PADRE ARRUPE A CENT’ANNI
DALLA NASCITA
UN INTERPRETE AUDACE DEL
CONCILIO
È stato un ottimista pieno di realismo perché
fiducioso nell’azione dello Spirito. Per questo ha invitato a guardare avanti
senza nostalgie per il passato. Se non si può chiedere a tutti lo stesso grado
di ottimismo, diceva, a tutti si richiede almeno di non ammettere mai il
pessimismo, poiché la novità del concilio è un dono di Dio che merita la nostra
totale fedeltà.
Il 14 novembre scorso si
sono compiuti cento anni dalla nascita di padre Pedro Arrupe. Sono trascorsi
anche 16 anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 5 febbraio 1991, ma la sua
figura è ancora molto viva in molti che l’hanno conosciuto direttamente o
indirettamente, soprattutto per la grande saggezza con cui ha saputo
interpretare e attuare le novità del concilio Vaticano II, in mezzo a tante
spinte contrastanti, sia nella Compagnia di Gesù sia nella stessa Chiesa.
Alcuni lo chiamarono “l’uomo dell’utopia”, altri “un mistico e un profeta del
nostro secolo”, altri, ancora, lo riconoscevano come uno che ha fatto cose
nuove, nel nome del Signore. In un’epoca di tensioni nella Chiesa
postconciliare e all’interno stesso della Compagnia ha saputo procedere con
raro equilibrio e con illuminato discernimento, sostenuto da una fede
incrollabile e da una fiducia incondizionata nell’azione dello Spirito il
quale, come diceva, non induce mai a tornare indietro né a fermarsi al
presente, ma invita, anzi spinge a guardare _al futuro e a intraprendere con
coraggio vie nuove. Per questo ha avuto anche molto da soffrire a causa di
incomprensioni che a volte hanno contagiato i vertici stessi della Chiesa.
Ripercorrere oggi la vita
di padre Arrupe vuol dire rileggere un periodo esaltante e insieme inquieto
della storia recente della Chiesa e della stessa vita consacrata; ma
soprattutto vuol dire riconoscere tutta la validità dei criteri di
comportamento da lui adottati e che continuano a essere quanto mai validi anche
per noi oggi. Il concilio infatti ha tutt’altro che esaurito la sua spinta ed è
ancora in gran parte da attuare.
Pubblichiamo qui, con
solo un piccolissimo taglio iniziale, il ricco profilo che di padre Arrupe ha
tracciato l’attuale Preposito generale della Compagnia di Gesù, p. Peter-Hans Kolvenbach, il 13 novembre scorso nell’aula
magna dell’università di Deusto, a
Bilbao, città natale di p. Arrupe.
Padre Pedro Arrupe fu
eletto Preposito generale della Compagnia di Gesù il 22 maggio 1965. Prima di
allora si era trovato a dover far fronte a molte sorprese, a grandi cambiamenti
e profonde novità nella sua vita. Un “colpo di grazia” a Lourdes cambiò la sua
promettente carriera di medico in quella di gesuita, lasciandosi guidare nel
suo cammino verso Dio dal suo compatriota basco Ignazio di Loyola. Le
vicissitudini della politica nazionale lo trasformano in un esiliato,
condannato a un’esperienza internazionale nella sfida di imparare nuove lingue
e far fronte a diversi cambiamenti culturali in Europa e negli Stati Uniti.
Tutti questi sradicamenti
non estinguono in lui il desiderio di seguire le orme dell’altro suo
compatriota, Francesco Saverio. Queste separazioni non esauriscono il suo
desiderio di annunciare la buona notizia del Signore in Giappone, un paese
dotato di una cultura religiosa perfetta, che sembra non avere bisogno di
nessuna buona notizia che venga da fuori. In “questo Giappone incredibile”,
sperimenterà la novità dell’isolamento durante un mese in una cella della
prigione di Yamaguchi, accusato di spionaggio. Giungerà a dire che questa
esperienza insperata fu un colpo di grazia, poiché in solitudine con l’unico
Signore visse, come ebbe a dire, «il mese più istruttivo della mia vita».
Un’altra novità vissuta
in Giappone sarà quella della moderna invenzione dell’orrore umano che si
chiama la bomba atomica di Hiroshima. Celebrando l’Eucaristia il giorno dopo il
cataclisma, davanti a tanti corpi stesi al suolo, p. Arrupe rimane come
paralizzato nel momento in cui deve dire davanti a tanta sofferenza “Dominus
vobiscum”. Ma, contro una tale apparenza, il Signore è con voi.
L’ESPERIENZA
IN GIAPPONE
Una trentina di anni
dopo, quando p. Arrupe visitò il Libano e io gli feci vedere le rovine del
centro della città di Beirut, gli dissi che dopo una notte di terribili
bombardamenti distruttivi, il mattino seguente gli uccelli cantavano sugli
alberi. Egli mi rispose che anche a Hiroshima il Signore della vita non permise
che l’incredibile potenza della morte dicesse l’ultima parola. Come dice il
Cantico dei Cantici: “forte come la morte è l’amore, le grandi acque non
possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo” (Ct 8,6-7).
Ancora in Giappone vive
un’altra novità quando è nominato responsabile di un gruppo importante di
gesuiti, di origine internazionale. Padre Arrupe incoraggia questi apostoli ad
abbandonare generosamente le maniere occidentali di pregare, di vivere e di
lavorare per farsi, a imitazione dell’apostolo Paolo, tutto a tutti. In questo
modo voleva far sì che i giapponesi riconoscessero nel volto di Cristo e della
sua Chiesa, i tratti giapponesi del loro ancestrale desiderio religioso. Una
tale fedeltà a questo modo di approccio nuovo dell’apostolo Paolo suscitava in
alcuni l’entusiasmo apostolico, ma risvegliava in altri una resistenza di
principio.
