Il periodico “Sequela Christi” della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica ha dedicato il n. 2 2009 al tema Ordine sacro e vita consacrata. Nello stile di Cristo e del suo Vangelo. Da questo quaderno riprendiamo, con la debita autorizzazione, in vista anche della Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni del 25 aprile prossimo, l’articolo di Giovanni Dalpiaz, sulla Presenza dei presbiteri nella vita consacrata. Note sociologiche, in cui l’autore tenendo presenti i cambiamenti in atto sul piano mondiale, presenta una vasta panoramica dell’andamento delle vocazioni, con particolare attenzione a quelle di vita consacrata. Ne risulta un quadro molto complesso che si colloca in una Chiesa il cui centro non è più ormai l’Europa, ma sempre più il sud del mondo, con tutti i problemi che ne derivano e ne potranno derivare con l’andare degli anni. Anche l’identità presbiterale del religioso risulta è in fase di trasformazione – ed è questa una conclusione a cui giunge l’autore – nel senso che si sta avviando un processo di assimilazione del religioso presbitero all’interno di quella del prete diocesano. Sono dati che aprono la porta a tutta una serie di considerazioni, che qui sono appena indicate, ma che nessun istituto potrà d’ora in poi ignorare.


Una peculiare forma di globalizzazione sta trasformando la presenza e la distribuzione dei cattolici su scala mondiale.
Se nel 1900 i1 56% dei cattolici risiedeva in Europa alla fine del secolo, nel 1999 solo il 27% risulta europeo, il rimanente 73% è ormai sparso tra America Latina (43%), Africa (12%), Asia (11%), Nord America (7%).
Nell'arco di un secolo è mutata la vitalità interna della Chiesa e ciò inevitabilmente si riflette sulla presenza e distribuzione del personale ecclesiastico. Mentre nel Sud del mondo in seguito a una più elevata na¬talità e a un maggior impegno nell'evangelizzazione cresce il numero dei battezzati, al Nord il cattolicesimo conosce l'inverno della secolariz¬zazione, respira la stanchezza di società ricche e invecchiate e anche quando al suo interno emerge un desiderio di spiritualità esso non si identifica, se non per vaghe assonanze simboliche, con la tradizione teologica cristiana. In Europa il cattolicesimo nelle sue forme storiche e istituzionali, ma ciò vale più in generale per il cristianesimo nel suo insieme di chiese e confessioni, sembra non interessare più, i suoi riti malgrado riforme e ritorni all'antico non attirano, anzi per molti an¬noiano, la religiosità che pare emergere come più dinamica è quella strettamente individuale, una teologia "fai da te": tendenzialmente sincretista, che elabora un paradigma del credere e una etica a pro¬pria misura. Tuttavia è proprio tra Nord America ed Europa, aree di un forte radicamento ecclesiale oggi in netto declino, che ancora vive ed opera la maggior parte del personale ecclesiastico (Tab. 1).

