Le domande che noi religiosi ci poniamo – come ogni persona pensosa della propria identità e del proprio destino – chi siamo? come avremmo dovuto essere? chi dobbiamo essere? trovano le risposte più autentiche e illuminanti – anche se non le più comode – nel vangelo. È specchiandosi in quelle pagine, o meglio nel Cristo che quelle pagine ci presentano, che il “credente” religioso (la precisazione non è inutile) investiga, scopre, attinge i fondamenti, i percorsi, gli orizzonti della vita consacrata. Di qui la necessità – evitando l’eccesso di programmazione oggi corrente e dominante in tanti momenti della nostra esistenza – di una riflessione più ampia e più profonda sulla vita interiore e sui modi più propriamente “pastorali” (cioè radicati in una solida vita spirituale e che di questa siano emanazione coerente) di una presenza evangelizzatrice.
Troppo spesso, magari spinti dai bisogni reali del nostro tempo, ma non per questo totalmente assolti, noi consacrati siamo molto più Marta che Maria, per usare immagini evangeliche, non esattamente percepite e comprese, lo diciamo chiaramente, ma comunque tradizionalmente significative. Forse, specchiandoci in questi “personaggi – immagini”, scopriremo che non ci preoccupiamo più tanto dell’essenziale, che per i consacrati è la vita spirituale e comunitaria condita possibilmente di ascolto, amore e comunicazione, ma che ci soffermiamo sul periferico.
E allora potremmo convincerci, anche se non in modo indolore, ma scioccante per la nostra mentalità efficientista, di quanto da varie parti è stato detto: forse o senza forse non abbiamo tanto bisogno di “nuovi religiosi”, quanto di “religiosi nuovi”, che guardino con occhi nuovi, diversi, la vita consacrata: con più profondo, vero senso della natura della vita religiosa e non in quel tradizionale (spiegabile storicamente) mix di diocesanità, sociologia, economia. Questi aspetti sono e potranno essere ancora “parte” della vita consacrata, almeno in tempi futuri per noi oggi ipotizzabili, ma appunto parte e non totalità come talvolta oggi sono avvertiti e vissuti.

Cristo non è un possesso permanente

Forse non ci si ferma più su questo “essenziale” perché – pensiamo – Dio è da noi conosciuto, presente nei tempi comuni della preghiera e della meditazione personale. Cioè Dio vive in casa, è un nostro familiare. Ma, come spesso accade, i familiari sono di fatto ignorati, dimenticati, non capiti. Basti ricordare i familiari concittadini di Nazareth che dicevano di conoscere tutto di Gesù, ma che di fatto non lo hanno riconosciuto e accettato nella sua realtà e verità. Dio è presente nella casa, ma quelli – noi – della casa hanno altre cose cui dedicarsi a tempo più o meno pieno: “fuori” vi è più vita, contatti appaganti e poi ci si occupa delle persone, almeno di alcune. In casa ci siamo comunque e Dio è con noi. Fare di lui la fonte di riflessione e di missione è un’altra cosa. Ci basta possedere Dio. La sua ricerca profonda e le sue effettive e reali esigenze per la vita consacrata personale e comunitaria possono aspettare.
Non saliamo sul sicomoro del desiderio di vedere Gesù e non discendiamo per accoglierlo con gioia, come ha fatto Zaccheo, in una casa tutta rinnovata dalla solidarietà e dalla comunione, ma restiamo a terra e così non lo vediamo e, di fatto, non lo riceviamo nella nostra “vera” casa che lui si aspetta: quella del nostro cuore e della comunità. Magari ci sentiamo a posto perché Dio c’è nella casa, ma occorre vedere se ci siamo noi, veramente.
L’auspicato essenziale richiede, talvolta, di essere detto con parole, programmi essenziali, appunto, e spesso richiede, dopo l’annuncio, il silenzio di altre parole che permetta di percepirli, comprenderli, farli propri. E allora, in una riflessione personale e comunitaria – il “silenzio” invocato non è contrario a uno scambio comunitario sincero ed appassionato – si può sentire “ardere il cuore” come ai due discepoli di Emmaus perché ci si apre ai fondamenti stessi della vita consacrata. Si avverte il rimorso di non avere sempre compreso l’essenziale, ci si rende conto dell’inadeguatezza della nostra comprensione della Parola di Dio, si riscoprono, alla luce della verità riscoperta della Parola, tante cose che la superficialità aveva messo in oscurità, si percepisce che Qualcuno finora “sconosciuto” anche se “conosciuto”, cammina accanto a noi.
Allora vedremo in modo nuovo l’essenziale della vita religiosa e scopriremo che il tanto agitarsi, sia pure per il Signore, va inquadrato, per renderlo reale “apostolato” e non convulso, anche se entusiasta, attivismo, nella priorità ed essenzialità dell’ascolto e della riflessione. Scopriremo allora il significato essenziale di essere consacrati.

