ATEISMO DI RITORNO (3)

RAGIONI PER CREDERE

 

Rimaniamo dell’opinione che un ateismo vero e proprio non esiste, che l’ateo non è che un panteista, il quale attribuisce alla materia tutti quanti gli attributi di Dio. Una convinzione, questa, fatta propria da non pochi scienziati e filosofi.

 

Quanto è stato detto in precedenza1 va completato con una trattazione diretta dell’esistenza di Dio, anche se rimane vero che il problema dell’esistenza è preceduto dal problema della natura. Molte volte si nega un Dio che non ha riscontro nella realtà. Noi, nelle nostre riflessioni, dobbiamo tendere a presentare, come ci è possibile, il Dio di Gesù Cristo: una fede che ci distanzia dalle altre credenze, in qualche modo anche dalle credenze del Primo Testamento.

Per non ripeterci, prendiamo in esame a questo proposito le due ultime opere che abbiamo citato all’inizio. Il libro di Richard Dawkins, che porta come sottotitolo la dizione Le ragioni per non credere, discute abbastanza seriamente gli argomenti a favore dell’esistenza di Dio. Si passano in rassegna le cinque vie di san Tommaso, l’argomento ontologico (che tanto inchiostro ha fatto versare nel corso dei secoli), altri argomenti fra cui anche quello dell’esperienza personale e, per finire, la famosa scommessa di Pascal (in fin dei conti, afferma il pensatore francese, se Dio non esiste non ci rimetti niente). Evidentemente nessuno di questi argomenti è accettato come valido, secondo le premesse e le promesse, dall’autore. Con una certa sorpresa però il capitolo susseguente, quello formalmente dedicato alla non esistenza di Dio, è intitolato Perché è quasi certo che Dio non esiste. Un capitolo condotto soprattutto secondo gli schemi dell’evoluzionismo di tipo darwiniano, con il richiamo della selezione naturale e delle stesse leggi del caso.

 

ANDANDO

A TENTONI

 

Significativo l’esempio discusso all’inizio: quello del Super-Boeing 747. Un argomento forte dei teisti, che non riescono a spiegare come un simile mostro, tanto complesso e tanto sofisticato in certe sue parti, sia venuto fuori a caso. Ragionamenti, quelli dell’autore, che non riescono a convincere il lettore minimamente informato: «Una profonda comprensione del darwinismo ci insegna a non presumere con troppa faciloneria che il progetto sia l’unica alternativa al caso, e a cercare rampe graduali di complessità crescente. Prima di Darwin, filosofi come Hume capirono che l’improbabilità della vita non implicava necessariamente un progetto preliminare, ma non riuscivano a immaginare l’alternativa. Dopo Darwin, tutti dovremmo sentire un’istintiva diffidenza per l’idea stessa di progetto. È una trappola in cui siamo già cascati in passato e Darwin dovrebbe averci immunizzato, risvegliando la coscienza. Peccato che non sia riuscito a risvegliarla a tutti».

Gli intrappolati continuano imperterriti a pensare che solo un evoluzionismo teistico e finalistico è possibile e che l’evoluzionismo ateo, senza direzione e senza scopo, pecca insieme contro i principi della ragione e contro gli stessi dati dell’esperienza. Un occhio vivente, un semplice occhio, è moto, infinitamente più complesso di un Boeing più o meno grande. In più si dà il caso che l’occhio vede, una capacità che oltrepassa la pur complessa composizione di questa piccola parte dell’organismo umano.

Andando più avanti, la questione si complica sempre di più. Senza colpo ferire, il caso è capace di produrre l’armonia dell’universo e delle sue parti, dove fin da principio sono iscritte e reperibili leggi ferree, chiare impronte di una ragione creante e preveniente? Ma poi questa materia iniziale, amorfa e senza qualità, in cosa esattamente consiste se è capace di produrre spontaneamente, in progressione, la vita vegetativa, quella sensitiva e, soprattutto, quella razionale? Il meno può produrre da solo il più? È inutile che lo scienziato ci ripeta che la soluzione di Dio è troppo semplice per quietare la sua insaziabile fame di ricerca. Dio non è l’oggetto della ricerca scientifica e lo scienziato fa bene a prescindere dalla sua esistenza per ricercare fino in fondo la soluzione naturale dei suoi problemi. Ma lo scienziato è anche uomo, è anche “filosofo”, è anche essere razionale, e per questo può essere chiamato a divenire anche credente. La ragione non esaurisce la sua funzione nella scienza, ma la oltrepassa essendo capace di contemplare l’essere in tutta la sua estensione. Tutto sommato, si capisce perché il nostro autore intitoli il capitolo in questione con una affermazione insieme umile e incerta: Perché è quasi certo che Dio non esiste.

