Le congregazioni religiose che operano in Italia affondano le loro radici in tempi più o meno lontani. Le 23 congregazioni esaminate nel seminario preparatorio risalgono per 1'80% al 1800. I fondatori hanno avviato le loro opere per rispondere a situazioni di degrado e povertà scaturenti dalle condizioni socio-economiche del tempo. Sentirono il dovere cristiano di dare aiuto, accoglienza, assistenza/cura, educazione e istruzione alle persone più emarginate e bisognose: dai ragazzi poveri e a rischio di esclusione sociale agli orfani, ai bambini e ragazzi sfruttati e venduti sulle piazze, alle ragazze e donne dedite alla prostituzione, ai malati e lebbrosi rifiutati dagli ospedali pubblici, ai lavoratori disoccupati e ai proletari senza sostegno, nelle varie fasi dell'industrializzazione, ai disabili fisici e psichici, ai vecchi abbandonati nelle grandi periferie urbane, ai carcerati, ai pellegrini ....
Anche le modalità furono le più svariate e originali a quel tempo: nidi per bambini illegittimi, asili per l'infanzia, orfanotrofi, collegi, case di accoglienza e centri di cure sanitarie, convitti e mense per operai lontani dalle loro famiglie, scuole elementari per sordi e ciechi, interventi di assistenza e cura per ammalati poveri a domicilio o presso ospedali. I nostri fondatori si preoccuparono soprattutto di offrire ai giovani e ai più abbandonati l'esperienza di una casa e di una famiglia. Per la promozione umana dei minori, infine, decisero di fondare scuole professionali per assicurare un avvenire dignitoso a quanti sarebbero cresciuti senza alcuna garanzia.

Interventi profetici

I loro interventi furono profetici e anticipatori di risposte e di servizi che in seguito sarebbero stati recepiti e fatti propri dai sistemi di welfare pubblici (scuole professionali, strutture socio sanitarie, interventi di cura a domicilio, ecc.). Le congregazioni religiose hanno riempito vuoti presenti nell'organizzazione pubblica dei servizi e hanno tracciato sentieri alle future politiche sociali. Scegliendo inoltre come destinatari privilegiati i poveri e gli esclusi in tempi in cui la povertà era considerata problema di ordine pubblico ed era affidata al ministero dell'interno, essi annunciavano con le opere la scelta evangelica degli ultimi, l’uguaglianza dei figli di Dio, la dignità di ogni persona, al di là della sua condizione sociale. In sintesi, l'opera delle congregazioni, grazie alla creatività, alla generosità e alla gratuità che esprimevano, costituiva un germe di ottimismo per la società, alimentava la speranza nei poveri, stimolava la solidarietà dei credenti e di persone di buona volontà, diventava una grossa spinta vocazionale per tanti giovani. Ci si domanda infatti come i nostri fondatori siano riusciti a compiere opere così numerose e così vaste, senza poter contare su capitali e su rendite certe. Avevano una fiducia reale e sconfinata nella Provvidenza. Un esempio per tutti fu san Giuseppe Cottolengo: «Quale torto voi fareste – diceva – alla Divina Provvidenza, se veniste a diffidare un solo momento di lei. Vi ho già detto tante volte che andiamo avanti a forza di miracoli; qua dentro ne vediamo ogni giorno; anzi possiamo dire che siamo un miracolo continuo».
In questo contesto si è sviluppato alle origini il carisma del fondatore.