Questo è il modo con cui
il Signore era andato preparando p. Arrupe a guidare la Compagnia nella novità
che lo Spirito aveva ispirato nella Chiesa del Vaticano II, nel mondo e per il
mondo. Rivolgendosi ai gesuiti di Roma l’11 marzo 1967, p. Arrupe sottolinea
che la Congregazione Generale 31a – che lo elesse generale – è come un seme e
un’esigenza di vita nuova che impegna la nostra responsabilità davanti a Dio e
alla storia. Terribile responsabilità davanti alla storia, ma soprattutto
responsabilità ancora più grave davanti a Gesù Cristo. Egli non ci ha scelti
per i nostri meriti, né a motivo dei nostri gusti, ma secondo il beneplacito
della sua volontà. In questo modo la nostra missione nella Chiesa, per quanto
limitata e modesta, è affidata alla nostra responsabilità personale e
comunitaria affinché vivificati e riuniti nel suo Spirito, ci incamminiamo
verso la consumazione della storia umana in piena conformità con il suo disegno
di amore.
Questa conclusione che
assume pienamente in Dio la realtà di una Chiesa che cambia e l’esigenza di
scoprire nuovi approcci per rispondere ai bisogni nascenti della Chiesa e del
mondo, non elimina gli sforzi, gli sconvolgimenti e i sacrifici che comportano
tutti questi cambiamenti e adattamenti.
Il padre Arrupe è
realista: a noi sarà chiesto di più che non ai gesuiti del tempo di
sant’Ignazio. Appena terminato il concilio chiede di non lasciarsi
impressionare da dichiarazioni quali “è cambiata la Compagnia” o quell’altra
più crudele per il riferimento personale, “quello che Ignazio, un basco, ha
costruito, un altro basco lo sta distruggendo”. Prevedendo reazioni di questo
genere, p. Arrupe, al termine della Congregazione, confessa il suo desiderio di
impegnarsi in una fedeltà piena e totale al concilio Vaticano II. È un
“ottimismo realista pieno di fiducia nello Spirito Santo che guida la Chiesa e
la Compagnia. Non si tratta di conservare un ricordo nostalgico del tempo
passato, né di un risentimento o malcontento per i cambiamenti difficili che
incontriamo all’interno della Compagnia o al di fuori di essa. Sempre
rispettoso della reazione dell’altro ai principi e alle attuazioni dell’
“aggiornamento”, p. Arrupe afferma che “anche se non si può esigere da tutti lo
stesso grado di ottimismo, si impone almeno a tutti l’esigenza di non ammettere
mai il pessimismo, poiché la novità del concilio è un dono di Dio che merita la
nostra totale fedeltà.
DALLE OSSERVANZE
ALL’APERTURA ALLO SPIRITO
Questo spirito e questo
messaggio del padre Arrupe si facevano sentire nei dettagli concreti della vita
dei gesuiti, e dato il grado di nervosismo di questo tempo post-conciliare,
qualsiasi fatto banale poteva scatenare autentiche tempeste. Così avvenne, per
esempio, durante la sua prima visita ai gesuiti di Parigi, appena un anno dopo
il concilio. In quell’epoca, io ero studente di linguistica alla Sorbona ed era
la prima occasione in cui potei vederlo veramente così come i primi gesuiti
volevano che fosse il “superiore generale”. Vale a dire “uno di noi”:
accogliente e uomo di dialogo, senza formalità di protocollo, senza ricerca di
un culto della personalità. Il provinciale di Parigi, desiderando fare bella
figura, aveva imposto ai suoi compagni l’abito talare, o per lo meno l’abito
clericale con la camicia e il colletto romano. Questa era la disciplina di quel
tempo. Soltanto due giovani gesuiti, che venivano dal nord Europa, ruppero
l’uniformità del gruppo, indossando un abito civile e la cravatta. Il
provinciale cercò invano di allontanarli e di nasconderli dietro gli altri
gesuiti che erano vestiti “come Dio comanda”. A maggiore imbarazzo del
provinciale, per caso, furono tra i primi a salutare il loro superiore generale
il quale si intrattenne piacevolmente con loro a parlare della Compagnia di
Gesù nel nord Europa, che egli conosceva molto bene per gli anni del suo
esilio. L’incidente, come si può immaginare, non passò inosservato e suscitò
commenti ben diversi.
Avvenne qualcosa di
simile il giorno dopo. Dati i miei doveri all’università, io non potei
partecipare all’incontro dei gesuiti di Parigi con il padre Arrupe, ma alla
sera in comunità si poterono udire chiaramente le diverse reazioni. Mentre
alcuni si mostravano entusiasti, altri pronunciarono parole indignate poiché
padre Arrupe aveva infranto santi costumi, aveva scosso posizioni acquisite da
molti anni, mettendo ciascuno dei suoi uditori, personalmente, davanti alla
novità dello Spirito che in maniera nuova aveva fatto irruzione nella nostra
storia. Di conseguenza, per essere un autentico compagno di Gesù, non è
sufficiente una condotta impeccabile, una fedeltà minuziosa e formale al
regolamento e all’orario (nemmeno al più tradizionale e sacro), né basta
un’osservanza perfetta a qualsiasi punto di vista. Prima di tutto è necessaria
un’adesione senza riserve a questa novità cristiana a cui lo Spirito invita la
Chiesa attraverso una disponibilità apostolica a tutta prova, illuminata da un
discernimento orante nell’ascolto dei “segni dei tempi”.
Questo è ciò che voleva
dire padre Arrupe ai gesuiti di Parigi, come lo farà in seguito per tutto il
mondo, provocando di conseguenza un autentico sconvolgimento nella spiritualità
e nella missione della Compagnia, senza risparmiare nessun dettaglio della vita
di tutti i giorni.
