La conferenza episcopale del Triveneto e gli Istituti di vita consacrata presenti in questa regione ecclesiastica hanno intrapreso con decisione la strada di una sempre più stretta collaborazione. La volontà di tradurla in pratica è stata ora suggellata da una Dichiarazione d’intenti, un documento la cui consegna ufficiale è avvenuta ufficialmente a Torreglia il 25 febbraio scorso, ai superiori e le superiore maggiori degli Istituti di vita consacrata (CISM – USMI) presenti e operanti nell’ambito della regione ecclesiastica Triveneto. Il documento reca la firma del card. Angelo Scola, presidente della Conferenza episcopale Triveneto, di p. Giuseppe Moni, presidente CISM e di m. Noris A. Calzavara, presidente USMI.
Alla consegna hanno preso parte anche i segretari e le segretarie diocesani CISM-USMI, i vicari episcopali per la vita consacrata.
Il documento rappresenta l’approdo di un lungo lavoro svolto dalla Commissione della conferenza episcopale Triveneto (CET) per la vita consacrata, e da un'assemblea dei superiori e delle superiore maggiori. La novità di questo testo sta nel fatto che è l’unica dichiarazione di intenti promossa attualmente in Italia. Il patriarca di Venezia il card. Angelo Scola ha espresso l’intenzione di presentarla alla CEI affinché si proceda allo stesso modo anche in altre regioni ecclesiastiche.

Chiesa, casa e scuola di comunione


“Conoscenza” e “collaborazione” sono i due termini fanno da guida all’intero documento che si apre con questa dichiarazione: «Riteniamo tali criteri punti di riferimento irrinunciabili per questa Dichiarazione d’intenti, consapevoli che «vita consacrata e chiesa particolare sono fatti ... per sorreggersi e completarsi» al di dentro di «una feconda e ordinata comunione ecclesiale, alimentata da una crescente “mentalità e spiritualità di comunione”, vivificate da “un costante dialogo” fra tutti i vari soggetti ecclesiali».
Dire – come nel preludio del documento – che la comunione è in funzione della spiritualità è riscattarla dal pericolo della logica pattizia per evidenziare l’aspetto teologico sia della spiritualità sia della comunione: questo è il paradigma del documento.
A chi spetta principalmente questo compito? In Vita consecrata si legge : «Alle persone consacrate si chiede di essere davvero esperte di comunione e di praticarne la spiritualità, come testimoni e artefici di quel progetto di comunione che sta al vertice della storia dell’uomo secondo Dio» (46). Questa è dunque l’aspettativa della Chiesa nei riguardi della VC quella di concorrere a edificare la comunità cristiana nella sua identità più vera promuovendo «una feconda e ordinata comunione ecclesiale»..
Nel presentare il documento è stato detto, dal tavolo dei relatori, che oggi non ci sono più rilevanti frizioni tra clero diocesano e religiosi, ma è altrettanto vero che sono ancora consistenti le difficoltà nel raggiungere un’esperienza comunionale; in ogni caso la sufficiente sintonia domanda – è l’intento del documento – di diventare reciprocità nello scambio di doni. Per tale fine vanno incrementati rapporti di conoscenza, di collaborazione, di stimolo, di condivisione per mantenere vivi «tra il clero diocesano e le comunità dei religiosi/e rinnovati vincoli di fraternità e di collaborazione», dando «grande importanza a tutti quei mezzi, anche se semplici né propriamente formali, che giovino ad accrescere la mutua fiducia, la solidarietà apostolica e la fraterna concordia