La traduzione del carisma nel contesto attuale

Nel contesto attuale dobbiamo registrare cambiamenti profondi che hanno avuto inevitabili ripercussioni negli istituti religiosi e nei servizi da essi gestiti. Ne ricordiamo solo alcuni a titolo di esempio: il primo è costituito dalla nascita dello stato sociale. Con esso molti servizi che alle origini delle congregazioni venivano offerti per carità oggi sono un diritto esigibile per giustizia.
Dentro questo contesto, una parte di religiosi e religiose operano all'interno delle strutture pubbliche, in un rapporto particolare con l'amministrazione pubblica. Ad esempio, nell'ambito ospedaliero il personale religioso viene equiparato a quello laico: non esiste più, come in passato, una convenzione tra l'ospedale e la comunità religiosa che garantiva, praticamente, da parte delle religiose servizio a tempo pieno. È possibile l'assunzione dei singoli religiosi e delle singole religiose, previo regolare concorso e il riconoscimento della professionalità.
Religiosi e religiose possono operare anche con servizi propri, a favore di minori o di disabili o di anziani, all'interno della logica della sussidiarietà, ma devono farlo in piena sintonia con le norme legislative, sulla base di una convenzione con aziende sanitarie o comuni. Devono garantire regolare retribuzione del personale, muoversi puntualmente secondo i parametri stabiliti dall'amministrazione pubblica e accettare i normali controlli ai quali sono sottoposti tutti gli enti convenzionati.
Qui nasce in non pochi casi un interrogativo da parte dei religiosi: in che cosa si distinguono i servizi da loro realizzati sotto la spinta del proprio carisma dai servizi realizzati da enti non profit, di ispirazione cristiana o anche semplicemente laici?

Il calo delle vocazioni


Un secondo cambiamento riguarda la realtà delle congregazioni religiose. L'andamento delle vocazioni negli ultimi decenni ha subito un crollo verticale. L'età media dei religiosi e delle religiose ha superato i 60 anni. Questo fenomeno ha comportato, per un verso, l'assorbimento di una parte dei religiosi/ e giovani nell'assistenza ai confratelli e alle consorelle anziane. Per altro verso ha reso necessario l'inserimento di personale laico nei servizi. Anche sotto questo profilo sorgono dei problemi, quali la scelta dei collaboratori laici, la loro formazione, la sintonia con il carisma proprio della congregazione ecc.
Un terzo cambiamento riguarda la cultura dell'assistenza. Anzitutto si avverte sempre più la necessità di partire dalla lettura dei bisogni e solo sulla base di quanto emerge programmare gli interventi. Inoltre si avverte il dovere di unire sempre più strettamente l'ambito «sanitario» con quello «sociale»: non si tratta solo di un'operazione di semplificazione o di risparmio di risorse, quanto piuttosto di coerenza con la realtà. Vanno aumentando infatti le situazioni che richiedono un lavoro congiunto dei servizi sanitari e sociali. Infine si va riscoprendo l'importanza della prevenzione. Anche quest'ultimo aspetto interpella le congregazioni. Salvo splendide eccezioni, i loro servizi, soprattutto assistenziali e sanitari, sono tuttora troppo sbilanciati nell'ambito «riparatorio» e meno impegnati in quello della prevenzione.
Qui ritorna l'interrogativo posto all'inizio: quale significato assume, nel contesto attuale, l'impegno di servizio ai poveri, ai sofferenti, agli emarginati, derivante dalla consacrazione religiosa? Esiste un “valore aggiunto” percepibile all'esterno?
Il cuore, 1'anima della presenza religiosa offerta attraverso i servizi e le opere di carità all'umanità di oggi e di sempre, è costituito dai valori insiti nella loro consacrazione. È evidente che tali valori mantengono il loro pieno significato a livello personale, come pure a livello ecclesiale, costituendo un forte richiamo alla radicalità evangelica.
A livello civile, invece, ossia nel contesto della nostra società secolarizzata, la significatività della vita religiosa è condizionata dalla capacità delle persone consacrate e delle rispettive comunità, di tradurre i valori scaturiti dalla consacrazione in termini percepibili dalla sensibilità comune e valutabili in termini razionali. In concreto i servizi dei religiosi/e verranno accettati e apprezzati nella misura in cui esprimeranno i valori evangelici, e quindi un servizio integrale all'uomo, a iniziare dalle persone più deboli.