FEDE INCROLLABILE
NELlA GRAZIA DEL CONCILIO
Quando dieci anni più
tardi p. Arrupe traccia il bilancio di questa situazione, comincia anzitutto
col ribadire la sua fede nella grazia del concilio. Conservava un ottimismo
realistico, attribuito da qualcuno a una ingenuità personale che gli impediva
di vedere la realtà disastrosa della Chiesa postconciliare. I numerosi contatti
e la copiosa corrispondenza che teneva gli parlavano di continuo di dimissioni
e di uscite, di situazioni conflittuali all’interno della Chiesa e della
Compagnia, di pericolosi malintesi circa il rinnovamento in atto e di
divergenze circa l’essenziale della nostra fede, mettendo in questione quasi
tutto ciò che era stato così caro alla Chiesa prima del concilio. Padre Arrupe,
da parte sua, non negava questa realtà ma si rifiutava di riconoscere in essa
tutta la verità.
In effetti, applicando la
ben nota legge di Zipf secondo cui una buona notizia non è una notizia e che
solo una cattiva notizia merita questo nome, tutto il materiale negativo che si
riferiva al postconcilio riscuoteva un’ampia risonanza nei periodici, riviste e
servizi televisivi, alimentando in questo modo un pessimismo che raggiungeva
persino le più alte sfere del Vaticano. Nonostante questo quadro così oscuro,
padre Arrupe non proferiva mai una parola che non fosse di fiducia e di
speranza, di incoraggiamento e di fede nell’impulso dello Spirito di Dio che
rinnova la faccia di questo mondo attraverso la sua Chiesa e coloro che sono
stati inviati ad annunciare la buona novella. Questa speranza che non cade in
alcun modo nella notte oscura della nostra storia, era come sintetizzata in un
proverbio che padre Arrupe ripeteva di frequente, e che il papa Benedetto XVI
ha citato l’estate scorsa parlando a un gruppo di sacerdoti circa il tempo
postconciliare: «Se cade un albero, fa molto rumore, ma se mille fiori si
schiudono, ciò avviene nel più grande silenzio».
NOVITÀ CHE ESIGONO
UNA CONVERSIONE
Tutta questa pubblicità
unilaterale e tendenziosa circa la novità del concilio era un male minore
rispetto a una difficoltà più di fondo. Padre Arrupe ci ricordava di frequente
che riguardo alle grazie e ai risultati del concilio Vaticano II ci comportiamo
volentieri come dei forestieri, dei nuovi ricchi che ostentano la ricchezza
ricevuta per farsi vedere e ammirare, dimenticando che tutti questi nuovi
tesori ricevuti implicano nuove responsabilità verso gli altri. Corriamo il
grave pericolo di nutrire dei sospetti circa le conquiste del concilio quali l’
“aggiornamento” e la nuova presenza della Chiesa nel mondo, la libertà
religiosa di coscienza e la responsabilità dei fedeli nella Chiesa, il dialogo
interreligioso e l’opzione preferenziale per i poveri, l’impegno per lo
sviluppo umano e la riscoperta della Scrittura e della liturgia. Questi sono
valori innegabili del concilio, ma, perché siano frutti dello Spirito,
suppongono una vera conversione del cuore. In caso contrario, queste conquiste
non produrranno altro che accomodamenti superficiali o si trasformeranno in
concessioni all’opportunismo, cedendo alle pressioni della moda e alle correnti
cosiddette moderne.
Un’irruzione dello
Spirito nella vita della Chiesa può essere facilmente deformata o impedita
dall’uomo. Come diceva padre Arrupe «siamo straordinariamente inventivi quando
si tratta di trovare dei modi per tagliare la strada all’azione dello Spirito
e, di conseguenza, il vangelo diventa lettera morta. Sono profondamente
convinto di una cosa: senza una profonda conversione personale, non saremo in
grado di rispondere alle sfide che l’oggi ci lancia. Al contrario, se riusciamo
ad abbattere le barriere che si innalzano in noi stessi, sperimenteremo di
nuovo l’irruzione di Dio e impareremo cosa significa essere cristiani oggi».
L’atteggiamento di padre
Arrupe nei riguardi della novità del concilio presenta altri tratti. Mentre nel
periodo post-conciliare tutti dovevano essere fatalmente classificati come
conservatori o progressisti, sono molti coloro che hanno affermato che padre
Arrupe non si lasciava classificare, poiché si trovava in un’altra situazione.
E questa situazione non è, in alcun modo, una specie di compromesso tra la
posizione degli integristi fanatici della purezza del sistema, da mantenere a
qualsiasi prezzo, e l’atteggiamento di coloro che si schieravano per
un’apertura incondizionata, col rischio di innovare con un radicalismo tale da
non lasciare che vuoti e rovine. Per padre Arrupe, la novità non era né di
destra né di sinistra; non si trovava nel mantenimento del passato né
nell’ossessione del presente, ma nell’avvenire secondo la fede professata da
sant’Ireneo di Lione: “Sapete che (Cristo) portò con sé tutta la novità che era
stata annunciata. Questo è esattamente ciò che tempo fa era stato annunciato:
che la novità doveva venire per rinnovare e dare vita all’essere umano” (Adv,
Haer. IV, 34,1).
NECESSITÀ
DELLA PREGHIERA
Alla luce di Colui che
deve venire come nostro futuro, Giovanni XXIII, convocando il concilio, vedeva
in esso non solamente una specie di “saggia modernizzazione della Chiesa”, ma
il suo rinnovamento nella novità di Cristo. Così, in seguito, padre Arrupe,
cercando di essere fedele a questo orientamento, stimolava i suoi compagni a
“fare un colloquio”, un incontro da persona a persona con Colui che deve
venire, il Cristo “modello mai passato di moda e fonte di ogni nuova
ispirazione”. Lui, che è la novità, fa nuove tutte le componenti del nostro
essere e della nostra azione apostolica, sia di oggi che di ieri. Fa rivivere
la nostra fedeltà e la nostra audacia, la nostra spiritualità in azione e la
nostra presenza nel mondo.