Europa. verso l’esaurimento di un ciclo

Sintomatica è al riguardo la posizione europea: nel 2007 vi risiedeva il 25% dei cattolici e simultaneamente il 40% dei religiosi, il 50% dei preti diocesani e il 42% delle religiose. Se il numero dei personale ecclesia¬stico deve avere una qualche relazione di proporzionalità con l'insieme del popolo di Dio in funzione del quale esprime la propria vocazione è evidente lo sbilanciamento. Tale abbondanza di vocazioni in passa¬to ha alimentato quel flusso vocazionale che sta a monte dell'odier¬no sviluppo, in altri continenti, di una cattolicità vivace nella espres¬sione della propria fede e in crescita non solo quantitativa. Tuttavia la sfasatura che i numeri attuali evidenziano è in rapido superamen¬to. La cattolicità europea non è più espressione di una spiritualità e di una concezione del divino nella quale la società si ritrovi in manie¬ra unitaria e ampiamente condivisa, divenendo forza capace di com¬porre le diversità di lingue, etnie, classi sociali, ecc. in un quadro uni¬tario. Il riferimento alla tradizione cristiana si sta trasformando e dif¬ferenziando al proprio interno, indebolendosi pertanto nella sua forza di offrire alla società una accettata e comune visione religiosa della vita. Da un lato infatti troviamo la cristianità che si sente, e si rappresenta, come minoritaria, obbligata dalla pressione di un "mondo" secolarizzato e religiosamente indifferente a stare sulla difensiva.
Una minoranza certo ancora importante e in alcuni paesi europei, qua¬lificabile come la più rilevante delle minoranze, ma che in quanto tale deve di fatto negoziare con altri gruppi sociali e culturali gli spazi del pro¬prio agire. Dall'altro c'è nella società una maggioranza per la quale il ri¬ferimento alla tradizione religiosa, depotenziandosi nei suoi contenuti teologici, si fa tratto culturale che accompagna con i suoi riti alcune tappe della vita (battesimo/nascita, prima comunione/ infanzia, matrimo¬nio/ età adulta, funerale/morte) senza però che ciò significhi vera e con¬vinta adesione al contenuto etico e dogmatico di quanto si viene a cele¬brare. In tale direzione si muovono anche coloro che assumono il cattolicesimo come elemento di identità sociale, utilizzando il discorso religioso per marcare la differenza, rispetto a chi è diverso-da-noi (pre¬valentemente identificato con l'immigrato), negando pertanto in radice l'universalità, ossia la cattolicità, del messaggio evangelico. Pertanto il cre¬dere in Dio, cercare nella religione forza e conforto delinea uno spazio del "religioso" che non è né automaticamente né esaustivamente so¬vrapponibile al sentirsi parte della Chiesa o più in generale di una istituzione religiosa. Sta in questo quadro religioso la ragione profonda, difficilmente modificabile nel breve periodo, per la quale pur in un contesto di non-ostilità verso la Chiesa si viene a ridurre drasticamente nel passaggio da una generazione all'altra il numero di coloro che chiedono di impegnarsi nel presbiterato diocesano o nella vita re¬ligiosa, maschile o femminile. Nell'insieme però le strutture della pre¬senza territoriale (parrocchie, comunità religiose, opere) ancora ten¬gono anche se con sempre più evidente fatica. Infatti, le migliorate condizioni materiali hanno concorso ad allungare d'alcuni anni la du¬rata media dell'esistenza e quindi le minori vocazioni sono state com¬pensate, nell'immediato, da un prolungamento della vita.
Ovviamente pur vivendo di più non per questo si diventa anche più gio¬vani e in ogni caso prima o dopo giungerà il tempo di dover fare i conti con il fatto che non vi sono più le risorse umane per poter dare continuità alla presenza ecclesiale come si è venuta sviluppando negli ultimi duecento anni. Siamo quindi di fronte all'esaurirsi di un ciclo nella storia ecclesiale, come ve ne sono stati altri nel passato.
Spesso si pensa alla vita della Chiesa come ad un processo lineare di crescita e sviluppo.
Questo può essere un paradigma utile per spiegare la dinamica teologica, mentre dal punto di vista organizzativo e sociologico abbiamo, com'è usuale nella vita sociale, un alternarsi di fasi d'espansione con altre di contrazione. Il passaggio da un ciclo all'altro coincide talvolta con l'estinzione, o il declino, di modelli istituzionali già collaudati e la na¬scita di altri che si rivelano più adeguati ad intercettare nuove istanze spirituali, culturali, sociali. Non mi pare corretto rappresentarsi l'attuale fase di declino numerico e strutturale della vita delle comunità cristiane in Europa e Nord America come “la fine”, mentre è, al più, solo “una fine”, come ve ne sono state altre nella vicenda della Chiesa.
A smentire in ogni modo le prospettive catastrofiche, espressioni ben comprensibili in coloro che sentono sulla propria pelle il peso del cre¬scente affaticamento, la delusione per non riuscire a garantire conti¬nuità ad opere che sono al servizio dell'annuncio evangelico, vi sono i dati che vengono da altri continenti.