Tradurre i valori in termini comprensibili oggi

Questo problema, se l'è posto il Santo Padre nell'enciclica Deus caritas est. Egli risponde in termini molto semplici, soffermandosi in particolare su tre valori: anzitutto la competenza professionale, inoltre quello che egli chiama l'attenzione del cuore, infine la gratuità. Senza entrare nella dimensione teologica, mi permetto di dire una parola sulle ricadute che questi valori possono avere nei servizi sociali realizzati dai religiosi.
– Competenea professionale. La fede cristiana ci impone di operare con la persona non solo rispondendo ai suoi bisogni ma anche e anzitutto rispettandone l'identità e la dignità, recuperando tutte le sue potenzialità e aiutandola a diventare soggetto attivo nella società. La competenza professionale impegna a muoversi con lo stile della progettualità, comprensiva anche della valutazione di esito delle nostre opere. Non è sufficiente fare il bene, bisogna farlo bene, proporsi obiettivi realistici e, alla fine, interrogarsi se e in che misura essi sono stati raggiunti. È importante che le congregazioni religiose aiutino i propri membri ad acquisire i titoli di studio necessari per essere riconosciuti idonei ai ruoli previsti nei servizi. In una regione sono stati organizzati corsi obbligatori per direttori di case di riposo. Una parte delle superiore
non ha potuto accedervi, mancando del diploma di scuola media superiore.

– Il secondo valore è, come scrive il S. Padre, «l'attenzione del cuore». Mi sembra che l'espressione sia comprensiva di tante finezze e attenzioni. La persona deve essere trattata come unica e irripetibile. Si deve puntare a realizzare la personalizzazione dell'intervento: non esistono le malattie, esistono i malati. Non esiste l'assistenza, esistono le persone da assistere, ciascuna con la sua storia, con i suoi problemi familiari, con le sue preoccupazioni e anche con le sue risorse, da valorizzare con intelligenza. Questa attenzione personalizzata è tanto più necessaria quanto più la persona è fragile, umile e povera. La scelta degli ultimi, di ispirazione evangelica, trova qui una delle traduzioni più significative.

– Infine il papa parla di gratuità e arriva ad affermare che «Chi esercita la carità in nome della Chiesa, non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa» (Dce 31). I poveri vanno aiutati perché poveri e perché presenza di Cristo, non perché potenziali conquiste cristiane. La carità di Dio per noi viene da Lui esercitata lasciandoci la libertà di accettarlo o rifiutarlo.
Questi valori, naturalmente, non sono un'esclusiva dei religiosi: vanno vissuti da tutti i cristiani. Però per i religiosi essi costituiscono un dovere preciso, scaturente dalla loro consacrazione religiosa e da esprimere in maniera radicalmente significativa.
Nel seminario dell'Usmi, Cism, Firas i partecipanti si sono domandati se sia possibile esercitare la gratuità, tanto praticata dai nostri fondatori, in un tempo caratterizzato da convenzioni, contributi, stipendi, cioè da un sistema in cui dominano lo scambio economico e la logica del dare-avere. La risposta è stata che la gratuità è possibile, ma deve assumere, oltre all'assenza di un guadagno economico, anche altre espressioni, quali la piena disponibilità verso l'altro, il costruire relazioni, il non far pesare sugli altri i nostri problemi.
Ci sono inoltre due spazi di gratuità, aperti anche ai religiosi e le religiose del nostro tempo: il primo è l'esercizio di volontariato, al di fuori dei tempi di servizio prescritti dai contratti. Il secondo è costituito dalla ricerca e sperimentazione di risposte nuove, di fronte a bisogni emergenti, che proprio perché non ancora recepiti dall'amministrazione pubblica non vengono retribuite e che difficilmente potranno mai diventare diritti, quali ad esempio rispondere al bisogno di senso, alla richiesta di amicizia ... In ogni caso, s'è detto, è importante che le congregazioni nel loro insieme trovino spazi di servizio gratuito, giacché «...la gratuità è la migliore testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare» (Dce 31 c).
Vorrei qui ricordare che la gratuità, intesa come ricerca di risposte nuove, si collega con vocazione profetica della vita religiosa, ed è già molto praticata in tante congregazioni. Lo si può cogliere anche dalle risposte esaminate nel seminario preparatorio, dove si possono registrare a titolo di esempio, visite su strade, nei club e negli ospedali per un primo contatto con le donne che si prostituiscono; accoglienza di immigrati in comunità multietniche; case alloggio per malati di aids; pensionati aperti ai bisogni del territorio, anche tramite la creazione di cooperative sociali; accoglienza di donne in grave emarginazione rifiutate altrove; case-famiglia per donne agli arresti domiciliari; accompagnamento preventivo ed educativo di adolescenti immigrati; assistenza di anziani e disabili a domicilio. Dalle risposte al questionario sopra ricordato, è documentata un'esperienza iniziata nel 2005; a favore di persone in stato di emarginazione ed esclusione sociale, articolata in tre fasi: prima accoglienza, ricupero delle potenzialità soggettive, inserimento nella società e piena autonomia sia lavorativa che abitativa. È un peccato che tante buone pratiche non trovino le condizioni per circolare ed essere messe a conoscenza di tutte le congregazioni.

