Folle devote riempiono piazze e grandi occasioni rituali destano l’interesse della gente e dei media, ma le chiese si svuotano ogni giorno di più… «soprattutto sparisce la cultura cristiana e cattolica, la conoscenza dei fondamenti della religione e perfino dei più classici passi e personaggi evangelici, come si può constatare frequentando gli studenti universitari. Si tratta di una mutilazione per tutti, credenti e non credenti, perché quella cultura cristiana è una delle grandi drammatiche sintassi che permettono di leggere, ordinare e rappresentare il mondo, di dirne il senso e i valori, di orientarsi nel feroce e insidioso garbuglio del vivere» (Claudio Magris, 2004).
A questa “laica” affermazione possiamo affiancare alcune considerazioni del papa contenute nel suo Messaggio per la 47a Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni (tema: “La testimonianza suscita vocazioni”, 25 aprile 2010): «L’esistenza stessa dei religiosi e delle religiose parla dell’amore di Cristo, quando essi lo seguono in piena fedeltà al Vangelo e con gioia ne assumono i criteri di giudizio e di comportamento… La loro fedeltà e la forza della loro testimonianza, poiché si lasciano conquistare da Dio rinunciando a se stessi, continuano a suscitare nell’animo di molti giovani il desiderio di seguire, a loro volta, Cristo per sempre, in modo generoso e totale. Imitare Cristo casto, povero e obbediente, e identificarsi con lui: ecco l’ideale della vita consacrata, testimonianza del primato assoluto di Dio nella vita e nella storia degli uomini… per promuovere le vocazioni specifiche al ministero sacerdotale e alla vita consacrata, per rendere più forte e incisivo l’annuncio vocazionale, è indispensabile l’esempio di quanti hanno già detto il proprio “si” a Dio e al progetto di vita che egli ha su ciascuno. La testimonianza personale, fatta di scelte esistenziali e concrete, incoraggerà i giovani a prendere decisioni impegnative, a loro volta, che investono il proprio futuro. Per aiutarli è necessaria quell’arte dell’incontro e del dialogo capace di illuminarli e accompagnarli, attraverso soprattutto quell’esemplarità dell’esistenza vissuta come vocazione».
Su questa linea va il volumetto di don Armando Matteo (assistente centrale Fuci e docente di Teologia fondamentale presso la pont. università Urbaniana di Roma, intitolato La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede (Rubettino, pp. 102, € 10,00), che porta in esergo proprio la frase di Magris sopracitata.

Giovani col “mal d’anima”

Il messaggio fondamentale, e coraggioso, è quello che la Chiesa così come si presenta oggi è poco interessante per i giovani. Anche se, negli ultimi anni, si è registrata una strategia di cambiamento (Giornate mondiali della gioventù, Agorà dei giovani, pellegrinaggi ai grandi santuari ecc.), ora è il tempo di un vero ripensamento strutturale per parrocchie e comunità religiose perché si creino luoghi in cui i giovani possono apprendere che cosa significa credere e pregare. Al centro dell’agenda ecclesiale sembrano invece esserci piuttosto i “temi sensibili” (bioetica, laicità, immigrazioni, ambiente, dialogo con le religioni) o le scottanti questioni interne (calo di vocazioni, perdita di credibilità per lo scandalo pedofilia ecc.). Eppure la questione dei giovani disaffezionati alle cose della fede è anomalia ben più preoccupante per il futuro! Comunità senza giovani infatti rischiano di scomparire per mancato ricambio generazionale!
L’ipotesi di lavoro del prof. Matteo è semplice: la Chiesa ha assorbito la stessa logica che struttura i rapporti tra generazioni nella società civile, una logica «scandita da un continuo parlare dei giovani e dei loro problemi, cui corrisponde un altrettanto costante accumulo di privilegi nelle mani degli adulti, persi nei loro riti e nei loro miti, ben saldi ai loro posti di potere» (p. 8). Drogato dal mito del “per sempre giovane”, l’adulto ruba poi spazi e tempi di futuro al giovane, brandendo una sorta di scudo “invidioso” che finisce per spingere quest’ultimo ai margini della vita.
L’effetto sul versante ecclesiale è dipinto dal card. Kasper (“ognuno di noi ha già incontrato uomini a cui sembra mancare ogni antenna, quando parliamo di Dio”): i giovani d’oggi – tra i 20 e i 30 anni – non hanno più antenne per Dio. Non si pongono contro Dio o la Chiesa, ma hanno imparato a vivere senza di essi. I segni più evidenti di questa indifferenza sono: profonda ignoranza delle basi della dottrina cristiana, scarsa partecipazione alla formazione post-cresimale, libertà nel disertare l’Eucaristia domenicale.