Innanzitutto conoscenza reciproca

È il primo dei mezzi indicati. Allo scopo i vescovi si impegnano a:
– sensibilizzare clero e laicato al dono della vita consacrata e propone alle comunità parrocchiali di dare rilievo alla Giornata mondiale della vita consacrata, cosicché raggiunga la finalità per cui è stata istituita;
– incontrare una volta all’anno i superiori e le superiore delle comunità religiose presenti in diocesi, e periodicamente i superiori/e maggiori, per affrontare i problemi ritenuti più urgenti;
– invitare i superiori delle comunità locali, presenti nel territorio del vicariato, a partecipare agli incontri vicariali del clero;
– inserire negli studentati diocesani e regionali di teologia dei futuri presbiteri e negli istituti superiori per la formazione teologica dei laici, un «corso di teologia sulla vita consacrata» per offrire loro una congrua conoscenza di questo “dono di Dio Padre alla sua Chiesa per mezzo dello Spirito”.
A loro volta, per lo stesso fine, i Superiori/e maggiori si impegnano a promuovere:
– la conoscenza delle scelte pastorali della chiesa locale per poter effettivamente camminare sui suoi passi;
– un rapporto costruttivo particolarmente con il vescovo diocesano, con il vicario episcopale per la vita consacrata, con il parroco locale e i parroci del vicariato;
– il collocare (da parte dei responsabili) nei programmi annuali di formazione permanente degli Istituti di vita consacrata problematiche pastorali suggerite dalle chiese locali o dalla CET, cosicché i consacrati/e siano messi in condizione di conoscere e collaborare alle scelte pastorali della diocesi o regione ecclesiastica così da poter offrire il loro contributo.

Dalla conoscenza alla collaborazione

L’impegno di collaborazione dei superiori/e viene espresso con la promozi9one di «una feconda e ordinata comunione ecclesiale» chiedendo a tutte le loro comunità, nel rispetto del “carisma fondativo”, di coinvolgersi e lasciarsi coinvolgere nella piena partecipazione alla vita ecclesiale diocesana, attraverso:
– il sostegno, nella misura delle proprie possibilità, delle iniziative che la Chiesa locale si propone di raggiungere nei vari campi pastorali;
– la disponibilità, per quanto possibile, alle esigenze e alle richieste collaborative delle parrocchie e dei vicariati, ove si è presenti.
– la promozione della pastorale delle vocazioni in reciproca collaborazione, secondo lo spirito della “pastorale vocazionale unitaria”, nella consapevolezza che essa è «parte integrante della pastorale d’insieme di ogni chiesa particolare» ed eminente segno di speranza.
In particolare è richiesto un dialogo aperto tra responsabili della vita consacrata e vescovi, nel:
– dare priorità ai servizi più significativi rispetto a quelli meno significativi in riferimento alla situazione complessiva dell’istituto, alla fedeltà carismatica, alle urgenze ecclesiali, territoriali e socio-culturali;
– ridurre – se necessario e concretamente possibile – eventuali concentrazioni di presenze in uno stesso territorio diocesano prima di abbandonare una presenza che sia la sola in altro territorio;
– elaborare insieme e realizzare progetti di collaborazione in riferimento alle “opere”;
– programmare possibili accordi vicendevoli” nella previsione di chiusure di presenze e servizi di istituti di vita consacrata.

Sotteso è il discorso circa le “opere”. In un incontro di tutti i vescovi del nord-est e presidenti Cism-Usmi (Rovereto 3.6.’08) in preparazione del documento, era stata fatta una riflessione più ampia. In quell’occasione si diceva che a forza di specializzarsi nell’offrire “servizi” ci si è trovati ad essere considerati e valorizzati non per quello che si è e per le ricchezze spirituali di cui la vita consacrata è portatrice, ma per quello che si fa. Lo testimonia il fatto che quando si chiude un’opera, nessuno dice nelle comunità cristiane «qui viene meno una testimonianza del Vangelo». Dire questo non significa preclusione ad ogni tipo di opere ma a quelle che non sono trasparentemente strumento in funzione delle nuove sfide o in funzione di “segno”, vale a dire indicatrice di direzione, “esemplare”, intendendo con questa parola la funzione di proposta ai laici perché diventino soggetti di missione con l’assumere la ministerialità loro propria.

Deve esserci dialogo aperto

– nell’affidamento a singoli/e religiosi/e di incarichi particolari in diocesi (es. parroci, vicari episcopali, servizi in curia diocesana, ecc.), richiedenti una certa stabilità;
– nel trasferimento di religiosi/e che svolgono un compito significativo nella diocesi in cui si trovano ad operare;
– nell’alienazione di immobili e/o di titoli e licenze del proprio istituto, al fine di favorire, anche economicamente, la possibilità che siano acquistati dalla diocesi per finalità e attività ecclesiali.