Tre nodi da sciogliere


Il seminario preparatorio alla presente conferenza ha evidenziato tre nodi che le congregazioni sono chiamate a sciogliere e che riguardano la loro presenza nel contesto attuale. Essi sono: la presenza dei laici nelle nostre opere di carità, il rapporto con la comunità cristiana e il rapporto con la società civile.

Presenza dei laici
 

Due sono le tipologie di laici che frequentano le nostre opere di carità: i laici assunti come dipendenti e i volontari.
Le presenze di laici assunti come dipendenti sono in massima parte conseguenza della diminuzione delle vocazioni. L'interrogativo da porci è: come viviamo la loro presenza? Come necessità inevitabile o come opportunità per la diffusione e la condivisione del carisma in termini più ampi?
In questa seconda ipotesi si impone l'avvio di un percorso che porti a considerare i laici non più solo come dipendenti, ma anche come collaboratori e quindi corresponsabili, superando una visione privatistica dell'opera. È evidente che un cambiamento di questo tipo implica da una parte la disponibilità degli istituti a entrare in dialogo con i collaboratori laici, accettando i loro contributi anche critici, derivanti da esperienze e vissuti diversi. D'altra parte comporta l'apertura dei collaboratori a far propri gli stimoli formativi scaturenti dal carisma dell'istituto e l'adesione al sistema complessivo dei valori, che caratterizza l'attività dell'istituto stesso. Le esperienze che vanno maturando in alcuni istituti in questa prospettiva, vengono giudicate positive.
Naturalmente i collaboratori esterni, dal punto di vista giuridico-amministrativo, sono dei lavoratori dipendenti e, in quanto tali, vanno retribuiti secondo giustizia, rispettando i parametri sindacali. Le opere delle congregazioni, sotto questo profilo, sono normali imprese sociali, anche se non hanno l'obiettivo del profitto. Esse sono tenute a dare esempio di rispetto delle leggi e dell'equità. Vale anzitutto per le realtà di chiesa quanto afferma il Concilio riferendosi ai cristiani laici: «Siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia, perché non avvenga che si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia» (AA.8).
I volontari sono la seconda categoria di laici che possono essere coinvolti nelle opere delle congregazioni religiose. Ci sono volontari impegnati a titolo personale e ci sono volontari inseriti in un'associazione, talvolta creata dalla stessa congregazione e ispirata al carisma della medesima. I volontari costituiscono una forza importante, viva e integrativa dell'opera dei religiosi e delle religiose. Le esperienze già consolidate da alcune congregazioni, suggeriscono alcune attenzioni: anzitutto deve trattarsi di vero volontariato, cioè di un volontariato prestato gratuitamente. Non va seguito il cattivo esempio di alcune associazioni laiche che hanno creduto di incrementare il volontariato fornendo un «rimborso spese forfettario». Se il volontario sostiene delle spese queste vanno rimborsate su documentazione, ma non si deve rischiare di far passare per volontariato il lavoro nero.
Va dato tutto lo spazio, inoltre, per una formazione adeguata ai volontari, sia sotto il profilo professionale – per servire bisogna saper servire – sia sotto il profilo motivazionale e spirituale.
Infine il volontariato va responsabilizzato: ci vuole chiarezza nei compiti concordati nella linea e nel progetto del servizio. Nei servizi di aiuto alle persone esistono bisogni ai quali non sempre si può trovare risposta da parte delle figure istituzionali. Si individuano perciò spazi propri del volontariato, che ne valorizzano la presenza e ne definiscono la preziosità. È quasi superfluo ricordare che il volontariato, accanto al servizio diretto alla persona, deve preoccuparsi anche di sensibilizzare la comunità civile alla solidarietà e stimo¬lare le istituzioni a garantire i diritti previsti per tutti nella Costituzione.