 

OLTRE IL TEISMO:

IL MATERIALISMO PANTEISTA

 

Alla resa dei conti, l’alternativa al teismo è il materialismo panteistico, tipo quello espresso da Baruch Spinoza con la nota espressione Deus sive natura, una identificazione che sposta semplicemente gli elementi del problema. Rimaniamo dell’opinione che un ateismo vero e proprio non esiste, che l’ateo non è che un panteista, il quale attribuisce alla materia tutti quanti gli attributi di Dio. Una convinzione, questa, fatta propria da non pochi scienziati e filosofi. Anche Albert Einstein, che pure affermava che Dio non gioca a dadi, apparteneva a questa categoria.

Nel libro prima ricordato, André Compte-Sponville afferma: quello che Spinoza chiama Dio, non è il buon Dio, «non è che la Natura… che non è un soggetto e non persegue alcuno scopo. A che pro rivolgerle preghiere, visto che lei non ci ascolta? Come obbedirle, se lei non ci chiede nulla? Perché affidarci a lei, che non si interessa per nulla di noi? E cosa resta allora della fede?». Gli idoli al posto di Dio, gli idoli che per il salmista hanno occhi ma non vedono, orecchi ma non ascoltano, mani ma non palpano. Il rischio già previsto dal Salmo è che coloro che li hanno fabbricati diventino simili a loro.

Se anche il credente è, almeno in certe circostanze, attraversato da dubbi e incertezze, il non credente non sta affatto meglio. Le sue convinzioni devono essere continuamente sottoposte allo sforzo di una tenace volontà perché non vengano meno. È quanto affermava lo scrittore cattolico François Mauriac dopo aver ascoltato o letto i ragionamenti del grande fautore del caso che risponde al nome di Jacques Monod (il quale riporta la frase nel suo libro fondamentale Il caso e la necessità): “Quanto dice questo professore è ancora più incredibile di quel che crediamo noi poveri cristiani” (p. 185).

Più volte, parlando a questi autori, ho detto loro di andarci piano coi loro argomenti, di procedere con molta cautela e molta circospezione, di usare comprensione e delicatezza nel proporre le loro conclusioni. Nel caso che essi riescano a convincere qualche credente e a portarlo alle loro posizioni, non hanno il diritto di cantare vittoria. In realtà, più che vincere, essi hanno aumentato il numero dei disperati, come ha detto chiaramente il citato J. Monod, il quale afferma senza mezzi termini che chi ascolta e fa proprio il suo messaggio, “come uno zingaro, si trova ai margini dell’universo in cui deve vivere. Universo sordo alla sua musica, indifferente alle sue speranze, alle sue sofferenze, ai suoi crimini” (p. 185). Veramente una ben magra consolazione. Parole forse più sincere, senz’altro più forti, di quelle prima ricordate di Camus. È impossibile immaginarci Sisifo felice.

 

PERCHÉ L’ESSERE

E NON IL NULLA?

 

Una domanda che più volte è risuonata nel corso della storia del pensiero. L’occasione di riprenderla in considerazione ce l’ha data un altro laico non credente, ma onesto e sincero, Norberto Bobbio, il grande politologo torinese, morto da pochi anni. Così egli scriveva nella rivista Micromega 2/ 2000, un numero sostanzialmente dedicato ai problemi religiosi: «Cos’è il cosmo? Cosa sappiamo del cosmo? Come e perché il passaggio dal nulla all’essere? È una domanda tradizionale, ma io non ho la risposta: perché l’essere e non piuttosto il nulla? Io non mi sono mai nascosto di non avere una risposta, e non so chi sappia darla a questa domanda ultima, se non la fede. Secondo Severino l’essere è infinito, l’essere c’è. Ma non è che così siamo in grado di capire cosa c’era prima. È impossibile. E di fronte alle domande cui è impossibile dare una risposta – perché di questo sono certo: non posso dare una risposta, benché appartenga ad una umanità che ha realizzato progressi enormi – mi sento un piccolo granello di sabbia in questo universo. E negare che la domanda abbia senso, come potrebbe fare una certa filosofia analitica, mi pare un gioco di parole» (p. 8).