Infine la “Dichiarazione di intenti” impegna il Vescovo a:
– tutelare la dovuta fedeltà al carisma fondativo di ciascun istituto;
– inserire i religiosi/e nella vita pastorale della chiesa locale;
– non far prevalere la logica della pura e mera funzionalità dei religiosi/e;
– provvedere che vengano inseriti come membri di diritto nel consiglio parrocchiale i responsabili delle comunità locali;
– prendere in considerazione la problematica del riconoscimento economico-retributivo dei religiosi e delle religiose variamente impegnati nei servizi pastorali della Chiesa locale.

È da dire che tutti gli intenti espressi nel documento sono fedeli all’istanza di Vita consecrata (47), dove si afferma che «è tempo di un ripensamento serio e creativo sul proprio modello di vita, con l’organizzazione e fisionomia ecclesiale» come parte insostituibile di un tutto, con la propria specificità, riconosciuta e valorizzata nei compiti che discendono dai vari carismi.

La storia non ha sempreagevolato i religiosi/e

Fino a poco tempo fa a definire lo stato di vita consacrata erano prevalentemente le categorie di separazione. Non solo dal mondo ma anche una certa “separazione” dalla vita della chiesa locale, complice, in parte, la passata legislazione canonica (C.I.C. del 1917) secondo cui i “Regolari” potevano sottrarsi alla dipendenza dell’Ordinario del luogo (esenzione). Questa riguardava soltanto gli ordini e alcune congregazioni ma per contiguità si era trasferita con il termine di autonomia a tutti gli istituti religiosi di diritto pontificio creando talvolta l’immagine di “chiesa parallela”. Non stupisce allora il fatto che un insegnante di ecclesiologia rispondendo a uno studente che gli faceva presente d’aver dimenticato i religiosi/e nell’elencare i soggetti della Chiesa, disse: «essi sono gli artigiani del Signore, lavorano in proprio». Certamente non era questo l’intento voluto dalla norma canonica sopra accennata quanto piuttosto l’integrità del regime proprio, la disciplina interna, le opere proprie, la fedeltà allo spirito fondativo. Ma oggi più di ieri siamo al punto che la vita religiosa si rende conto di faticare a dare ragione di se stessa a partire da sé. Infatti costruirsi di diritto o di fatto sull’autarchia, a lungo andare, ci si trova a non venire riconosciuti come presenti o comunque di diventare irrilevanti. Dal concilio in poi si è iniziato a sentire l’urgenza di ricrearne quell’identità, intravista da Giovanni Paolo II nell’essere lievito e fermento all’interno di un dato contesto cioè inseriti nel dinamismo della vita della Chiesa e del mondo che li ha generati e per il quale sono nati. Forse richiede ancora approfondimento l'ecclesiologia dei carismi, dei ministeri e delle diverse forme di vita cristiana per muoverci in un contesto di comunione per cui è ancora carente nella Chiesa il riconoscimento della varietà di doni e ministeri e quindi rilevante la difficoltà a comporli in armonia, ma è altrettanto vero che non è sufficiente che questi esprimano “in proprio” una “propria” pastorale ma la pastorale di una data Chiesa territoriale attraverso un particolare carisma.

“Non più affrontareil futuro in dispersione”

Questa indicazione, presa dall’istruzione Ripartire da Cristo (30), intende dire che i vari carismi in una data chiesa particolare non possono camminare in ordine sparso . Questo discorso però non è stato toccato in assemblea ma è serpeggiato al di fuori, nei vari momenti informali, di rimbalzo da un precedente incontro del nord-est dal titolo I religiosi nel territorio, in cui era stato detto che i consacrati/e nel dialogo con la chiesa locale non si percepiscono un soggetto unico ed unitario. C’e tanto sfilacciamento. Tanta attenzione a ciò che rende diversi per cui è poco sentito il coordinamento e la collaborazione. «C’è il bisogno – dice l’istruzione Ripartire da Cristo in riferimento ai consacrati/e – di essere Chiesa, di vivere insieme l’avventura dello Spirito e della sequela di Cristo, di comunicare le esperienze del Vangelo imparando ad amare la comunità e la famiglia religiosa dell’altro/a come la propria». Con ogni probabilità il senso di appartenenza alla chiesa locale deve vederci meno preoccupati di “dire noi stessi” alla comunità cristiana, quanto di dire la chiesa locale nelle sue molteplici espressioni e progetti.
Su questa strada, per l’opera fattiva di varie segreterie Cism-Usmi vanno efficacemente incamminandosi i consacrati/e in varie chiese particolari.