Servizi di carità dentro la comunità cristiana

La collaborazione con la comunità cristiana nell'attuazione della testimonianza di carità può essere vista sotto il profilo delle motivazioni e sotto quello delle modalità.
Le motivazioni sono quasi ovvie. Le congregazioni non sono “isole”, ma sono espressioni vitali della Chiesa, di quella universale e di quella diocesana, impegnate con essa nell'unica grande missione di evangelizzazione, che si attua attraverso l'annuncio, la liturgia e la testimonianza. L'enciclica Deus caritas est presenta questo aspetto come assodato: «Il vero soggetto delle varie organizzazioni cattoliche, che svolgono un servizio di carità, è la Chiesa stessa, e ciò a tutti i livelli, iniziando dalle parrocchie, attraverso le chiese particolari, fino alla chiesa universale»(32).
Mi permetto qui di richiamare la responsabilità dei superiori delle congregazioni religiose nel controllare che non ci siano abusi nella conduzione dei servizi, abusi che finirebbero per ricadere su tutta la Chiesa, perché le opere di carità sono affidate dalla Chiesa e compiute in nome della Chiesa. Ricordo a titolo di esempio lo scandalo dei Celestini di Prato negli anni Settanta, che indusse la congregazione dei religiosi a far nascere nelle diocesi le commissioni diocesane di assistenza, poi cadute in disuso. Il problema del controllo rimane. Basta ricordare il più recente scandalo dell'Opera Papa Giovanni di Cosenza, dove la guardia di finanza scoprì che i ricoverati erano mal curati, il personale non pagato e il presidente, un sacerdote, con le rette della regione, era riuscito a costruirsi un lussuoso appartamento.
Ci sono anche motivi di ordine pratico: l'operare dentro la chiesa particolare consente alle congregazioni di farsi conoscere nel loro carisma e questo può favorire la nascita di nuove vocazioni. Inoltre, i religiosi operando dentro la Chiesa hanno l'opportunità di diffondere la sensibilità e la solidarietà nei confronti dei poveri e degli emarginati: è noto infatti che molti disagi sofferti da anziani, da disabili, da immigrati ... scaturiscono dalla insensibilità da cui sono circondati e talvolta dalla disistima e dall'esclusione sociale.
Infine è ovvio che, operando congiuntamente come Chiesa, si riesce più facilmente a incidere anche sulle scelte politiche, orientandole preferenzialmente verso le fasce più deboli.
L'appartenenza ecclesiale è chiamata in causa anche nei momenti in cui la scarsità di risorse umane costringe a chiudere alcune opere. Nella scelta si deve tener conto non solo della logica della congregazione, ma anche delle necessità della chiesa locale. Quando viene a mancare il personale religioso e le congregazioni non sono più in grado di sostenere le opere, le strutture potrebbero essere alienate e il ricavato potrebbe essere messo a disposizione di giovani congregazioni del terzo mondo che hanno carisma e personale, ma mancano di mezzi. Sarebbe un segno esemplare di comunione ecclesiale.