Una rassegnazione nobile, ma forse non giustificata. Possiamo aiutare il vecchio professore anche riandando con la mente almeno alla prima formulazione della domanda. Essa appartiene a Leibniz, uno dei grandi filosofi dell’illuminismo europeo, il tenace assertore del principio di ragion sufficiente. La risposta alla domanda da lui considerata fondamentale e così formulata: «Perché è in generale l’ente e non piuttosto il niente», è già implicita nell’affermazione del suddetto principio: la ragione ultima della realtà è l’Essere assoluto, cioè Dio. Se esiste qualcosa, e di fatto esiste, la spiegazione non può che rimandare a Colui che ha potuto trarre le cose dal nulla. L’essere postula l’Essere.

Anche Schelling e Heidegger, da un punto di vista diverso, si porranno la stessa domanda, naturalmente variando anche la risposta. Ma c’è un autore contemporaneo che in un’opera originalissima, ma sostanzialmente seria (anche se non dovesse rispecchiare, come sembra, almeno del tutto il suo pensiero), che riprende l’antica questione con linguaggio fresco e attuale. È l’accademico francese Jean d’Ormesson, recentissimo autore del libro La creazione del mondo (Spirali, 2007), presentato nell’estate scorsa dal Corriere della sera col titolo più accattivante E Dio creò il big bang. A p. 81 c’è registrato questo dialogo (il libro è di per sé un racconto, un romanzo vero e proprio): «Mentre formulavo questa risposta che traduceva abbastanza bene ciò che provavo e in cui mi ritrovavo interamente, mi tornava piano piano in mente una domanda che avevo letto da qualche parte e che mi era molto piaciuta. Parlai a voce altissima: – Signore, perché c’è qualcosa piuttosto che niente? – Ah! Ecco l’ombra di Heidegger e l’ombra di Leibniz: Cur aliquid potius nihil? Benvenuta nel club! – mormorò André. Finsi di non avere sentito e continuai la lettura che andava verso la fine. Ci fu un gran silenzio. Poi la voce risuonò: - Perché l’est e l’ovest e il nord e il sud, perché l’immenso e il minuscolo, il delizioso e l’atroce, l’inizio e la fine e tutto il divenire tra loro celebrino la gloria di Dio».

Perché, perché? La domanda che assillava Bobbio è la domanda fondamentale della vita. Anche Comte-Sponville avverte la stessa urgenza: «Che un essere ci sia, è fuori discussio­ne. E che questo essere sia necessario, sono portato a pensarlo anch’io. È il lato spinoziano. Il mondo avrebbe potuto non essere? Certamente, ma solo nella nostra immaginazione” (p. 75). Dinanzi alla concreta realtà, dinanzi alla forza dell’evidenza, la domanda è destinata a rinascere, a inquietare, a turbare i sonni della notte e i pensieri del giorno. Oppure si preferisce la soluzione di Giosuè Carducci: «Meglio oprando obliar senza indagarlo/ questo enorme mister dell’universo»? La rinuncia al perché fondamentale della vita è la rinuncia alla ragione.

 

SE DIO C’È

DA DOVE VIENE IL MALE?

 

Si Deus est, unde malum? Il problema del male sembra diventato oggi la causa fondamentale dell’ateismo, la sua “roccia”, è stato detto. Non ci torneremmo sopra se non ci fosse un richiamo suggestivo nell’ultimo libro da noi considerato. Se Dio esiste, perché c’è il male? Il male in tutta la sua profondità e in tutta la sua estensione: il male fisico e il male morale, il male personale e il male sociale, il male oggetto di constatazione e il cosiddetto male metafisico, che è l’imperfezione congenita di tutti gli esseri creati, compreso l’uomo.

Il terribile dilemma formulato da Epicuro (o Dio può eliminare il male e non vuole, e allora non è buono; o Dio vuole ma non può, e allora non è onnipotente) ha interrotto i sonni di molte persone, non esclusi i cristiani. La nuova concezione di Dio inclina verso questa seconda soluzione, contro una malintesa onnipotenza divina. Intanto si ricorda che la parola “onnipotente” non è presente nella Bibbia; lo stesso aggettivo attribuito nel Credo al Padre non riporta esattamente il senso della parola originale: pantocrator, il cui significato originale è quello di signore.