La felicità per loro è altrove

La cinghia di trasmissione tra le generazioni oggi si è infranta. La fede ha subito « un processo di opacizzazione della sua capacità di umanizzare, ovvero non convince più quale possibilità di far diventare l’uomo più uomo… molti, oggi, ritengono che la felicità vada cercata altrove» (p. 14). Anche per questo, nascere e diventare cristiano sono due cose distinte. La novità del nostro tempo è che i giovani non hanno ricevuto alcuna informazione circa l’autentica convenienza della fede, non sanno perché dovrebbero credere o pregare. Tutto questo, incredibilmente, è accaduto «lungo alcuni dei pontificati più significativi dell’intera storia della Chiesa e durante una vera e propria esplosione delle forme di esercizio del cristianesimo» (p. 19). Come si è potuti giungere a questa situazione?
L’assenza di Dio nella vita dei giovani è certamente legata alla rivoluzione culturale che ha investito l’occidente negli ultimi cento anni. La coscienza comune ha iniziato a fare lentamente a meno della grammatica offerta dalla tradizione gravitante nell’orbita del cristianesimo. Inizialmente c’è stato il rinnegamento del modello platonico sull’ordine al mondo (con la distinzione ontologica tra finito e infinito): Darwin, Freud e Nietzsche ci hanno fatto guardare con occhi diversi il finito, la sua durezza e la sua amabilità. Subentra un nuovo esercizio della razionalità, meno preoccupato dell’oggettivo e più interessato alle relazioni tra realtà e affetti-emozioni del soggetto, meno ossessionato dal criterio della verità. Così arriviamo al secolo della tecno-scienza: la ricerca tecnica non è più immediata risposta ai problemi concreti dell’esistenza; ci si dedica al perfezionamento dei prodotti a prescindere dalle loro funzioni pratiche. Nel contempo aumenta la mobilità e la capacità di comunicare, migliora la pratica sanitaria, l’economia si trasforma in finanza.
L’imperativo diventa dunque quello dell’auto-perfezionamento: si deve sperimentare ciò che è tecnicamente sperimentabile. La vita è… esperimento! Il modello agostiniano dell’etica del sacrificio è sostituito dall’etica della promozione e dell’auto-superamento. Lo slogan sessantottino del ‘vietato vietare’ mina il sapere tradizionale e le forme istituzionali con cui esso si trasmetteva. Così il cristianesimo entra in un processo di vera e propria “esculturazione” (Danièle Hervieu-Léger): i figli del 1968 «hanno respirato una cultura che estrometteva tutti i punti d’aggancio sui quali la teologia cristiana aveva puntato per dire la bontà di Dio per una vita piena. Hanno imparato a cavarsela senza Dio e così hanno insegnato a fare ai loro figli. Hanno forse ancora mantenuto un legame affettivo (re-ligio) ai riti ecclesiali, ma privo di ogni consistenza di fede. È nata così la prima generazione incredula della storia dell’occidente, figlia dei figli del ‘68» (p. 28). Generazione sulla soglia di “un presente sospeso”, con un futuro che non alimenta più né speranza né un vero esercizio della libertà personale.

Strategie creative per ospitare i giovani


Il nostro A., a questo punto, per evitare la tentazione di cercare nella cultura del nostro tempo solo il capro espiatorio dei problemi pastorali, preferisce sottolineare che la vera sfida è ormai quella di trovare il senso della presenza dei credenti nel mondo in un tempo bello e insieme duro. Si tratta di riconoscere innanzitutto che siamo minoranza culturale e che si è creata una distanza tra cultura e fede. E ancora, visto che le comunità sul territorio fanno fatica a diventare quel laboratorio della fede indicato, con lungimiranza, da papa Giovanni Paolo II; visto che il blocco del futuro è la vera causa dell’emergenza educativa… si tratta di dirigere l’impegno verso una «autentica conversione del mondo degli adulti: da un amore viscerale per la giovinezza e il suo irresistibile fascino, a un amore e cura per i giovani con il loro bisogno di adulti-testimoni» (p. 61). Dobbiamo insomma inventarci una “nuova introduzione alla compagnia di Gesù”: nel confronto con il nostro tempo, cioè, siamo invitati a ri-scoprire l’originalità della fede cui vorremmo iniziare i giovani.
Ma qual è la specificità da riscoprire? «La fede, dice Armando Matteo, è la conversione della libertà al comandamento dell’amore proposto da Gesù» (pp. 69-70). L’amore è la novità cristiana: non sono più costretto a chiedere agli altri le ragioni della mia amabilità; io posso amare me stesso in quanto sono amato da Dio e così liberamente indirizzare il mio amore all’altro.
Ahimè!, proprio su questo nodo strategico il ritardo ecclesiale è tangibile: comunità parrocchiali, religiose e movimentiste sono tutte accomunate in fondo da una rigida identificazione delle persone con i ruoli che rivestono (curato, catechista, formatore, fondatore, animatore ecc.) e da una istituzionalizzazione dei gruppi esistenti. Una messa a “dieta” di tutta la Chiesa ingessata è dunque auspicabile: occorre discutere della non funzionale «distribuzione e ripartizione di diocesi, parrocchie, monasteri, conventi uffici, da una parte, e uomini e donne consacrati, loro assegnati, dall’altra,… per favorire percorsi di ospitalità autentica a coloro che si accostano per la prima volta alla realtà della fede: aumenta infatti l’età media del clero, diminuiscono le suore e i consacrati… Bisogna mettere a tema la questione della geografia della salvezza: la questione del dove e come ci presentiamo ai giovani, con quali energie e con quali facce, con quali sinergie e con quali e quanti progetti». (pp. 73 e ss.).
Si tratta di creare occasioni per dare la grammatica della fede, affinché i giovani con la loro creatività possano trovare canali di espressione originale. Una presa in carico della incredulità odierna richiede una rinnovata alleanza tra la dimensione familiare-parrocchiale e quella monastico-contemplativa della presenza cristiana nella società . Solo nella misura in cui riusciremo a raccogliere il grido dei giovani, uscendo dalla logica delle lotte tra “laici furiosi” e “clericali impenitenti”, potremo liberare quel nuovo amore verso di loro che nasce dall’ascolto e diventa fonte di conoscenza (Gregorio Magno); potremo avvertire un’altra povertà, quella di un Dio “orfano” di giovani.