A un anno dall’elezione del nuovo patriarca della chiesa ortodossa russa, Kirill I, succeduto ad Alessio II che ne aveva guidato la transizione dopo la fine dell’impero sovietico, è doveroso riflettere su quanto siano cambiate le relazioni di Mosca con la chiesa di Roma. Ma anche quale sia la temperatura complessiva della chiesa ortodossa in Europa. Tema delicato eppure inevitabile, nello scenario frastagliato di un continente che – sotto l’incalzare di una secolarizzazione sempre più pervasiva – è chiamato a rispondere con sempre maggiore urgenza all’imperativo di Gesù ut unum sint (Gv 17,21). E rispetto al quale non si può dimenticare la potente immagine evocata da Giovanni Paolo II, relativamente alla chiesa europea che dovrebbe respirare a due polmoni, quello orientale e quello occidentale, nell’enciclica del dialogo ecumenico Ut unum sint (1995). Né i primi passi di un riavvicinamento sul piano teologico, dopo la feconda stagione degli abbracci fra Paolo VI e il patriarca Atenagoras I con l’avvio del dialogo della carità (Gerusalemme, 5/1/1964) e la cancellazione delle reciproche scomuniche dell’anno 1054 (7/12/1965), risalgono al giugno del 1980 con l’incontro di Patmos e Rodi e in conseguenza della visita di papa Wojtyla al Fanar (sede del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli) al patriarca Dimitrios I.

Avanza una nuova generazione di leader
 

Cominciamo con l’evidenziare che l’ex ministro degli esteri della chiesa russa rappresenta – con Girolamo II di Grecia, Daniel di Romania e Ireneo di Serbia, eletti fra il 2007 e quest’anno – una nuova generazione di leader, in genere più giovani e maggiormente aperti alle necessità del dialogo ecumenico. Preoccupati, certo, di rimettere la dimensione religiosa al centro delle rispettive società, ma anche di guardare con occhi diversi alla questione dei rapporti con i cattolici. Tanto che i commentatori ritengono, unanimemente, che le due chiese, storicamente separate dallo scisma del 1054, non siano mai state mai così vicine; e che l’atteso incontro ufficiale fra Benedetto XVI e Kirill I, dopo i ripetuti fallimenti di quello, più volte ventilato, fra Giovanni Paolo II e Alessio II, sia già in vista. O perlomeno nelle rispettive agende, in attesa che si crei un’occasione propizia per la sua concretizzazione. Giocano certo, al riguardo, le personalità in campo: con un papa tedesco, sensibilissimo alla tradizione in liturgia e all’eredità dei Padri della chiesa, elementi che lo rendono gradito all’ortodossia. E gioca poi il cammino teologico: se a Baltimora, nel 2000, il dialogo teologico si era bloccato sul tema complesso dell’uniatismo, esso è ripreso, sotto la spinta personale dello stesso papa Ratzinger, a Belgrado e a Ravenna (2006-2007). In particolare, il Documento di Ravenna è leggibile come una tappa preziosa di avvicinamento, in cui la Commissione mista cattolico-ortodossa aveva discusso su Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa: comunione ecclesiale, conciliarità e sinodalità nella Chiesa. La lettura del testo conclusivo, in effetti, agli occhi degli esperti, aveva consolidato la sensazione di un asse privilegiato tra Roma e Costantinopoli (mentre per la verità la delegazione russa aveva abbandonato la sessione, ufficialmente per questioni relative alla situazione della chiesa estone): vi si affermava tra l’altro che cattolici e ortodossi concordano sul fatto che il vescovo di Roma sia considerabile il primo (protos) fra i patriarchi del mondo, dato che Roma è, secondo l’espressione di Ignazio d’Antiochia esplicitamente richiamata, “chiesa che presiede nella carità”. Il nodo sospeso riguardava le prerogative di tale primato, poiché “esistono delle differenze nel comprendere sia il modo secondo il quale esso dovrebbe essere esercitato, sia i suoi fondamenti scritturali e teologici”. Ora, la sensazione diffusa è che sulla questione, che tradizionalmente divide il cristianesimo occidentale da quello orientale, non sia impossibile giungere a un certo consenso, con gli orientali disponibili a riconoscere una forma di primato al vescovo di Roma: anche se resta, evidentemente, il nodo dell’esercizio di tale primato. Tema squisitamente teologico, che si può prevedere tormenti ancora a lungo gli specialisti e i rispettivi magisteri.
 

