Sul tema La VC nella Chiesa locale: risorsa preziosa per un’ecclesiologia di
comunione, si è svolto a Roma, dal 1° al 3 marzo 2010, il seminario di studio
promosso dalla Commissione mista della Cei. Era forse la prima volta che, alla
presenza di 120 partecipanti – fra cui una decina di vescovi delegati regionali,
una cinquantina di vicari o delegati episcopali diocesani per la VC, una decina
di religiosi, una ventina di religiose e quasi una trentina di membri di
Istituti secolari – si è provato a riflettere a fondo sulla necessità di una più
effettiva collaborazione fra tutti questi organismi ecclesiali. Le relazioni di
Giovanni Dal Piaz, di Maria Rosa Zamboni, di mons. Gianfranco Gardin, di
Pierluigi Nava, sono state integrate da una tavola rotonda, moderata da Lorenzo
Prezzi, e da alcuni gruppi di studio.
Mentre il titolo del seminario stimolava a guardare la VC nella Chiesa locale
come una risorsa preziosa per una vita di comunione, un po’ tutti i relatori vi
vedevano più un auspicio che non la conferma di un dato di fatto. Il titolo,
infatti, come ha affermato Dal Piaz, introducendo il suo discorso sull’analisi
dei dati pervenuti dalle singole diocesi in preparazione del seminario, «anche
senza volerlo, orienta, verso una lettura fin troppo positiva della VC di oggi».
A uno sguardo più lucido e sereno, però, insieme ai tratti di vitalità, non
possono sfuggire anche «i punti di debolezza, a incominciare dalle non proprio
numerose risposte pervenute» (73 su 224 diocesi).
Un cammino faticoso, ma possibile
Per quanto limitato, il campione aiuta comunque a comprendere «se e in quale
misura la VC sia una presenza significativa nella realtà diocesana». Guardando
l’insieme della VC italiana, i dati statistici più aggiornati ci parlano di
quasi 111.000 consacrati. Rapportata alla situazione mondiale ed europea, la VC,
nel nostro paese, continua ad essere una presenza importante. Anche se le
vocazioni non mancano, però, analogamente a quanto sta avvenendo a proposito del
clero diocesano, «risultano insufficienti a mantenere e dare continuità
all’attuale modello di presenza sul territorio».
È però, ancora più preoccupante la scarsa e frammentaria conoscenza della VC da
parte dei sacerdoti e dei laici. Non c’è da stupirsi se, ad esempio, in un’area
tradizionalmente religiosa come il Veneto, tra i ventenni «ci sia un 45% che
dichiara di non aver mai avuto modo di avvicinare un religioso, mentre l’89%
afferma di conoscere solo in modo generico la VC». Il fatto che ci si trovi
spesso a ragionare più sulla chiusura e il ridimensionamento delle opere che non
sulla progettazione di presenze qualitativamente più significative,
«contribuisce a costruire e trasmettere l’immagine di una realtà di VC ripiegata
su se stessa, affaticata, poco dinamica».
Oggi «siamo tutti più deboli». Il vecchio modello di relazioni istituzionali tra
istituti religiosi e diocesi, «non funziona più». Il crescente individualismo
istituzionale, sia da una parte che dall’altra, rende sempre più problematica
una «relazionalità aperta e collaborativa con tutti gli attori presenti nella
realtà ecclesiale». Ancora nel 1981, in occasione della prima (e unica)
assemblea congiunta Usmi-Cism, padre Cabra aveva osservato che «il cammino verso
la comunione ecclesiale è lento, faticoso, esige umiltà e pazienza, perché
coinvolge una somma di atteggiamenti che presuppongono ed esprimono una reale
conversione a Dio e ai fratelli». Il grande scoglio contro il quale hanno finora
fatto naufragio le conclusioni di tanti convegni, progetti e buoni propositi, è
quello del cambiamento di mentalità. Se le comunità religiose sono deboli,
invecchiate, poco incisive sul piano vocazionale e culturale, le parrocchie non
stanno sicuramente meglio.