Religiosi e religiose testimoni di carità sul territorio


I religiosi sono impegnati sotto un doppio profilo a rapportarsi con il territorio: in quanto cittadini alla pari di tutti gli altri e in quanto gestori di servizi.
In quanto cittadini sono portatori dei diritti e dei doveri sanciti dalla Costituzione, contribuendo attivamente a realizzare la giustizia, rispettando le leggi e pagando le tasse, alla pari di tutti gli altri cittadini. L'enciclica «Carità nella verità» ricorda il dovere di tutti e in particolare dei cristiani di praticare la carità, salvaguardando la giustizia. Scrive in proposito il S. Padre: «La carità non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all'altro ciò che è suo, ciò che gli spetta, in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso donare all'altro del “mio”, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. La giustizia è inseparabile dalla carità». E cita Paolo VI, secondo il quale «la giustizia è la misura minima della carità» (Civ V. 6).
In quanto gestori di servizi sociali, essi collaborano alla realizzazione del welfare, nel quadro del principio di sussidiarietà. Questa presenza, in prospettiva, dell'attuazione del federalismo fiscale, sarà sempre meno scontata. I servizi offerti dalle congregazioni, per non essere fuori dal sistema, dovranno dimostrare di poter assicurare i livelli essenziali di assistenza, di operare in piena trasparenza e, nel rapporto costo-efficacia, dovranno esibire una specie di valore aggiunto, quale potrebbe essere la capacità di innovazione e di cambiamento e la disponibilità a ricercare risposte originali alle forme nuove di povertà.
Già adesso l'amministrazione regionale ha un peso determinante ed esige tutta una serie di condizioni. Ad esempio, la regione Lombardia richiede come condizione per rinnovare il contratto di collaborazione di rispettare il “Codice etico” e di esibire il “Bilancio sociale”. Ma il peso della regione si accentuerà ulteriormente con la legge sul federalismo fiscale. È prevedibile inoltre che, nell'attuazione delle politiche sociali, vengano privilegiati enti e associazioni che hanno radici nelle regioni stesse. Questa visione di sussidiarietà orizzontale imporrà, forse, qualche riflessione alle congregazioni religiose che per loro natura si muovono secondo una logica verticale (sede generalizia, provinciale, locale).
Ma non dovrebbe essere questa la maggiore preoccupazione dei religiosi/e che hanno compiuto la scelta della sequela di Cristo, bensì quella di servire i poveri e di difendere i poveri. È questo un campo privo di concorrenza. Oggi, in una situazione di scarsità di risorse, gli enti locali tendono ad affidare la gestione dei servizi alle realtà non profit, preoccupandosi più del servizio economicamente più vantaggioso che della qualità. Si assiste in alcuni casi a una specie di guerra tra enti non profit per accaparrarsi la convenzione che consenta all'ente di sopravvivere. In questa gara al ribasso le congregazioni non hanno interesse ad entrare, per rispetto alla propria dignità e alla propria scelta di vita.
Inoltre oggi i poveri, più ancora che in passato, sono “orfani”, sono privi di difensori. L'ambizione delle congregazioni religiose dovrebbe essere quella di fungere da “avvocati” dei poveri. Questo potrebbe avvenire attraverso due modalità: anzitutto realizzando opere destinate essenzialmente ai più poveri o, quanto meno, aperte a tutti compresi i poveri, senza discriminazioni. I servizi destinati solo ai benestanti o a chi può pagare possono essere senza dubbio “servizi”, ma difficilmente sono “segni messianici”. Nel caso in cui questo non sia possibile, c'è da domandarsi se abbia ancora senso una presenza operativa di religiosi/e nati per servire i poveri, ma costretti a dedicarsi solo ai benestanti.
La seconda modalità è quella di costituirsi come «coscienza critica» di fronte allo stato, per garantire una politica sociale che garantisca a tutti la salvaguardia dei diritti umani e dei diritti civici fissati dalla Costituzione.

Tornare al carisma delle origini

Se dovessi dare una risposta all'interrogativo posto all'inizio, su come incarnare nel nostro tempo il carisma delle origini, mi sentirei di sintetizzarla in quattro punti:
– recuperare, a livello personale e a livello congregazionale, uno stile di vita caratterizzato dalla povertà, dall'essenzialità, dalla rinuncia al superfluo, che renda visibile la radicalità delle nostre scelte. La gente e soprattutto le persone povere e non acculturate, semplicemente guardandoci e osservando le nostre case e le nostre strutture, devono accorgersi che abbiamo fatto il voto di povertà.