Convergenze sul piano etico

In realtà, il campo su cui sin da oggi è sensato constatare una prospettiva convergente fra le due chiese è quello etico, e della concezione del mondo. Come si è evinto, significativamente, a Sibiu, in occasione della terza Assemblea ecumenica europea del settembre 2007: quando, in apertura dei lavori, era toccato proprio all’allora metropolita Kirill di Smolensk intervenire per descrivere il punto di vista ortodosso sullo stato del vecchio continente. A suo parere, il nodo strategico riguarderebbe - in un panorama continentale descritto come dominato dal secolarismo e dal rifiuto esplicito della luce apportata da Cristo - l’esistenza di un’oggettiva coincidenza fra il nuovo approccio etico di certi ambienti cristiani e il paradigma della società postmoderna secolarizzata. Kirill era giunto a condannare apertamente il fatto che dei cristiani riconoscano nello stesso tempo il valore della vita e il diritto alla morte, il valore della famiglia e le unioni omosessuali, i diritti dei bambini e la possibilità di distruggere gli embrioni umani a fini medici: un attacco a tutto campo del relativismo morale che aveva lasciato trasparire con chiarezza la prossimità dell’ortodossia attuale con la sensibilità cattolica al riguardo, ma anche una vistosa distanza con quella protestante, ben più disponibile a venire a patti con le esigenze della scienza e della tecnica. In sintesi, con lo sguardo sul mondo proposto dalla postmodernità. Una lettura ripetuta, non a caso, in un discorso ufficiale dall’attuale patriarca russo lo scorso 2 febbraio, in cui egli notava come cattolici e ortodossi si ritrovino “su numerosi problemi che la modernità pone ai cristiani”, citando apertamente “la secolarizzazione aggressiva, la globalizzazione, l’erosione delle norme tradizionali della morale”. Tanto che Isabelle de Gaulmyn, commentandolo su La Croix, ha paventato che su queste basi la collaborazione cattolico-ortodossa, più che su una proposta di progetto comune, rischia di ridursi a una rinnovata santa alleanza contro la modernità.

Cambiamenti tra le chiese autocefale

Ma proviamo ad esplorare, brevemente, le chiese autocefale che hanno registrato il ricambio di governo ecclesiale di recente, a partire dalla chiesa romena (20 milioni di fedeli). Per essa, il 2007 ha rappresentato un punto di svolta generale: un nuovo patriarca dopo il lungo regno di Teoctist, Daniel (Ciobotea), l’entrata nell’Unione Europea insieme alla Bulgaria, e ancora l’esperienza, comunque arricchente, dell’ospitalità ecumenica offerta nella citata Assemblea di Sibiu (prima volta di un evento simile in una nazione ortodossa). Messa a dura prova nella lunga e tormentata stagione comunista, la chiesa di Bucarest ha dimostrato la propria volontà di superare il passato, aprendosi in qualche modo alla modernità e al dialogo ecumenico, soprattutto grazie allo stile di Daniel: il tutto, peraltro, senza rigettare nulla dell’eredità ortodossa.
Passando alla Grecia (9 milioni di fedeli), il suo nuovo primate, l’arcivescovo Girolamo (Ieronymos) II, eletto nel 2008, è apparso da subito meno interventista del suo predecessore, l’assai popolare Christodoulos (che aveva avuto buoni rapporti con la cattolicità, culminati nel viaggio di Giovanni Paolo II ad Atene nel 2001 e nel suo viaggio in Vaticano nel dicembre 2006, con la fraterna accoglienza di Benedetto XVI). Scegliendo di privilegiare l’ambito dell’azione sociale, Girolamo ha assunto infatti una serie di misure energiche, dal progetto della nuova cattedrale di Atene alla destituzione di ben 52 parroci giudicati troppo assenti nelle loro dovute cure pastorali. Sensibile ai problemi del suo paese, ha poi accettato di triplicare le tasse sulla chiesa per soccorrere uno stato sull’orlo del fallimento a causa della recente crisi economica; e deciso di avviare una trattativa in vista di una collaborazione chiesa-stato “onesta e trasparente” sulle questioni sociali.
Veniamo alla Serbia (16 milioni di fedeli), in cui l’elezione dell’eparca succeduto a Pavle, il settantanovenne Ireneo, è ancora fresca, essendo avvenuta lo scorso 22 gennaio. Pur essendo pressoché totalmente ortodosso, questo paese sta conoscendo un principio di secolarizzazione, per cui la popolazione si aspetta che la chiesa si concentri sulla sua peculiare vocazione spirituale. In quest’ottica, l’avvento di Ireneo viene unanimemente ritenuto un segnale positivo: favorevole all’integrazione politica europea, egli si è detto ugualmente fiducioso di poter ospitare un grande incontro ecumenico, ipotizzato per il 2013 a Niš, storica città natale dell’imperatore Costantino I, posta a sud-est di Belgrado. Anche se per girare pagina definitivamente rispetto alla sanguinosa guerra della ex-Yugoslavia, l’opinione pubblica internazionale attende un gesto concreto di riconciliazione con le popolazioni cattoliche e musulmane che abitano la regione balcanica.