In una società il cui valore centrale è quello della mobilità, della
flessibilità, del pluralismo culturale, dalle risposte ai questionari, invece,
emerge «una società sostanzialmente stabile, culturalmente omogenea, fondata su
relazioni interpersonali caratterizzate da fedeltà, durata, prevedibilità dei
comportamenti». Si fa fatica anche solo a vedere i nuovi soggetti pastorali, dai
movimenti, alle associazioni di fedeli, alle nuove forme di VC. Il punto di
riferimento è sempre il passato per un verso (il carisma, l’impegno apostolico,
il radicamento delle opere) e il presente per un altro verso (l’invecchiamento,
la scarsità delle vocazioni, il ridimensionamento delle opere).
E il futuro? «È incerto», risponde Dal Piaz, non perché proiettato verso forme
nuove e inedite di testimonianza, ma più semplicemente perché «non sappiamo
quali case dovremo chiudere e fino a che punto si riuscirà a restare sulla
breccia». Non si riesce, cioè, a uscire dal «perimetro mentale di un modello
organizzativo in declino». Questo spiega come mai le proposte operative non
vadano molto al di là della richiesta di inserire nei seminari corsi di teologia
della VC o di prevedere la presenza dei consacrati in tutti gli organismi di
comunione ecclesiale. Ciò che traspare con chiarezza dai questionari è purtroppo
«lo scarso senso di appartenenza alla Chiesa locale che si riscontra tra i
consacrati».
In maniera quasi simmetrica, il clero diocesano, mentre apprezza il servizio
efficace ed efficiente delle comunità religiose, di fatto poi «ne ignora o
trascura o sottovaluta le motivazioni spirituali e carismatiche sottese
all’azione dei religiosi». Una vera e propria collaborazione «non pare esistere
ancora». Ognuno continua a pensare e ad agire in ordine sparso. È
impressionante, poi, conclude Dal Piaz, il silenzio assordante che emerge dai
questionari: «manca la voce di laici, il che non è certo un bel segno di
comunione». Vi si accenna, qua e là, solo quando è in gioco la gestione delle
opere. Però «non abbiamo il punto di vista dei laici sull’apporto che la VC può
dare alla comunione nella Chiesa locale».
Alcuni aspetti fondanti degli istituti secolari
Anche Maria Rosa Zamboni, integrando il discorso di Dal Piaz, ha osservato che
quando si parla di ecclesiologia di comunione, «i principi e le premesse sono
fuori discussione». In merito, invece, a una loro concreta espressione
operativa, per far interagire «intensità di vita nei consacrati e annuncio
evangelizzante da parte di tutta la Chiesa locale», c’è ancora un lungo cammino
da compiere. Se già la VC è poco conosciuta e viene comunque troppo spesso
identificata con la vita religiosa, gli istituti secolari sono ancora meno
conosciuti «sia da parte di laici e sacerdoti, sia dagli stessi religiosi». Si
fa una grande fatica anche solo a conoscere gli elementi fondanti della
secolarità consacrata: la sua forma stabile di vita testimoniata nel mondo, la
specificità del suo carisma fatta di azione, di contemplazione, di riserbo, il
suo costante cammino di formazione, la sua presenza in tutti gli organismi
ecclesiali di partecipazione, una piena sintonia con la propria Chiesa locale,
una presenza missionaria nei punti più critici di raccordo tra la Chiesa e il
mondo, la capacità di arrivare facilmente alla mente e al cuore degli uomini e
delle donne di oggi.
Il disagio degli istituti secolari, sempre più di fatto connotati al femminile,
è in buona parte condiviso anche dalle religiose, quasi del tutto assenti dai
ruoli decisionali diocesani. Malgrado tutte le affermazioni teoriche, «è facile
constatare che nella società, e ancor di più nella Chiesa, la parola delle donne
ha un peso diverso da quella degli uomini». Se nelle Chiese locali si parla
poco, in genere, della VC, ancora meno si parla di consacrazione femminile.
Perché stupirsi allora se di fronte all’inevitabile chiusura di opere «alcune
religiose hanno la percezione di essere diventate inutili, perdono smalto,
creatività ed entusiasmo?». Il rischio per le consacrate, in questi casi, è
quello di non essere «mai pronte a percepire tutte le povertà invisibili a cui
nessuno risponde: dal bisogno di senso, di relazione, di essere amati per ciò
che si è, al bisogno di superamento della solitudine, al bisogno di
trascendenza». Non si tratta affatto di svalutare le opere, ma semmai di
cogliere l’esigenza di una risposta creativa attraverso la conversione delle
opere e il rinnovamento delle persone. Zamboni ha concluso auspicandosi che,
dopo questo seminario, nelle Chiese locali si «continui (o inizi) una
riflessione seria e sistematica su questo aspetto, nel confronto e nel dialogo
con gli altri organismi ecclesiali», nella speranza di arrivare poi
concretamente a delle proposte praticabili.