Da questa preghiera che
guarda a Cristo come nostro futuro, padre Arrupe tirava la conclusione pratica
che ci saranno cambiamenti che non sono né capitolazioni né sconfitte, ma una
necessità e un vero progresso. In questa ricerca di forme nuove si possono
commettere degli errori, in parte dovute al fatto che i cambiamenti a volte
devono effettuarsi secondo punti di riferimento che a loro volta sono in
movimento; e in parte perché sono in gioco valori di segno diverso di cui
bisogna tener conto con equilibrio. Ma sarebbe un errore ancora più grande non
tentare questa ricerca. Tutto questo rinnovamento è molto delicato perché
l’uniformità che in altri tempi era accessibile e si poteva imporre a priori,
oggi risulta impraticabile in un mondo caratterizzato in gran parte
dall’entrata in campo di nuovi paesi, il rapporto con nuove culture e la
scristianizzazione crescente di paesi che erano stati tradizionalmente
evangelizzatori.
In questo cammino di
rinnovamento, padre Arrupe ha potuto aiutare tante persone, tanta gente, dal
momento che egli stesso ha dovuto percorrere questa strada che gli si
presentava come un vero esodo. Si tratta, secondo le sue stesse parole quando
fu eletto superiore generale della Compagnia, di un esodo radicale pieno di incertezze
e di responsabilità; un esodo che implicava l’abbandono di tutto un insieme di
atteggiamenti, di concezioni, di priorità. Da tutto questo, secondo lo spirito
del concilio, era necessario prendere le distanze per adottare altri
atteggiamenti da precisare, chiarire e definire. Si trattava di uscire da un
mondo pieno di sicurezze affermate, ereditate dalla tradizione secolare della
Chiesa e della Compagnia, per entrare in un mondo ancora in fieri, da noi
sconosciuto, ma a cui Dio ci chiamava attraverso la voce del concilio, del
santo Padre, delle congregazioni generali.
L’ESEMPIO
DI SANT’IGNAZIO
Questo cammino comportava
numerosi tunnel e nuove sfide, ma anche innumerevoli speranze e possibilità
poiché era, e lo è sempre per noi, il cammino di Dio “che ha fatto nuove tutte
le cose nel suo Figlio Gesù, che è la novità”. Si tratta della testimonianza
dello stesso padre Arrupe, il 15 gennaio del 1977, in occasione dei 50 anni
della sua entrata nella Compagnia.
Questa omelia,
pronunciata presso la tomba di sant’Ignazio, ci ricorda anche che questo basco
del secolo decimosesto fu un inventore che ha aperto tante nuove strade, ha
dato impulso a un nuovo spirito missionario nel mondo e ha iniziato una nuova
forma di vita consacrata a immagine degli apostoli. Inoltre, negli Esercizi
spirituali sant’Ignazio ha aperto la contemplazione dei misteri della vita di
Cristo alle scelte che il Signore ha fatto in nostro favore perché in questo
modo la nostra vita giunga a conformarsi alla sua. Di conseguenza, difficilmente
uno può dirsi ignaziano se non percorre questa via di novità.
Come vedete, non c’è
nulla di strano che padre Arrupe, fedele allo spirito del Vaticano II,
avanzasse su questa linea già tracciata da sant’Ignazio, consapevole che si
trattava di una linea elevata, nel cui percorso possono avvenire cadute e
incidenti di percorso. Camminare su questa linea alta per costruire il nuovo in
nome del Signore richiede coraggio e prudenza. In questo sforzo per introdurre
la novità del concilio, padre Arrupe faceva suo ciò che Giovanni Paolo II
sollecitava dai professori dell’università Gregoriana di Roma: «Sappiate essere
giorno per giorno creativi, senza accontentarvi facilmente di ciò che è stato
utile in passato. Abbiate il coraggio di esplorare nuove strade, anche se con
prudenza». Questa consegna del papa era quanto mai opportuna, poiché il
post-concilio comportava per la Chiesa, e in particolare per la Compagnia di
Gesù, dei pericoli non illusori. Ossia, una specie di compiacenza di non
vedere, non tornare a dire le meravigliose novità del concilio, di non metterle
in pratica per una specie di paura a impegnarsi in un cammino nuovo senza
sapere in anticipo dove ci porta e conduce. In diverse occasioni padre Arrupe
si lamenta che anche i gesuiti vengano meno nell’intento: i più anziani, perché
tentati di fuggire dalla novità; i più giovani, perché portati da una
precipitazione incosciente.
Tuttavia questa
resistenza passiva, che trova tra i suoi fratelli gesuiti, al desiderio dei
vicari di Cristo in terra di “mettere in pratica le novità del concilio” non
scoraggia in nessun modo padre Arrupe nel suo progetto di indicare le porte che
lo Spirito Santo ha aperto e che nessuno potrà chiudere. Su impulso del
concilio e alla sua luce, restavano molti compiti da attuare, spesso in terreni
dove non erano tracciate le strade, senza fare affidamento su mappe in cui
fossero indicate chiaramente le vie da seguire. Come ripeteva Giovanni Paolo
II, era necessario andare avanti, ma con prudenza.
UN DISCERNIMENTO
ORANTE
I pareri circa
l’interpretazione di questo consiglio papale non concordavano e nemmeno la
portata di questa prudenza ottiene l’unanimità. Sarà forse necessario in questa
linea elevata misurare i passi, rallentare o addirittura fare marcia indietro?