In Africa, Asia sviluppo di forze nuove

In Africa, Asia e per certi aspetti pure in America Latina (Tab. 2) c'è svi¬luppo e forze nuove si aggregano dando vigore alla presenza ecclesiale. Qui c'è da accompagnare una fase di crescita che significa anzitutto at¬tenzione al discernimento vocazionale, impostare e realizzare adeguati livelli di formazione teologica, ma anche impegnarsi per costruire nuovi edifici, impostare opere, progettare presenze pastorali.
Nella Chiesa si vivono due tensioni: da un lato al Nord si ragiona su come ridimensionare le presenze pastorali tenendo conto del declino nella partecipazione al culto, ai sacramenti, all'impegno nella testimonianza attiva della fede e al calo/invecchiamento del personale ecclesiastico. Nel Sud del mondo la dinamica è invece di tutt'altro segno: ampliare, creare nuove presenze, accogliere e formare vocazioni desiderose di impegnarsi nell'apostolato. Lì dove la Chiesa è stata per secoli presenza forte e au¬torevole, ora si trova in condizione di minoranza, formalmente rispettata, ma scarsamente seguita nei suoi insegnamenti, priva di giovani vocazioni. Mentre nei paesi di più recente evangelizzazione c'è vivacità, crescita, partecipazione, entusiasmo. Noi siamo dentro questa transizione e, a seconda del punto di vista che assumiamo, possiamo con uguale ragione parlare di una fine o ottimisticamente prospettare un nuovo inizio. Quella ripresa della presenza ecclesiale auspicata come frutto del rinno¬vamento conciliare non è avvenuta, come la gran parte si aspettava in Eu¬ropa e Nord America, anzi qui la crisi già presente prima del concilio Va¬ticano Il, si è aggravata, ma la si è realizzata altrove: in Africa, in Asia e, almeno in parte, in America Latina.

Spostamento del centro della Chiesa

Settant'anni fa si poteva sensatamente dire che il "centro" della Chiesa era in Europa dove non solo si trovava la maggioranza dei battezzati ma vi risiedeva la gran parte del personale ecclesiastico. I seminari europei accoglievano vocazioni in numero sufficiente non solo per garantire il ricambio generazionale "interno", ma sacerdoti e religiosi potevano essere inviati in missione. Era una situazione nella quale, parafrasando un'asserzione corrente, si poteva parlare non solo di radici cristiane dell'Europa, ma altrettanto sensatamente affermare che la Chiesa aveva radici euro¬pee, un legame che ora si va rapidamente allentando, pur permanendo ancora una certa prevalenza europea per quanto riguarda il personale ec¬clesiastico (Tab. 1 e 2 ), primato fragile a motivo dei molti anziani e po¬chi giovani. Il continente che per quasi duemila anni è stato lo spazio centrale per la cristianità, società che ha dato alla Chiesa testimonianze di santità, pensatori e scuole teologiche, innovatori creativi e audaci, riceven¬done idee e modelli organizzativi, ora è incerto, religiosamente sempre più debole, sempre meno capace di attrarre, di proporre.
Nello stesso tempo non si scorge una società o un'area geografica che possa essere individuata come un nuovo "centro" della cattolicità. Vi sono paesi indubbiamente vivaci per capacità di annuncio e aggrega¬zione di nuovi credenti, altri lo sono per dinamismo vocazionale, alcuni a motivo della riflessione teologica, eppure in nessun caso (almeno per ora) si può dire: ecco questo è "centro", è il luogo dove la gran parte con¬verge e dal quale vengono progetti, orientamenti, idee aventi corso an¬che al di fuori dell'ambito locale.

L’andamento negli istituti religiosi

 

