“Tommaso, uno dei dodici, soprannominato Didimo”(Gv 20,24). Didimo, cioè
“gemello”, ma di chi? A pensarci bene di ciascuno di noi! Non c’è nessuno più di
lui che ci assomigli. Aveva visto bene chi affermava:” Mi è stata più utile la
fede difficile di Tommaso che quella immediata della Maddalena”. Per questo
Tommaso ci è quasi simpatico perché dà voce alla nostra fatica di credere.
Se infatti credere è non pretendere né di vedere né di toccare, ma appunto dare
fiducia, allora la questione è aperta. Noi siamo infatti abituati a ragionare
sempre coi sensi e farne a meno è come non avere più la terra sotto i piedi.
Eppure questo non ha impedito all’uomo di imparare a navigare sulle acque o a
volare nel cielo!
“Gesù si fermò in mezzo a loro” (Gv 20,19). Questa imprevedibile
materializzazione del Risorto rispetto agli attoniti increduli discepoli è una
“traccia” da interpretare. Di fatto i discepoli si lasciano travolgere da un
fenomeno inaspettato, inizialmente pure incomprensibile. Da questo punto di
vista la fede nella risurrezione “è scaturita da questo travolgimento e cioè da
un avvenimento che precedeva il loro pensare e volere, che anzi lo rovesciava” (J.Ratzinger).
È decisivo ritrovare questa priorità del fatto della risurrezione sulla sua
interpretazione, non solo per stare a quel che lasciano emergere i testi
evangelici, ma più profondamente perché solo così si salvaguarda il realismo
dell’evento-chiave del cristianesimo, senza il quale la fede non starebbe più in
piedi. C’è prima l’apparizione del Risorto, poi il Kerigma e finalmente la fede.
“Gli altri discepoli gli dissero: Abbiamo veduto il Signore. Ma egli rispose: Se
non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei
chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò” (Gv 20,25). Se la
fede nasce da un Imprevisto, resta vero però che non diventa tale se non passa
dal semplice vedere - ormai impossibile – al puro credere. E Tommaso diventa
così l’anello di congiunzione tra la prima generazione e la nostra di oggi.
Credente è propriamente chi, superato il dubbio e la pretesa di vedere, accetta
la testimonianza autorevole di chi ha veduto. Al tempo di Gesù, visione e fede
erano abbinate, anche se non automatiche (quanti, pur vedendo i miracoli, di
fatto lo rifiutarono poi), ma ora nel tempo nostro, la visione non deve più
essere pretesa: basta la testimonianza apostolica.
Il segno che conduce alla fede si è trasformato, dunque. Non è più oggetto di
visione diretta, ma di testimonianza. Il che non significa affatto che al
credente sia preclusa l’esperienza personale del Cristo risorto. Tutt’altro. Gli
è offerta l’esperienza del perdono, della pace, della gioia, come controprova
vitale della verità pasquale.
“Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno” .
Tommaso, più che mettere il dito nella piaghe di Cristo (il testo evangelico per
sé non autorizza a ritenerlo) mette in realtà il dito nella piaga che è la
nostra fede sempre in pericolo. Per sprofondare fortunatamente alla fine nelle
parole che ne svelano l’autentica statura: “Mio Signore e mio Dio!”
Vedere il Signore Gesù nella sua gloria, vedere la dignità dell’uomo chiamato a
essere figlio di Dio, vedere l’umanità chiamata a essere la sua unica famiglia,
vedere che nel futuro di ogni persona non c’è la morte ma la vita per sempre … è
questo lo sguardo che la risurrezione e l’ascensione del Signore Gesù ci
sollecita a coltivare nella nostra vita quotidiana. Nella luce dello Spirito è
possibile ormai aprire i nostri occhi guariti dall’amore di Cristo, anche se
rimangono ancora deboli, fragili e bisognosi di tempo per abituarsi a questa
luce intensissima.
Francesco Lambiasi
da Il Pane della domenica
Editrice AVE, Roma 2008