Sulla scorta dell’esperienza di sant’Ignazio, padre Arrupe affida la prudenza
al discernimento orante: davanti a Dio, nel Signore, la verità tutta intera è
scrutata per leggere ciò che egli vuole compiere per mezzo nostro. Si tratta,
di un vero approccio “olistico” che non si limita ad aspetti parziali o
particolari della realtà e che nemmeno si lascia ipnotizzare dalle ideologie o
correnti di moda. Non segue idee fisse e pietrificate, ma seleziona dalla lunga
storia di Dio con noi, dal vecchio e dal nuovo, il necessario per costruire la
città di Dio con gli uomini, una terra nuova e un cielo nuovo.
Questa apertura orante è
ciò che caratterizza la prudenza di padre Arrupe. Nel suo modo di mettere in
pratica la novità del concilio riconosce che lo Spirito mai ci costringe a
tornare indietro, ma, al contrario, ci incoraggia a un’incessante ricerca della
via di Cristo. Così poi, animati dallo Spirito, dobbiamo soppesare ciò che
facciamo per vedere se, con il Signore, è quanto si potrebbe o dovrebbe fare.
Padre Arrupe afferma che è essenziale raccogliere e interpretare i fatti, come
anche analizzare le tendenze, ma non si tratta ancora di un vero discernimento.
L’autentico discernimento sta nello scrutare i segni dei tempi e
nell’interpretarli alla luce del vangelo, per mezzo della preghiera, sulla
realtà umana.
È contento di vedere che
questo compito delicato e arduo richiede una costante trasformazione interiore,
una vera metanoia o conversione a Cristo crocifisso e, d’altra parte, implica
per noi una liberazione da tutto ciò che può turbare il nostro giudizio o
occupare inutilmente il nostro cuore. In questo modo si potrà rimanere
costantemente alla scuola e a disposizione dello Spirito.
Grazie a questo
discernimento orante, praticato nella Chiesa, con la Chiesa e per la Chiesa,
padre Arrupe vive l’ “aggiornamento” del concilio con intensità. Al di là della
lettera dei numerosi documenti conciliari, riconosce il manifestarsi dello
Spirito che fa nuova ogni cosa. Nelle formule ed espressioni della lettera
coglie la nuova fede, espressione della tradizione viva e della passione per
l’unità di tutta l’umanità nel suo Signore. Anche se il cambiamento che si
attua dopo il concilio è stato a volte troppo precipitoso e sconcertante, e
tende a fermarsi, p. Arrupe desidera che l’ “aggiornamento” continui, anche
solo per il semplice fatto che il nostro mondo cambia e si evolve, obbligando
la Chiesa a offrire nuove risposte alle nuove necessità. Se queste risposte
portano oggi nomi ben noti come dialogo e inculturazione, spiritualità e chiesa
dei laici, sviluppo e pace, promozione della giustizia nel mondo attraverso una
precisa e chiara opzione preferenziale per i poveri, possiamo dire che tutte
queste risposte, secondo padre Arrupe, hanno avuto un luogo privilegiato nell’
“aggiornamento”.
Anche qui si è
manifestata la resistenza contro l’attuazione del concilio, nonostante tutta la
prudenza sollecitata dal compianto Giovanni Paolo II. Se desideriamo lavorare
per la giustizia in forma seria e fino alle sue ultime conseguenze, la croce
apparirà immediatamente al nostro orizzonte. Se siamo fedeli al nostro carisma
sacerdotale e religioso, anche quando agiamo con prudenza, vedremo levarsi
contro di noi coloro che nella società industriale di oggi praticano
l’ingiustizia, coloro che per un altro verso sono considerati eccellenti
cristiani e che forse hanno potuto essere nostri benefattori, amici, e persino
membri delle nostre famiglie: ci accuseranno di marxismo e di sovversione. Ci
toglieranno la loro amicizia e insieme ritireranno la loro vecchia fiducia e il
loro sostegno economico. Siamo disposti ad assumere questa responsabilità di
entrare nella via di una croce più pesante, a sopportare le incomprensioni
delle autorità civili ed ecclesiastiche e dei nostri migliori amici? Siamo noi
stessi disposti a offrire una vera testimonianza nella nostra vita, nelle
nostre attività, nel nostro stile di vita?
LA LEGGE FONDAMENTALE
DELL’AMORE
Per padre Arrupe, questa
impostazione era una conseguenza logica della novità che comporta per la Chiesa
la sua legge fondamentale, il comandamento nuovo dell’amore, “amatevi gli uni
gli altri; come io vi ho amato, da questo tutti sapranno che siete miei
discepoli” (Gv 13,34). Era prevedibile, e in certo senso un atteggiamento di
routine, l’indignazione suscitata da questa impostazione? Il comandamento nuovo
dell’amore ci invita sempre a fare il primo passo per la riconciliazione, a
salutare fraternamente coloro che non ci salutano, ad amare non solo coloro che
ci sono vicini, ma anche quanti si allontanano da noi – amici e nemici. Più
ancora, nella nostra carità cristiana non dobbiamo accontentarci di dare nostre
cose, ma noi stessi, la nostra vita ed essere così a immagine del Signore
persone a servizio degli altri.
È evidente che il nostro
egoismo reagisce con forza a questo comandamento nuovo, anche quando non
abbiamo parlato per niente dell’ingiustizia del mondo, dell’oppressione e della
schiavitù, piaghe anche del nostro tempo cosiddetto moderno, che mantiene in
quelle condizioni intollerabili che i mezzi di comunicazione pongono davanti ai
nostri occhi e che il mondo dei poveri deve sopportare senza speranza e
sostegno.