Può anche darsi che in un mondo avvolto nella rete della comunicazione istantanea, nello scenario della globalizzazione sia improprio cercare un centro perché simultaneamente se ne hanno molti, in una realtà "policentrica" ogni nodo della rete può per un certo tempo e per un periodo divenire centrale. Il dinamismo vocazionale di altri continenti non compensa, almeno per ora, la crisi europea e ciò si riflette con maggior evidenza nell'indebolimento della struttura organizzativa degli istituti religiosi (Tab. 4). In circa 30 anni l'ampiezza media delle comunità religiose (Tab. 3) è passata da 8,1 religiosi nel 1979 a 5,6 del 2007, con un calo di circa 1/3.
Indubbiamente il valore medio evidenza solo un tratto molto particolare della realtà: la dinamica della struttura organizzativa vista nel suo insieme appiattendo le differenze e le specificità locali. Tuttavia mentre nel 1979 si potevano cogliere in modo netto le peculiarità delle diverse tipologie organizzative degli istituti, e di conseguenza le comunità monastiche risultavano caratterizzate, nella loro stanziarietà, da una più robusta consistenza numerica (mediamente 18,7 monaci) rispetto a realtà molto più agili e flessibili come potevano essere le presenze territoriali degli istituti mendicanti (comunità con ampiezza media di 7,3 religiosi) e delle Congregazioni clericali (comunità con in media 6,8 componenti). Nel 2007 emerge una realtà di strutture comunitarie molto simili per consi¬stenza numerica, con solo i monaci che, pur diminuendo del 35%, man¬tengono una certa maggior robustezza (12,0 religiosi per comunità, ri¬spetto ai 5,2 delle congregazioni clericali o ai 5,1 dei mendicanti).
La crisi del modello eurocentrico di organizzazione della struttura eccle¬siale viene a coinvolgere in profondità anche la vita religiosa, ed è all'in¬terno di questa trasformazione che va collocata, dal punto di vista sociologico, la specifica questione dell'identità del presbitero religioso.
La vocazione è e rimane incontro personale, dialogo ineffabile e se¬greto con il Signore Gesù e sotto tale aspetto essa non è del tutto ridu¬cibile alla comprensione che le scienze umane danno dell'agire indivi¬duale e/o sociale.
Tuttavia la chiamata del Signore per essere accolta e realizzarsi in "buona" vocazione richiede, ordinariamente, un contesto familiare, ami¬cale, ecclesiale nel quale ognuno dia il suo apporto, accompagni e so¬stenga una scelta avvertita importante anche per coloro che compon¬gono la comunità di fede e non solo per la persona che la realizza. Il contesto della scelta vocazionale è fatto anche dal modo come una realtà cristiana guarda al proprio futuro e da quale apprezzamento esprime nei confronti dei ministeri e dell'impegno ecclesiale. Comunità che si curano di dare continuità alla propria esperienza di fede manife¬stando interesse per la presenza di figure ecclesialmente significative quali il prete, il religioso, la religiosa sono un terreno fecondo dal quale possono germogliare e crescere nuove vocazioni. Viceversa dove non si dia valore alla trasmissione della fede e alla evangelizzazione, lì sarà dif¬ficile attendersi stima e sostegno per quel dono totale di sé sul quale si fonda ogni duraturo impegno vocazionale.
L'inaridirsi delle vocazioni in Europa è certamente connesso a indici di natalità sempre più bassi molto al di sotto della soglia necessaria per sostituire la popolazione adulta, ma è anche lo specchio di una religiosità disincantata, abitudinaria, poco dinamica, spesso fiacca, in una parola: secolarizzata. Diversa invece appare la situazione nelle aree dove nella fede cristiana è obbligata a confrontarsi con stridenti disuguaglianze sociali, in realtà nelle quali spesso esilio e persecuzione trovano puntuale riscontro nel vissuto quotidiano.
Non che lì sia più facile credere o risulti meno difficile seguire gli insegnamenti dell'evangelo, piuttosto vi sono luoghi nei quali il cristianesimo si esprime con maggior vivacità e dinamismo, più convinto che la forza dello Spirito, il braccio potente di Dio che abbatte i potenti e innalza gli umili, non è metafora di una remota possibilità che Dio si faccia presente, ma speranza viva di un/azione attesa, desiderata e accolta come dono di grazia. Un cristianesimo vivace, dinamico, ma anche distante dalle sensibilità teologiche fondanti le prassi pastorali delle società secolarizzate sosterrà e animerà un modello di partecipazione ecclesiale per certi aspetti più vicino a quello della cristianità europea prima della secolarizzazione e nello stesso tempo con sempre meno "timore" riverenziale verso la cattolicità e nel nord del mondo langue nel benessere.