C’è intanto una limitazione dell’onnipotenza divina che nasce dalla libertà dell’uomo, origine dei mali morali che hanno punteggiato la storia lungo tutti i millenni fino ai nostri giorni. La libertà dell’uomo è un concetto forte da rispettare e salvaguardare sempre. Contro di essa non può niente nemmeno Dio. L’esistenza dell’inferno è esattamente la riprova della intangibile libertà dell’uomo. Nemmeno Dio può costringere l’uomo a volergli bene, ad accettare la sua offerta di salvezza. Anche Auschwitz, simbolo estremo della degradazione morale a cui può arrivare l’uomo, non mette in causa la bontà di Dio, ma semplicemente la libertà dell’uomo. Creando l’uomo, Dio si è come ritirato, lasciando uno spazio che ora appartiene soltanto alla sua immagine. Così aveva già affermato la Cabala ebraica con la suggestiva teoria dello tsimtsum.

Altrettanto, anche se con maggiore difficoltà, si tende a pensare per il male fisico. Se l’universo è in evoluzione e non è ancora arrivato alla sua perfezione finale, rimane abbastanza comprensibile che esso incontri nel suo percorso stasi, lacune, imperfezioni, vuoti, fallimenti, sconfitte. Un pensiero che fa proprio anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, che al n. 311 afferma: «Insieme con il bene fisico esiste anche il male fisico, finché la creazione non avrà raggiunto la sua perfezione». All’avvento di questa perfezione è chiamato a collaborare l’uomo, capace con la sua intelligenza di dominare e possedere la terra, secondo il comando divino all’inizio della creazione, di compiere quei miracoli che troppo spesso chiede al suo Creatore.

Comte-Sponville ha qualcosa da obiettare a questa impostazione. «Alcuni credenti – egli afferma –, davanti all’evidenza e all’ampiezza del male si battono oggi in direzione opposta, invocando ormai non più l’onnipotenza, ma l’impotenza o la debolezza di Dio. Questa variante della kenosi o del tsimtsum, che troviamo per esempio nel Concetto di Dio dopo Auschwitz di Hans Jonas… La Shoah rende insopportabile l’idea stessa di un Dio onnipotente. Bisognerebbe allora rinunciare a quell’idea e rassegnarsi ad accettare, andando contro la tradizione, la tragica debolezza di un Dio in divenire e sofferente, di un Dio che “si è spogliato della propria divinità”, come dice Hans Jonas (in ciò molto vicino a Simeone Weil, che peraltro non cita), di un Dio disarmato, che non ha potuto creare il mondo e l’uomo se non rinunciando all’onnipotenza» (p. 100s.).

Il tema della debolezza di Dio è oggi all’ordine del giorno anche in campo teologico; per questo le parole del nostro autore non sono da rifiutare in toto. Il CCC difende ancora l’onnipotenza di Dio. Il che rimane certamente possibile, dal momento che, nelle attuali circostanze, l’eliminazione del male morale e anche del male fisico possono considerarsi come due assurdità. Ora l’onnipotenza divina non è messa in questione dall’assurdità, perché l’assurdo rappresenta semplicemente l’impossibile. E l’impossibile, come un circolo quadrato, non ha la minima possibilità di essere realizzato.

Considerazioni forse troppo astratte, che vanno per questo completate con una delle altre idee che hanno fatto irruzione ai nostri giorni nella riflessione teologica: Dio soffre con noi, è sempre vicino alle sue creature, specialmente nel momento del dolore e della solitudine. Il problema dell’esistenza di Dio va commisurato con questi ultimi pensieri, che nascono dalla lettura attenta della Bibbia, decisamente diversa dalla concezione del Dio greco, di cui abbiamo nel tempo mutuato le caratteristiche della immutabilità e della impassibilità.

Al Dio di Gesù Cristo dobbiamo puntare la nostra attenzione. Un Dio nuovo, un Dio diverso, un Dio paterno e materno, come il padre della parabola del padre buono e misericordioso, erroneamente passata alla storia come la parabola del figliol prodigo. Una vera e propria conversione. Come afferma Jürgen Moltmann ne Il Dio crocifisso, «cogliere Dio nel Crocifisso abbandonato esige una rivoluzione dell’idea di Dio».

È forse questo il problema teologico fondamentale del nostro tempo. Almeno in buona parte, gli altri sono dei derivati.

Giordano Frosini

1Cf. Testimoni nn. 19 e 20.