Nel suo sforzo per
imprimere un nuovo impulso e portarlo fino alle ultime conseguenze, padre
Arrupe si riconosceva in stretta continuità con il concilio e i sinodi, con le
dichiarazioni dei pontefici e dei vescovi, anche se per tradizione e prudenza
le loro esigenze pratiche non raggiungevano la linea elevata che padre Arrupe
desidera seguire. Qualunque conversione al sociale potrebbe allontanare il cristiano
dalla spiritualità, anche quando tale allontanamento non è in alcun modo
indispensabile. Ogni opzione e lotta per la liberazione degli oppressi, ogni
difesa dei poveri e ogni testimonianza per la giustizia può condurre
all’ingiustizia della violenza e dell’odio, anche se questo cambiamento di
valori non si impone in modo fatalistico. Mentre Giovanni Paolo II afferma che
non è sufficiente la lotta per la giustizia contro le strutture ingiuste e che
è necessario che questa lotta sia a servizio della carità e da essa
condizionata, padre Arrupe, con una posizione che mi permetto di definire più
sfumata, sottolinea in primo luogo che non tutta la carità è di per sé
autentica. Questa carità può essere falsa e solo apparente, vale a dire, può
essere una ingiustizia camuffata quando al di là della legge si concede a una
persona per benevolenza ciò che le è dovuto per giustizia. In concreto,
l’elemosina non può essere una specie di ultimo sotterfugio per non rispettare
nei riguardi di una persona la giustizia di cui ha diritto.
D’altra parte, padre
Arrupe si mostra meno reticente nei riguardi della giustizia poiché mai si è
parlato tanto di questa e a sua volta mai è stata disprezzata in modo così
flagrante. Egli concorda con Giovanni Paolo II nella convinzione che la carità,
come amore al prossimo, e la promozione della giustizia sono inseparabilmente
unite nel nuovo comandamento dell’amore. La lettura che il concilio fa del
vangelo conferma che non si ama se non si fa giustizia e che la giustizia si
degrada e diventa ingiustizia se a sua volta non si attua con amore.
Per dirlo ancor più
chiaramente, la sua fiducia nella giustizia vissuta alla luce del Vangelo ha
questa espressione e caratteristica nuova: la giustizia vissuta come sequela
del vangelo è in se stessa il sacramento dell’amore e della misericordia di
Dio. In questo modo, padre Arrupe desidera riaffermare, in linea con la più
pura tradizione ignaziana, che l’amore non sta nelle parole ma deve essere
tradotto in azioni concrete di giustizia.
Si tratta della novità
del concilio che porta fino alle ultime conseguenze il comandamento nuovo
dell’amore, anche col rischio di presentarlo come un’utopia e di suscitare la
sfiducia e il sospetto scoprendo, in questa prospettiva, la dimensione sociale
del vangelo. Quando in seguito si profilò il problema del dialogo con il mondo,
non solo a livello di religioni e di credenti, ma anche nel contesto delle
grandi ideologie, padre Arrupe, anziché chiudere a priori e di colpo la porta
del dialogo, stimola la Compagnia a studiare gli elementi positivi di queste
ideologie. Nel caso concreto del marxismo, sostiene con fermezza che la
Compagnia di Gesù non potrà mai accettare un’ideologia che abbia come
fondamento essenziale l’ateismo. Ma, a sua volta, afferma con chiarezza che si
deve studiare con serietà e coscienza ciò che essa ha di vero. E questa
posizione fondamentale la ritiene una necessità nel dialogo con il marxismo,
con altre ideologie e religioni.
I SEMINA VERBI
PRESENTI OVUNQUE
Non dobbiamo forse
riconoscere come una novità del concilio che crede nella presenza dei semina
Verbi, gli elementi validi presenti nell’induismo, nell’Islam, nel buddismo, in
altre religioni? Non dobbiamo riconoscere questi semina Verbi come un punto di
partenza per un dialogo costruttivo con l’altro? Una volta di più, padre Arrupe
si è mosso su questa linea avanzata, proclamando la novità dello spirito del
concilio fino alle esigenze di apertura e di dialogo. Il suo linguaggio, nel
contenuto e nell’espressione, è del tutto fedele alla richiesta del Signore il
quale ci dice che “il nostro sì sia sì, e il nostro no sia no”, senza ambiguità
di linguaggio, senza abile diplomazia. In questo modo di parlare franco e
chiaro, il punto di partenza è indicato sempre dalla situazione attuale: egli
non si perde in paragoni col passato quando è tempo di accogliere la novità
sempre presente nelle prospettive del domani. Di fatto, tali prospettive le ha
spiegate Colui che deve venire per fare nuove tutte le cose. È esattamente
nella ricerca di forme nuove dove si manifesta il cambiamento che viene dallo
Spirito nel contesto attuale. Tenuto presente che Colui che fa nuova la nostra
storia è l’alfa e l’omega, colui che era, che è e sarà. Padre Arrupe non può
immaginarsi un cambiamento che sia di rottura radicale con il passato, o di
discontinuità, tale da supporre l’abbandono di una sana tradizione, poiché se
così fosse si tratterebbe di un vuoto che nulla potrebbe colmare.
In questo senso, dobbiamo
riconoscere che l’introduzione della dimensione sociale nel corpo della Chiesa
debba essere fatta in continuità con il contenuto del comandamento nuovo del
Vangelo. Per quanto si riferisce alla Compagnia di Gesù, l’apostolato sociale,
senza dubbio, era già in germe nell’azione sociale di sant’Ignazio. Continuità,
certamente, ma anche cambiamento e novità. È opportuno ricordare, a questo
punto, che Benedetto XVI ha riconosciuto sant’Ignazio come un santo sociale,
permettetemi che citi solamente lui fra le tante testimonianze della storia che
così lo presentano. Di conseguenza, vedere in tutto questo processo unicamente
una specie di capitolazione di fronte alle ideologie marxiste o socialiste
sarebbe semplicemente una falsa interpretazione.