Vocazioni: tra declino e nuove dinamiche

Entro tale dinamica ecclesiale accogliere ed esprimere la vocazione presbiterale in Europa o in Nord America non è la stessa cosa del farlo in Africa, Asia o America Latina. Nel primo caso si tratta di inserirsi all'interno di comunità ecclesiali in declino, caratterizzante da una elevata prevalenza di anziani e bambini, con rare presenze tra i 20 ed i 50 anni.
Nel secondo si è preti in un contesto ecclesiale molto più dinamico, in espansione numerica nel quale prevale una sensibilità religiosa fortemente orientata al soprannaturale, attraversata da vivaci correnti d'entusiasmo e partecipazione emotiva, capace di esprimere una ritualità molto coinvolgente e partecipata.
La vocazione alla vita religiosa, per quanto riguarda gli uomini, conosce una duplice opzione: prete o fratello laico. Delle due la prima ha, dal punto di vista sociologico, come suo ineliminabile termine di confronto il modello del presbitero diocesano, mentre la seconda rimane più indefinita:
non può essere clericale per la mancanza dell'ordine sacro e nello stesso tempo neppure pienamente laicale nel senso che non vi siano differenze con il laico battezzato che vive e opera entro la realtà sociale ed ecclesiale. Quale è il rapporto tra le due modalità di esprimere la vocazione alla vita religiosa? Quale delle due tendenze a essere prevalente? e come se ne caratterizza l'identità?
Tra il 1970 ed il 2007 (Tab. 5) ambedue le tipologie di vita religiosa conoscono, nell'insieme, un calo: -9% fra i religiosi preti e -31% tra i fratelli, mentre risulta leggermente in crescita il numero dei preti diocesani (+ 4%). Se però andiamo a vedere la dinamica nelle diverse aree continen¬tali le differenze si fanno interessanti.
In Europa appare molto più in crisi la figura del prete diocesano (- 25%) rispetto a quella del religioso presbitero (- 18%), ma più in crisi di tutte è l'identità del religioso fratello (- 53%).
In parte diversa la realtà nord-americana, qui sembra aver tenuto di più la realtà diocesana (-18%), rispetto a quella religiosa che ha visto un calo del -35% tra i sacerdoti e di - 55%, nel gruppo dei fratelli.
Negli anni immediatamente successivi al concilio Vaticano Il ci fu nell'ambito della vita consacrata europea e americana una certo di¬battito sulla dimensione laicale della vita religiosa. Tuttavia questo impegno a recuperare e valorizzare la dimensione "laica" della vita religiosa non ha portato a cambiamenti significativi all'interno della vita religiosa, anzi, come si documenterà più avanti, nel lungo pe¬riodo l'identità che ha "tenuto" è stata più quella del religioso-prete anziché quella del religioso-laico.

Significativa la dinamica africana

È ben vero che al Sud del mondo le cose sembrano essere andate un po' diversamente anche se all'interno di un quadro complessivo caratterizzato in tutti i continenti da una forte crescita del clero diocesano (Tab. 4). Particolarmente significativa appare la dinamica africana dove il clero diocesano in quasi quarant'anni cresce del + 512% evidenziando lo sforzo e l'impegno con il quale si è perseguito l'obiettivo di dare consistenza alle chiese locali, rendendole capaci di subentrare nel lavoro pastorale a presenze missionarie, prevalentemente europee, che già negli anni settanta iniziavano a risentire di quella crisi vocazionale che rendeva impraticabile la continuità di un progetto d'evangelizzazione realizzata attraverso "l'importazione" di personale ecclesiastico. Irrobustire le strutture diocesane ha significato assegnare priorità alla formazione di un personale ecclesiastico "locale" non solo a livello del clero ma an¬che nell'ambito della vita religiosa, obiettivo quest'ultimo perseguito attraverso la fondazione di Istituti di diritto diocesano. Ciò aiuta a spie-
gare come un continente nel quale i preti diocesani sono passati dai 4.650 del 1969 ai 23.811 del 2007 abbia invece visto i religiosi presbiteri appartenenti a Istituti di diritto pontificio conoscere una leggera flessione passando da 11.891 nel 1969 a 11.504 nel 2007.
Negli altri continenti (Tab. 4) , America Latina ed Asia, si conferma una dinamica molto forte nella crescita del clero diocesano che in una certa misura sembra aver avuto un effetto "trainante" anche per le vocazioni alla vita religiosa, che in tali aree conosce pure un discreto incremento an¬che per quanto riguarda i religiosi "laici".
Se però guardiamo (Tab. 5) alla proporzione tra religiosi preti e religiosi laici per il periodo 1970-2007 si nota un crescita dei presbiteri e un pa¬rallelo decremento dei "laici" passati dal 36,7% di tutti i religiosi al 28,8%. Ciò è avvenuto trasversalmente in tutti i continenti, eccettuata l'Africa, l'unica area dove è cresciuta la proporzione dei religiosi "laici". Tale spostamento interno della vita religiosa maschile verso una più accen¬tuata identità presbiterale risulta più marcata lì dove gli istituti stanno av¬vertendo con maggior acutezza la crisi vocazionale. In Europa la quota dei religiosi preti è cresciuta del +11,6% e nel Nord America del +8,2%, quasi che la diminuzione delle vocazioni mettesse in evidenza una la¬tente incertezza sull'identità del "religioso". I termini "presbitero" e "laico" da sostantivi con funzione attributiva divengono elemento di de¬finizione di una identità altrimenti incerta.
Di conseguenza quel "religioso che è prete" oppure "religioso che è laico" si muta in quel "prete che è religioso" o "laico che è religioso". Sembra un gioco linguistico, ma evidenzia una indeterminatezza sull'i¬dentità sociale ed ecclesiale, piuttosto che teologica, che percorre la vita consacrata. Quasi a dire: forse non sappiamo formulare in condiviso ac¬cordo su quale sia l'identità del "religioso/consacrato", ma ne abbiamo a sufficienza per dire quale sia il ruolo ecclesiale del "prete". Ciò trova puntuale riscontro nella percezione sociale della vita religiosa. In una re¬cente inchiesta condotta tra giovani ventenni i145% dichiara di non aver mai direttamente avvicinato un religioso, mentre solo il 17% afferma lo stesso nei confronti delle religiose. Ad ogni modo il 78% asserisce di non aver mai dialogato in modo approfondito con un/una religioso/a. Infine il 69% degli interpellati pur ammettendo di conoscere che esistono dif¬ferenze tra "preti" e "religiosi" non sapeva poi dire in che cosa consistes¬sero. Nella stessa linea richiesti di esprimersi sul chi siano, come vivano e cosa facciano i religiosi, 1'85-90% degli intervistati dice di averne una co¬noscenza approssimativa e generica. Per le nuove generazioni, ma forse non solo per loro il mondo dei religiosi/e è come un edificio nella nebbia: si sa che esiste, se ne intravedono i contorni, sfugge però l'insieme dell’architettura e il senso della sua presenza nel tessuto urbano.
È sempre difficile, anche a partire da una tendenza rilevata nell'arco di quasi 40 anni, individuare verso quale direzione tenderà a muoversi la vita religiosa nei prossimi anni.