Uno sguardo alla chiesa russa


Infine, tornando alla situazione in Russia, le statistiche dicono chiaramente di uno straordinario revival religioso dopo la fine del regime sovietico: in soli vent’anni, c’è stata una moltiplicazione per quattro delle parrocchie, mentre i monasteri sono aumentati di ben quarantacinque volte. La condizione della chiesa di Kirill I, tuttavia, permane fragile: i 30.000 preti non sono sufficienti a rispondere adeguatamente ai bisogni spirituali della gente, e la pratica liturgica si aggira attorno al 2% della popolazione. A lungo tentata da una politica di chiusura verso l’esterno, in realtà la chiesa di Mosca si sta pian piano aprendo all’occidente, pur rimanendo assai critica – come dicevamo – nei confronti del suo processo di secolarizzazione. Da questo punto di vista, sembra significativa l’apertura, nel novembre 2009, di un seminario ortodosso russo in Francia, che rappresenta la volontà di formare una parte del clero in un contesto occidentale. D’altra parte, in occasione dell’elezione di Kirill, oggi sessantatreenne, i media avevano parlato di una sconfitta netta dell’ortodossia più nazionalista: quella che, negli ultimi giorni, l’aveva pesantemente attaccato, fino a scatenare una dura campagna denigratoria nei suoi confronti, accusandolo di essere grosso modo un riformista al soldo del Vaticano. Attacchi che avevano dato opportunità allo stesso Kirill di rifiutare l’etichetta di riformista, da un lato, e di chiarire, dall’altro, ciò che egli intende per dialogo: “confronto senza confondersi in un’unica entità”. Nel discorso di intronizzazione, egli tracciò un programma di vasto respiro, indicando i principali suoi obiettivi: dalla cooperazione con lo stato per l’educazione religiosa nella scuola al rafforzamento dell’impegno sociale della chiesa a favore dei più deboli, fino alla richiesta di una maggiore responsabilità sociale degli imprenditori, soprattutto in tempi di crisi come i presenti. Mentre restano sullo sfondo, last but not least, le complesse relazioni, e un dialogo interno tutto da rilanciare, con le chiese sorelle ortodosse, e in particolare con il patriarcato ecumenico di Costantinopoli, oggi guidato da Bartolomeo I.

Una volta di più, per concludere questa rapida rassegna delle sfide in corso nell’ortodossia europea, sarà utile ammettere che il cammino ecumenico, questo “dono al mondo del ventesimo secolo”, è convocato a fare nei prossimi anni ancora diversi passi, per compiere i quali non vanno sottaciute le varie problematiche a tutt’oggi assai scottanti: basti pensare, per fare solo un esempio, al caso dell’intercomunione, triste ferita e, insieme, fotografia realista di un’unità ancora di là da venire. Nel contempo, però, sta altresì aumentando la speranza che il barometro del dialogo, dopo tanto inverno – e a quasi mezzo secolo dal suo avvio conciliare - riprenda a schiudersi all’attesa primavera. Affinché l’Europa, affaticata nel suo processo di unione politica, prenda finalmente a respirare ecumenicamente a pieni polmoni.