Tutto ciò che padre
Arrupe ha compiuto è stato una risposta all’invito di Giovanni Paolo II il
quale diceva che la Chiesa si attendeva oggi dalla Compagnia che contribuisse
efficacemente all’attuazione del concilio Vaticano II, che in questo modo
avrebbe fatto avanzare tutta la Chiesa sulla via tracciata dal concilio, e
convincesse coloro che disgraziatamente si sentivano tentati sulle vie del
progressismo o dell’integrismo (27.02.1982). In antecedenza, data la sua
fiducia nella forza spirituale della Compagnia, che ha il suo fondamento
nell’esperienza di Dio attraverso sant’Ignazio, Paolo VI (1974) aveva indicato
la Compagnia di Gesù come il luogo in cui la novità del concilio avrebbe dovuto
prendere forma. La vostra Compagnia, per così dire, non è forse un test della
vitalità della Chiesa attraverso i secoli, non costituisce forse una specie di
incrocio in cui confluiscono in maniera molto significativa le difficoltà, le
tentazioni, gli sforzi e le realizzazioni, la perpetuità e la riuscita della
Chiesa intera?
Su questa linea avanzata
troviamo padre Arrupe che cammina stando avanti. Egli cerca di accogliere la
novità del Concilio, nel cui seno si sviluppa l’ermeneutica della riforma, del
rinnovamento all’interno della continuità con una Chiesa viva, poiché è il
Signore colui che dà la vita. Applicando questa terminologia introdotta da
Benedetto XVI, questa ermeneutica della riforma si distingue chiaramente da una
ermeneutica di rottura e di discontinuità, in cui il cambiamento è cercato solo
per il cambiamento, come se la Chiesa dovesse ri-fondarsi e non ri-formarsi
(22.12.2005).
NON METTERE
OSTACOLI ALLO SPIRITO
Questi riferimenti
pontifici appena menzionati, applicati all’azione rinnovatrice di padre Arrupe,
potrebbero far sembrare a colui che legge questo capitolo della storia
postconciliare come un conflitto della Compagnia con il papato. La
documentazione di lettere e discorsi dei papi che ho ricordato non contraddice
in alcun modo i nuovi orientamenti difesi con rigore e fervore da padre Arrupe.
Allo stesso tempo, bisogna riconoscerlo, questa documentazione contiene segni di
precauzione, di preoccupazione e di riserve riguardo a questo cammino in avanti
su una linea avanzata. All’interno della Compagnia le preoccupazioni dei
pontefici furono utilizzate da diverse parti per fomentare una resistenza
contro il rinnovamento lanciato da padre Arrupe. A loro volta, alcune
espressioni di padre Arrupe furono interpretate alla leggera come una
giustificazione di iniziative e condotte estranee alla missione della
Compagnia, attribuendo un peso quasi dominante alla promozione umana e unicamente
al progresso sociale.
Sia le decisioni del
concilio, sia l’attuazione che padre Arrupe desiderava promuovere, esigevano
l’irruzione dello Spirito di Dio nel concreto della nostra storia e non una
semplice riorganizzazione. Come ho ricordato all’inizio, lo stesso padre Arrupe
costatava che gli uomini hanno una straordinaria capacità di inventiva nel
porre ostacoli all’azione dello Spirito. Per questo il vangelo diventa lettera
morta e non siamo più capaci di comprendere il radicalismo del messaggio evangelico.
Lo minimizziamo per il nostro sfrenato egoismo e non portiamo a capo le riforme
personali e sociali necessarie, poiché abbiamo paura delle conseguenze che ne
deriverebbero per le nostre persone.
Il padre Arrupe era
profondamente convinto di una cosa: senza una conversione personale profonda
non saremo in grado di rispondere alle sfide che oggi ci vengono lanciate. E
così, cercando di vivere perfino con sofferenza questo valore conciliare che è
il rispetto per l’altro nella sua libertà di scelta, rifugge dal ricorrere ad
argomenti di autorità e di potere per imporre ciò che egli sapeva venire dallo
Spirito. Il suo atteggiamento sarà quello di proporre con tutta la sua fede,
non quello di imporre, anche a rischio di essere accusato di debolezza o di
seconde intenzioni. Come evitare le ambiguità di una parola di Dio espressa con
parole umane? È il prezzo da pagare per andare avanti e aprire strade su una
linea avanzata.
UN INNOVATORE
FINO ALLA FINE
Le due ultime omelie di
padre Arrupe riflettono questa immagine che sto delineando: non quella di un
audace, ma quella di un innovatore totale. A Manila pronuncia una omelia che
contiene questa prima testimonianza: «Mi riferisco alla ri-formulazione del
fine della Compagnia, a partire dalla difesa e propagazione della fede a
servizio della fede e della promozione della giustizia. La nuova formula non è,
in alcun modo, riduttiva, de-viazionista o dis-unitiva: al contrario esplicita
elementi contenuti in germe nella vecchia formulazione, grazie a un riferimento
più esplicito alle necessità attuali della Chiesa e dell’umanità al cui
servizio siamo impegnati per vocazione». Tutta la figura e tutto il messaggio
di padre Arrupe sono espressi in questa densa sintesi.
L’altra omelia è degli
inizi di settembre del 1983, pronunciata a La Storta, luogo ignaziano per
eccellenza, dove Ignazio sperimenta il compiersi della sua preghiera di essere
posto con Cristo come suo compagno, servo della missione del Signore. Padre
Arrupe non era in condizioni di poter pronunciare questa omelia che aveva
redatto personalmente: «Chiedo al Signore che questa celebrazione, che per me è
un addio e una conclusione, sia per voi e per tutta la Compagnia qui
rappresentata, l’inizio, con rinnovato entusiasmo, di una nuova tappa di
servizio».
Nei nove anni che
seguirono a queste parole, in uno stato di apparente inutilità, non più capace
di comunicare e in grado unicamente di soffrire una lenta agonia, padre Arrupe
si sente più che mai nelle mani del Signore. Sono sue parole. Considera la sua figura
sofferente come il compiersi di ciò che ha desiderato per tutta la vita: la
profonda esperienza che oggi è il Signore stesso ad avere in mano tutta
l’iniziativa.