Fra contrazione ed espansione

È ragionevole attendersi che si accentui la divisione oggi presente tra un Nord obbligato confrontarsi con la necessità di procedere a una. Solo che in gran parte questa sarà una dinamica interna agli istituti i quali pertanto si troveranno nella condizione del tutto nuova di dover simultaneamente gestire contrazione ed espansione. Da un lato si continuerà a fare i conti con vocazioni insufficienti a garantire il ricambio generazionale, mentre altrove sarà necessario accompagnare una crescita innegabile nella sua evidenza quantitativa, ma per consolidarsi ha bisogno di un robusto intervento qualitativo a livello di formazione, assestamento delle strutture istituzionali, inculturazione. Nello stesso tempo in questa lunga transizione sarà ancora tra Europa e Nord Ame¬rica che troveremo collocata la maggior parte del personale ecclesiastico.
Per quanto riguarda la fisionomia ministeriale è molto probabile che si consolidi la tendenza alla crescita dei religiosi-preti, dando alla vita consacrata maschile una più accentuata fisionomia "clericale". Ciò significherà probabilmente un più esteso coinvolgimento a livello di prassi pastorale, nei paesi dove manca il clero diocesano in ragione di una supplenza che aiuti ad attraversare con meno disagio per i fe¬deli il superamento del modello parrocchiale di presenza sul territo¬rio e nelle realtà dove invece il cattolicesimo conosce una fase di cre¬scita il coinvolgimento si renderà necessario proprio per rispondere a una domanda crescente di servizi ministeriali.
Ciò significa che dal punto di vista sociologico si delinea una conver¬genza tra il modello presbiterale diocesano e quello vissuto nella vita re¬ligiosa. Se e in che misura tutto ciò abbia a modificare l'identità spirituale del religioso è questione del tutto aperta. Si potrebbe ipotizzare che come in passato si è avuta una monasticizzazione della identità presbiterale oggi si stia avviando un processo di assimilazione dell'identità del religioso presbitero all'interno di quella del prete diocesano.


*Giovanni Dal Piaz, OSB cam., Priore del monastero benedettino camaldolese "San Giorgio", Bardolino (Verona), docente di Sociologia e di Sociologia della Religione nell’Istituto teologico “S. Bernardino” e nell’ISSR “S. Pietro Martire”, Verona.