«Cosa sta accadendo nelle nostre comunità?». È uno dei ritornelli oggi più
ricorrenti. Nella domanda, solitamente, è già adombrata la problematicità della
risposta. Ma quando un interrogativo del genere se lo pone la presidente dell’Usmi,
madre Viviana Ballarin, di fronte a un nutrito gruppo di animatrici di comunità,
com’è avvenuto a Bologna il 7 marzo scorso, la risposta assume una rilevanza del
tutto particolare. Il tema propostole: La VC tra due generazioni, tra diverse
culture, tra passato e presente. I valori di sempre, l’apertura al nuovo. Quale
missione oggi nella fedeltà ai carismi?, era talmente ampio e complesso, ha
osservato, che avrebbe richiesto non uno, ma più incontri.
Troppi vuoti generazionali
Di fronte ad un sempre più ravvicinato ricambio generazionale in atto, ha detto
rifacendosi soprattutto al vissuto della VC, è importante «individuare percorsi,
fare scelte, prendere decisioni che puntino alla qualità del nostro essere e del
nostro fare, più che alla quantità o alla novità». Nella vita delle comunità è
sotto gli occhi di tutti la compresenza di generazioni diverse con pesanti
ricadute a livello di comunicazione. «Le sorelle dai sessanta/settant’anni in
su, bene o male, si comprendono, ma poi?». Alle loro spalle non c’è soltanto
un’altra generazione. Ce ne sono diverse: quelle degli anni ’70, degli anni ’80,
degli anni ’90, del nuovo millennio. Se un tempo ci volevano, su per giù, 25
anni per diversificare una generazione dall’altra, oggi questi parametri sono
completamente saltati.
Non si può non prendere atto dei vuoti generazionali sempre più evidenti in
tante comunità, dove «normalmente mancano le sorelle dei 45-50-55 anni», con
vent’anni di scoperto alle spalle della generazione ultrasessantenne. Spesso le
uniche presenze giovanili sono assicurate da religiose provenienti da altri
paesi del mondo.
Per le giovani suore di oggi, che possono essere nate, più o meno, negli anni
’80, parole come vita, morte, tempo, persona, famiglia, amicizia, lavoro, amore,
Chiesa, denaro e così via, possono avere un significato molto diverso rispetto a
quello conferito dalle religiose più anziane.
«Le nostre sorelle di oggi sono considerate giovani, ma hanno 30/35/40 anni».
Anche a causa degli studi loro richiesti dal proprio istituto, «non è raro
vedere che l’entrata nel mondo dell’attività apostolica di una sorella giovane o
dell’assunzione di una responsabilità, avviene verso i 40 anni», quando, cioè,
in altre culture, le donne «sono nonne da un pezzo», con una diversa valutazione
culturale del tempo, dell’età e del ruolo delle persone all’interno anche di una
comunità religiosa.
È un dato di fatto che, in Italia, insieme al numero delle religiose, diminuisce
anche quello delle loro comunità. La direzione e la gestione di tante opere
(scuole, collegi, ospedali, pensionati, case di cura ecc.), saldamente affidate,
da sempre, alle religiose, oggi stanno passando in altre mani. Aprirsi a nuove
forme soprattutto di presenza, di ascolto, di testimonianza, magari alle
dipendenze di altri, è possibile solo grazie a un non facile «cambiamento di
mentalità».
Negli ultimi 30 anni, molte congregazioni «si sono aperte all’internazionalità
per motivazioni più o meno evangeliche». È un problema sul quale ci si dovrebbe
sempre più seriamente confrontare. Soprattutto negli ambiti della formazione,
del governo, della missione, le situazioni da gestire sono tutt’altro che
facili. Se può essere vero che la diversità culturale, in una comunità, «è una
ricchezza», nel quotidiano, però, «non è sempre così». In una comunità
interculturale «il volto di Cristo dovrebbe splendere di una luce straordinaria,
quella dell’unità nella diversità», «dovrebbe essere testimonianza della
fraternità». Il condizionale sarà sempre d’obbligo fino a quando non ci saranno
un reale cambiamento di mentalità, un’autentica conversione di mente e di cuore,
un nuovo sistema organizzativo «nella vita di preghiera, nello stile di governo,
come in quello della vita comunitaria stessa».
Ancora troppe comunità monolitiche
Proprio in base alla sua esperienza personale e a quella derivante dalla
condivisione di questi problemi anche con le superiore maggiori di altre
congregazioni, osserva la presidente Usmi, non ci si può più sottrarre alla
domanda di che cosa stia accadendo nelle nostre comunità religiose. «Si vive un
senso diffuso di disagio e di disorientamento. Si fatica ad accogliere sia il
cambio generazionale, sia la compresenza di diverse culture, sia la presenza dei
laici come dono, come una nuova opportunità, come una sfida. A volte ne subiamo
piuttosto il peso e spesso il rimpianto dei tempi passati che non ci sono più, o
prendendoli sempre come paragone dell’autenticità della VC che però è sfumata.
Ci si pone, insomma, vari interrogativi che possono poi tradursi in una
variegata gamma di comportamenti o stili di vita nelle comunità».
In riferimento, ad esempio, alla plurigenerazionalità e all’interculturalità , è
facile assistere, all’interno delle comunità, alla formazione di due o più
blocchi «che spesso si scontrano e si controllano, si giudicano e si accusano a
vicenda». Ne consegue, inevitabilmente, una realtà comunitaria conflittuale, con
dispendio di energie. Queste potrebbero essere molto più utilmente impiegate nel
dar vita ad «autentiche fraternità di comunione» a servizio di una missione «che
faccia splendere il volto attraente di Cristo nell’ambiente in cui la comunità
vive». Spesso, invece, queste comunità mostrano «un volto teso, corrucciato,
anche stressato della VC, sicuramente non attraente».