Rinascere dentro e dall’alto

Alle domande iniziali possiamo aggiungerne un’altra e questa anch’essa essenziale: Che cosa vuole da noi oggi lo Spirito?. Gesù ha detto a Nicodemo che lo Spirito chiede ad ogni uomo di rinascere per poter costruire qualcosa di valido per il Regno. Non è facile per noi consacrati accogliere le parole di rinascita di Cristo: siamo vecchi. di tradizioni “intoccabili”, almeno a livello personale, di comodità consolidate, di età, anche, e i binari sui quali ci siamo mossi sempre e ci muoviamo si presentano “obbligati”: dalla nostra volontà, indifferenza, rassegnazione.
Chiedere allo Spirito il suo intervento? Giusto e indispensabile, ma lo riteniamo, per la nostra poca fede, impossibile e tardivo e, comunque, preferiamo strade più immediate, più concrete e percorribili dalle nostre concezioni e considerazioni. E allora la rinascita dall’alto non avviene, perché, come Nicodemo, la riteniamo impossibile, in quanto noi insistiamo soltanto sulla rinascita dal basso: le nostre doverose e necessarie, ma talvolta esclusive, programmazioni.
Il cuore del problema – rinascere nello Spirito in profondità – non viene allora afferrato e compreso: continuiamo a essere “vecchi”, persuasi che un maquillage superficiale possa togliere le nostre rughe, in tal modo precludendoci ogni rinnovamento (non “aggiustamento”) effettivo e profondo. Restiamo, tutto sommato, prigionieri di quello che siamo ora, che siamo sempre stati, credendo di andare avanti perché magari apriamo una nuova opera o non ne chiudiamo una vecchia.
Il desiderio di andare avanti è più che giusto e legittimo, ma è l’impegno ad “andare dentro” che è spesso tralasciato, quando non ignorato o considerato marginale. Ma Cristo ci chiede di entrare prima in noi, di rinascere nello e dallo Spirito per poi camminare da “giovani” appena rinati. La disponibilità dello Spirito c’è sempre, ma avvertirlo, invocarlo tocca a noi. Basta non distrarsi e crogiolarsi troppo sul “benessere della vecchiaia”, non adagiarsi sulla comodità della “pensione spirituale”. Perché, in questa situazione non rara, è allora bello essere “vecchi” (si pensa e lo si vive) in quanto ci dispensa dalle invece indispensabili “giovanili” ricerche, dubbi e sogni.
Il dinamismo dello Spirito, quello che è alla radice di ogni effettiva e non illusoria rinascita, viene sostituito dal dinamismo delle programmazioni che dona frutti immediati, ma non solidi e quindi difficilmente duraturi. Spesso siamo noi a volere indicare le strade allo Spirito, a manifestare a lui i nostri traguardi e non ci lasciamo condurre – rinati – dallo Spirito verso i suoi traguardi.

Quello che il Vento chiede

Tentiamo di imbrigliare lo Spirito nei nostri collaudati schemi, quelli che ci danno sicurezza, e non lasciamo che lui – il Vento della Pentecoste – scompigli le nostre vedute esteriori e vecchie per farci scorgere nuovi orizzonti, nei segni dei tempi. Ma la porta delle nostre tradizioni e delle nostre resistenze lo Spirito l’aprirà comunque e noi ci troveremo sballottati dal Vento, anche se non lo avremo percepito e accolto.
Eppure lo Spirito non ci chiede molto, in termini di quantità: non quel molto dei ricchi – che poi era il superfluo, donato per farsi notare – ma ci chiede quel poco –che poi è il tutto – della povera vedova. La differenza di prospettiva, che Cristo puntualmente nota, è nella interiorità dell’offerta, nel valore “religioso” del dono. Con il cuore la vedova mette a disposizione tutto quello che ha e in tal modo tutta la sua vita viene donata. Gli altri solo qualcosa di esteriore, di cui, in fondo, loro non avevano bisogno per vivere. Cristo coglie la differenza e la grandezza del gesto: la cifra materiale non gli interessa più di tanto.

La donazione a Dio non è misurabile soltanto dalle opere, che rischiano a volte di essere espressione di “potenza”, ma dall’interiorità, dal cuore: qui è la misura di Dio. E le opere avranno totale e giusto valore se saranno costruite con e sul cuore, vale a dire sulle fondamenta, che ne assicurano e perpetuano la validità e solidità, di un’offerta di se stessi.
Cristo, attraverso questo piccolo e mirabile racconto evangelico, ci rivela che, alla fine, non sono le imprese strabilianti, appariscenti che danno la reale natura e valore alla vita – neppure quella degli istituti di vita consacrata – ma sono le opere che nascono veramente dal cuore che diventano, almeno ai suoi occhi, strabilianti. Perché sono la vita stessa. Ed è allora che Dio conta i nostri “soldi”.