Questo sarà anche un
luminoso messaggio per tutti i compagni che si trovano nel pieno della vita
attiva: che non si esauriscano nel lavoro, che il centro di gravità della loro
vita non sta nelle cose da fare, ma in Dio (cf. 03.09.1983). Il messaggio che
vi rivolgo oggi è un messaggio di piena disponibilità al Signore. Cerchiamo
senza stancarci ciò che abbiamo da fare per il suo maggior servizio e
mettiamolo in pratica nel modo migliore possibile, con amore, spogliati di
tutto. Abbiamo un senso molto personale di Dio.
Hans-Peter Kolvenbach
DATI BIOGRAFICI DI P.
ARRUPE
Pedro Arrupe nasce il 14
novembre del 1907 a Bilbao, città dei paesi baschi, da cui proveniva anche
sant’Ignazio di Loyola. Il giorno dopo la nascita riceve il battesimo nella
basilica di Santiago, attualmente cattedrale.
Il primo di ottobre 1914
entra nel collegio degli Scolopi di Bilbao, dove frequenta il corso di
bacellierato fino al 1922. Nel 1923 lo troviamo a Madrid per iniziare il primo
corso di medicina nella facoltà di San Carlos.
Nel 1926 muore suo padre.
Poco dopo decide di compiere un viaggio a Lourdes con le sue sorelle. Qui
assiste ad alcune guarigioni miracolose che può verificare in qualità di
studente di medicina. Dirà: «Ho sentito Dio così vicino nei suoi miracoli, da
trascinarmi violentemente dietro di sé».
Il 25 gennaio 1927 entra
nella Compagnia di Gesù, nel noviziato di Loyola. Dopo aver iniziato gli studi
di filosofia nel monastero di Oña (Burgos), giunge il decreto di scioglimento
della Compagnia in Spagna (1932): Arrupe parte per l’esilio con i suoi compagni
e professori e continua gli studi a Merneffe (Belgio). Per frequentare la
teologia lo mandano a Valkenburg (Olanda). Intanto nella vicina Germania
sorgeva la fatidica ombra di Hitler e del nazismo. «Per me, dirà in seguito,
l’incontro con la mentalità nazista fu un tremendo shock culturale».
Il 30 luglio 1936 riceve
l’ordinazione sacerdotale a Merneffe. In settembre si trasferisce negli Stati
Uniti per compiere studi di morale medica.
Il 6 giugno 1938 riceve
una lettera del padre generale che lo destinava alla missione in Giappone,
missione che egli stesso aveva chiesto molte volte ai suoi superiori. Il 30
settembre s’imbarca da Seattle verso Yokohama.
Dopo vari mesi di
apprendimento della lingua e dei costumi giapponesi, nel giugno del 1940 è
destinato alla parrocchia di Yamaguchi, ricca di ricordi di san Francesco
Saverio.
L’8 dicembre 1941 il
Giappone entra in guerra. Il giorno dopo, padre Arrupe, viene messo in
prigione, accusato di essere una spia. Lo rinchiudono in un bugigattolo di due
metri per due. Dopo un mese è rimesso in libertà, per l’ammirazione che aveva
suscitato con il suo buon comportamento e le sue conversazioni con i carcerieri
e i giudici.
Pochi mesi più tardi
viene nominato maestro dei novizi. Parte per il noviziato di Nagatsuka, una
collina nella periferia di Hiroshima. Qui, il 6 agosto 1945, alle 8 di mattina,
è testimone dell’esplosione della bomba atomica su Hiroshima. Immediatamente
trasforma il noviziato in un ospedale di emergenza. Più di 150 persone, colpite
dalle radiazioni, sono attese da una comunità che ha a disposizione solo pochi
mezzi per sé. In seguito Arrupe scriverà un libro su questa esperienza
intitolato: Io ho vissuto la bomba atomica.
Il 24 marzo 1954 è
nominato superiore di tutti i gesuiti del Giappone, con l’incarico di vice
provinciale e gira un po’ il mondo per tenere conferenze allo scopo di
raccogliere fondi per la Chiesa del Giappone.
Il 22 maggio 1965 è
eletto generale della Compagnia di Gesù. In questa veste, seppe tracciare
itinerari, indelebili per la Compagnia di Gesù, ma che non mancarono di
influire anche su altri settori della società.
Il 2 dicembre 1974
convoca la Congregazione generale 32ª, evento che rimarrà una pietra miliare
nella storia dei gesuiti, soprattutto perché viene affermato che la fede in Dio
deve inevitabilmente andare unita alla lotta instancabile contro le ingiustizie
che gravano sull’umanità.
Il 7 agosto 1981, di
ritorno dall’oriente, dove si era recato a visitare i gesuiti di quella parte
del mondo, nel taxi che lo portava dall’aeroporto in città, a Roma, viene
colpito da una trombosi cerebrale che lo lascia paralizzato nel lato destro. Il
giorno seguente gli viene amministrato il sacramento degli infermi.
Il 26 agosto nomina un
delegato personale per accudire al governo della Compagnia nella persona del
gesuita p. Dezza. Il 3 settembre 1983, riunita la Congregazione generale, p.
Arrupe presenta la sua rinuncia all’incarico davanti a tutti i padri presenti.
Pochi giorni dopo, p. Peter-Hans Kolvenbach è eletto generale. Il suo primo
gesto è di abbracciare p. Arrupe dicendogli: «Ora non la chiamerò più padre
generale, ma continuerò a chiamarla padre».
Dopo quasi dieci anni di
dolorosa inattività e di offerta di sé per la Compagnia, la Chiesa e l’umanità,
il 5 febbraio 1991 consegna la sua anima a Dio nella casa generalizia dei
gesuiti a Roma. Alcuni giorni prima, già in agonia, era stato visitato da
Giovanni Paolo II.