene cercato per proteggersi dalle tentazioni.
Macario, padre del deserto, descriveva l’inferno con l’immagine di prigionieri che stanno schiena contro schiena senza potersi guardare in viso. Il noto sociologo Bauman, riflettendo sulla solitudine del cittadino globale, teorizza che l’indebolimento della comunità è causato dalla conquista della libertà individuale: sappiamo che senza comunità siamo più deboli, ma non vogliamo correre il rischio di perdere autonomia e libertà. Comunque, in una società che fa un mito della privacy, sembra emergere anche un bisogno congenito di negare proprio l’esperienza della solitudine.
Chi si consacra a Dio nella vita sacerdotale e religiosa, nel contesto attuale, sa che sempre lo aspetta un certo tipo di vita, in cui si crea uno spazio che resta vuoto, un istinto che non ottiene gratificazione. Occorre allora mantenere viva la coscienza di una solitudine che non c’entra niente con l’ordinazione o la professione, ma che è espressione di immaturità corrosiva dello sviluppo relazionale e che si chiama chiusura in se stessi, paura di abbandonarsi, di condividere, di mostrare fragilità ecc.
Insomma, la solitudine ci offre sempre ora uno squarcio di cielo, ora una visione di inferno. L’atteggiamento nei confronti nei suoi confronti è dunque particolarmente contraddittorio. La si cerca, ma allo stesso tempo la si teme. Mentre ci si preoccupa di favorire ed eventualmente curare le relazioni interpersonali per un maggiore benessere, non si registra uguale attenzione all’importanza del raggiungimento della capacità di stare soli con se stessi. In realtà, solo chi è in grado di sperimentare la solitudine senza angoscia non corre il rischio di annullarsi nell’altro o di rivolgersi all’altro in modo strumentalizzante, ricattatorio o vittimistico.
Il riconoscimento e l’accettazione di sé, che una positiva esperienza di solitudine comporta, sta alla base della disponibilità a riconoscere e accettare gli altri. Il successo di una buona relazione con gli altri poggia dunque sulla capacità di essere soli.

Il filo di Arianna
Il recente testo del prof. Vittorio Luigi Castellazzi (psicologo clinico, psicoterapeuta e psicoanalista, da più di trent’anni docente all’Università Salesiana di Roma) ci aiuta esattamente a scoprire l’importanza della solitudine senza perdere di vista il valore della relazione con gli altri.
Il senso del suo percorso è dato, nell’introduzione (pp. 9 e ss.), da una frase di De Montaigne: «Ritiratevi in voi, ma prima preparatevi a ricevervi. Sarebbe una pazzia affidarvi a voi stessi, se non vi sapete governare C’è un modo di fallire nella solitudine come nella compagnia».
Con questa luce, l’A. ci accompagna con sicurezza, in venti brevi tappe, snodando idealmente un filo di Arianna che ha lo scopo di orientarci alla scoperta di un vero e proprio labirinto della solitudine. Si parte dai volti e dal senso di solitudine (nei capitoli I-II), per proseguire poi con le modulazioni della solitudine (la nostalgia, la coscienza di essere soli, il ritrovamento di sé, essere se stessi, la relazione con la creatività, l’apertura al nuovo e disponibilità alla verità (capitoli III-VIII), passando per quegli snodi che si chiamano comunicazione, silenzio e isolamento (capitoli IX-XII), fino a incontrare i diversi volti della solitudine “infelice” (il narcisista, l’invidioso, lo schizoide, il depresso e lo psicotico; vedi i capitoli XIII-XVII). Molto stimolante per un formatore la disamina, posta alla fine del volume, sulle principali vie di fuga dalla solitudine attraverso il conformismo, la bulimia del “fare gruppo”, l’altruismo a oltranza, l’iperattività (capitolo XVIII).

Il pendolo: solitudine e socialità
La conclusione è semplice e saggia: le persone oggi sono in difficoltà sia quando stanno sole che quando stanno con gli altri (pag 127 e ss,). La vera felicità, afferma il nostro A., consiste nel gestire un movimento pendolare tra solitudine e socialità: infatti «chi desidera comunione senza solitudine, precipita nella vanità delle parole e dei sentimenti; chi cerca la solitudine senza la comunità, perisce nell’abisso della vanità, dell’infatuazione di se stesso, della disperazione» (Bonhoeffer).
La vera soluzione dell’inquietudine, nel socio-culturale attuale, sta allora nell’evitare di esaltare o di maledire sia la solitudine che la socialità. Entrambe infatti sono in grado di rivelare un itinerario prezioso per la propria crescita. Ecco in sintesi alcuni spunti per incoraggiare a leggere un saggio che ci sembra utile tanto per gli animatori vocazionali che per gli accompagnatori spirituali (importante la ricca bibliografia sul tema).

Vittorio Luigi Castellazzi
Dentro la solitudine. Da soli o infelici?
Edizioni Magi, Roma 2010, pp. 144, € 12,00