Dal campanile… alla Piazza san Pietro
Anche per mons. Gianfranco Gardin – ex segretario del dicastero vaticano per la
VC e ora vescovo di Treviso – a proposito di ecclesiologia di comunione, si
dovrebbe sempre opportunamente distinguere l’ideale dal reale. Gli stessi
documenti del Magistero sulla VC, infatti, mentre riaffermano, da una parte,
l’importanza dell’ecclesiologia di comunione, dall’altra non nascondono le
difficoltà di una sua concreta realizzazione.
Mentre da una parte, tra il prima e il dopo concilio, certi cambiamenti in
meglio, anche a questo riguardo, sono sotto gli occhi di tutti, dall’altra va
anche onestamente riconosciuto che «non dovunque è così». L’ideale di una piena
comunione tra Chiesa locale e VC prospettato in tanti documenti, deve fare i
conti con «le fatiche di una comunione reale dentro la storia».
Proprio per questo si dovrà continuare ad approfondire i nuovi fondamenti
teologici della propria identità. Non si può continuare a operare ognuno per
conto proprio. Purtroppo la consapevolezza del significato ecclesiale e della
ricchezza teologica degli uni nei confronti degli altri, non è sempre stata ai
più alti livelli. In certi documenti episcopali la VC o è del tutto assente,
oppure vi si accenna in maniera del tutto strumentale. È lo stesso atteggiamento
che si può facilmente riscontrare in tanti documenti post-capitolari degli
istituti religiosi nei confronti della Chiesa locale.
Senza sottovalutare il cammino fatto, ripete mons. Gardin, non si dovrebbe
lasciar nulla d’intentato per aprire altri percorsi, passando dalla diffidenza
all’accoglienza, dalla competizione alla collaborazione. Se è impensabile per
dei consacrati ignorare i progetti pastorali della propria Chiesa locale, così
questa dovrebbe, in qualche modo, imparare dai consacrati ad ampliare i propri
orizzonti apostolici ben al di là dei confini diocesani. In un contesto di
apostasia silenziosa, di fronte al numero crescente dei ricomincianti, la
pastorale della spiritualità non è un dovere solo delle Chiese locali. Al di là
di ogni competizione, dovrebbe diventare un proprium dei religiosi.
Con un’immagine molto suggestiva, mons. Gardin ha concluso il suo discorso
parlando di un doveroso passaggio dal campanile (parrocchiale), alla cattedrale
(diocesana), alla Piazza san Pietro (Chiesa universale). Da parte di tutti non
si dovrebbe aver paura ad allargare i propri orizzonti. Forse i religiosi, da
questo punto di vista, possono vantare una missionarietà più esplicita e
consolidata. Occuparsi, da parte loro, di ambiti dai quali tanti altri fuggono,
non significa per questo fuggire dalla Chiesa locale. Questa non potrà mai
essere veramente tale fino a quando non ci sarà, da parte di tutti, la volontà
di creare incessantemente comunione.
Anche Pierluigi Nava – monfortano, della presidenza Cism – raccogliendo le idee
emergenti dell’incontro, ha osservato che una progressiva presa di coscienza
dell’ecclesiologia di comunione tra Chiesa locale e VC, anche se ancora lungi
dal decollare, è oggi «una strada di non ritorno». Se ci si deciderà a
percorrere questa strada, la Chiesa locale potrebbe diventare un importante
laboratorio di sperimentazione di nuovi rapporti a tutto vantaggio sia della
Chiesa locale che della VC. Grazie a una reale apertura mentale, è urgente
elaborare progetti comuni efficaci e sostenibili, pensando alla propria presenza
«a partire dal punto di vista della Chiesa e non solo dal nostro esclusivo punto
di osservazione». Solo in questo modo sarà più evidente a tutti «il senso della
vocazione all’universale della VC e dei suoi carismi, nella poliedrica varietà
della Chiesa locale».