Si verifica sempre più frequentemente, inoltre, un altro fatto non meno
preoccupante. Spesso «si fa ruotare il centro della vita comunitaria attorno
alle sorelle giovani o di altre culture trasformandole in piccoli idoli, con
criteri di azione e di decisione compensatori e gratificanti». A queste
consorelle «si concede tutto perché sono giovani, perché i tempi sono cambiati,
perché poverine sono lontane dai loro paesi, perché sono sole in mezzo a tante
anziane, perché altrimenti scappano, perché si ha paura». Di fatto, però,
«difficilmente traspare la libertà e la gioia in queste comunità». Non è allora
difficile capire che «qualcosa non va».
È sempre più difficile prestare la dovuta attenzione a quelle diversità che
potrebbero portare «novità di vita». Si privilegiano «gli schemi di una comunità
monolitica dove chi determina la forma e lo stile di vita delle comunità è quel
gruppo di sorelle (sempre il più forte) normalmente italiane, che occupano ruoli
decisionali, che hanno fatto sempre così, che sono in quella comunità da molti
anni». Il rischio reale è quello di non accorgersi «dell’esistenza di nuove
presenze, della loro diversità». Si tende a evitare il confronto dando per
scontato non solo che «ci si deve adeguare perché così va bene», ma anche perché
«sono sempre le altre, quelle delle altre culture e di altri paesi che devono
imparare da noi e non noi da loro». La percezione immediata, in questi casi, è
quella di “comunità carro armato” che vanno avanti «come sempre e a tutti i
costi», senza neanche accorgersi che «fuori il mondo è cambiato». Non ci si può,
allora, meravigliare se, in queste comunità, dove «apparentemente va tutto bene,
prima o poi scoppiano problematiche a volte irreparabili».
Anche in riferimento ai laici sempre più presenti, come collaboratori, nelle
opere degli istituti religiosi femminili, «non tutto è tranquillo». Insieme a
qualcosa di nuovo, si percepisce anche la impreparazione a gestire questa
novità. Da una parte si corre il rischio di delegare in toto le proprie opere
compromettendo seriamente la continuità del proprio carisma, dall’altra ci
s’infila, a volte, in una conflittualità tale da rendere «faticosissime la
collaborazione e l’integrazione» con i laici stessi. Di fronte a una frequente
ed evidente inadeguatezza a gestire questa situazione, il rischio serio è quello
di un’implosione e di un collassamento delle comunità su sé stesse.
Lasciarsi incontrare da Cristo
Per delle responsabili di comunità come quelle a cui sta parlando madre Ballarin,
non dovrebbe essere difficile cogliere i segnali di queste «implosioni latenti o
esplicite». Invitandole indirettamente a continuare e a contestualizzare
quest’analisi in casa loro, ha riservato l’ultima parte del suo intervento ad
aiutarle a superare positivamente questo diffuso senso di sconforto. «Le radici
su cui si fonda l’originalità della nostra vocazione sono solide, sono radicate
sulla roccia che è Cristo, crescono e si fortificano alimentandosi alle acque
del battesimo». Le mode passano, ma la roccia rimane.
Quando le religiose sono realmente convinte della solidità di questa roccia,
dovrebbero solo trarne le dovute conseguenze. Anzitutto si dovrebbe scorgere
proprio nella complessità del tempo presente il Verbo della vita. «Dobbiamo
rimanere nel nostro tempo, amarlo e affrontarlo nonostante possa essere
crocifiggente». Non si deve mai presumere di avere la soluzione pronta ai
problemi e alle sfide del cambiamento in atto. Citando Bruno Forte, madre
Ballarin ha detto che «Dio si lascia incontrare e viene a incontrarci nella
complessità del tempo e delle scelte umane». Attraverso questa logica, passano
anche tutte le decisioni per il futuro della VC.
Assumere la complessità del tempo presente, vuol dire anche «non aver fretta
nella ricerca delle soluzioni, ma avere la pazienza dell’ascoltare e
dell’imparare, accettando la fatica di essere ogni giorno docili allo Spirito
nel raccogliere la sfida delle stagioni che mutano. La necessaria ricerca
dell’aggiornamento o del rinnovamento «non potrà mai essere una scusa per
conservare il già dato o scontato per la semplice paura o pigrizia di
rinnovarsi! La nostalgia delle sicurezze passate è chiusura alla novità dello
Spirito».
Si dovrebbe guardare con più frequenza all’esperienza dei fondatori e delle
fondatrici che, uniti a Cristo, hanno sempre saputo nutrire la loro vita con la
ricchezza della fede non soltanto nei momenti di gioia, ma anche in mezzo alle
difficoltà, alle aridità, alle sofferenze. «Non è forse stata questa la loro
missione nella Chiesa e nel mondo? Non sono questi il mandato e l’eredità che
abbiamo ricevuto da loro?».
Concludendo il suo discorso, Madre Ballarin si è detta profondamente convinta
che solo in Cristo è possibile trovare la sorgente della propria fedeltà
creativa. «Possiamo andare alle frontiere più lontane della missione, come oggi
si suol dire, ma se le nostre attività apostoliche seppur eroiche, non sgorgano
da questa roccia che è il Cristo Signore, da queste acque battesimali, molto
probabilmente stiamo inseguendo mode o autorealizzazioni che passeranno come
passano le mode o le glorie di questo mondo, lasciando dietro di noi, forse, il
vuoto o profonde frustrazioni».