– Nei nostri servizi – scuole, strutture assistenziali, ospedali e case di cura, associazioni del tempo libero – deve risultare evidente la scelta preferenziale dei poveri, a imitazione di Gesù Cristo. Questa scelta era inequivocabile nei nostri fondatori. Naturalmente dobbiamo farci carico di scoprire le nuove povertà e di spostare le tende dei nostri servizi verso i settori dove maggiore è la domanda di solidarietà: gli immigrati della seconda generazione, le famiglie che non possono sostenere la spesa per la badante, le ragazze tentate di abortire per non perdere il lavoro e quelle avviate alla prostituzione, i giovani vittime delle varie dipendenze e tante altre povertà nascoste.
– Sforzarci di inserirei al meglio nelle nostre chiese locali, facendoci carico delle loro positività e delle loro debolezze, come pure delle difficoltà crescenti ad agganciare le nuove generazioni e più in generale a comunicare il messaggio della salvezza. E farlo in termini propositivi, indicando strade nuove di presenza, evitando sterili contestazioni e mostrando di amare realmente le nostre chiese. È sempre illuminante l'esempio di san Francesco, che non condivideva le “guerre sante” del suo tempo e tuttavia evitò il sentiero facile della contrapposizione per imboccare quello della testimonianza non violenta attraverso l'incontro con il sultano, accettando anche il rischio di coprirsi di ridicolo.
– Inserirsi nella società civile, prendendo coscienza delle sue contraddizioni, della tendenza a ridurre lo sviluppo all'aspetto materiale ed economico, del rischio permanente di discriminare, di escludere, di coltivare tendenze razzistiche. Non possiamo essere compiacenti con queste scelte né per propiziarci qualche privilegio e qualche sostegno alle nostre iniziative né per un malinteso concordismo. Deve risultare chiaro che la nostra scelta di vita è all'antitesi di ogni compromesso sul piano dei valori.

I servizi di carità in rete


I servizi di carità delle congregazioni religiose, oltre a essere testimonianze di solidarietà e strumenti di evangelizzazione, costituiscono anche un grande po¬tenziale di progresso sociale e una spinta al cambia¬mento, in forza dei valori di cui sono portatori.
Queste potenzialità si trasformeranno in realtà solo a condizione che le singole congregazioni superino ogni tentazione isolazionistica e ogni illusione di autosufficienza e adottino la strategia del lavorare insieme, mettendo in comune informazioni, intuizioni profetiche, collaborazioni e perfino realizzazioni di iniziative comuni: in una parola assumendo la strategia del “lavoro in rete”.
In un mondo caratterizzato dalla “complessità”, nessuna iniziativa singola, per quanto importante, ha realisticamente speranza di produrre cambiamento culturale e sociale. E di cambiamento c'è sinceramente bisogno, nell'attuale congiuntura di uscita dalla terribile crisi che ha colpito il mondo. Sarebbe grave se l'esodo dalla crisi significasse un semplice ritorno al modello di società che abbiamo lasciato alle spalle, che fondava il proprio prestigio sul piano del Pil e sulla cultura consumistica e accettava come normali le disuguaglianze scandalose tra i popoli del nord e del sud del mondo e anche all'interno dei singoli paesi economicamente sviluppati.
Il nuovo modello di sviluppo che noi tutti auspichiamo è quello di un umanesimo integrale, aperto ai valori cristiani e umani della solidarietà, dell'uguaglianza, della giustizia sociale e della fraternità. Sono i valori che sostengono le nostre opere e i nostri servizi e che riusciremo a trasmettere a condizione che decidiamo di operare in sinergia e in comunione.
Consentitemi di terminare con due sottolineature, che vogliono essere di incoraggiamento.
Anzitutto le vostre opere di carità e di servizio ai poveri, sono “Parola di Dio”, sempre attuale e sempre efficace. Al primo convegno ecclesiale della chiesa italiana, tenuto a Roma nel 1976 sul tema Evangelizzazione e promozione umana si diceva che «la testimonianza delle opere è l'abc dell'amore cristiano, è il Vangelo accessibile a tutti, anche ai poveri e agli analfabeti». Di questo vangelo, narrato con la vita c'è bisogno oggi, quanto e più che in passato. Voi prestate alla Provvidenza le mani e il cuore, affinché la narrazione del vangelo della vita raggiunga e riscaldi il cuore degli uomini e delle donne del nostro tempo.
Può darsi che le situazioni nuove in cui siamo chiamati a vivere richiedano cambiamenti rispetto al modo tradizionale di vivere e di rapportarci tra noi. I cambiamenti sono sempre un po' dolorosi, giacché ci distaccano dal passato che fa parte della nostra vita e della nostra affettività. L'importante, però, per la nostra realtà di consacrati non è salvare la nostra immagine personale o comunitaria, bensì rendere presente l'Amore. Sono rasserenanti, in tal senso, le parole di Benedetto XVI: «È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza» (Dce 35).