“CHIEDETE PACE PER
GERUSALEMME ….”
QUALE NATALE IN TERRA
SANTA?
La condizione per i cristiani in Israele diventa
sempre più difficile. Le nuove restrizioni d’ingresso imposte dal governo
colpiscono direttamente anche religiosi, sacerdoti e seminaristi, limitando o
impedendo loro il libero movimento. Le previsioni per
il futuro sono molto oscure.
Il pellegrinaggio in
Terra Santa, al di là dei suoi obiettivi religiosi, è anche l’occasione per
rendersi conto di come evolve la situazione in questa terra di cruciale
importanza nello scacchiere politico mondiale. E se il
pellegrinaggio si svolge, come nel mio caso, a scadenza annuale, è ancora più
facile misurare le variazioni della «temperatura» politica locale. Certo prima
di tutto un pellegrinaggio è l’occasione per conoscere e amare quella terra e
le sue popolazioni, siano esse ebraica o palestinese, cristiana o musulmana.
UNA “TREGUA”
NEL
Il momento politico
attuale è caratterizzato da quello che gli osservatori chiamano una “tregua” nelle
ostilità. Questa parola l’abbiamo sentita a più riprese
nel corso
La tregua, ovviamente, non significa la
pace, eppure durante il pellegrinaggio abbiamo visto autentiche folle di
pellegrini, di gran lunga più numerosi dello scorso anno, segno che c’è più
fiducia. Ma sempre nel corso del pellegrinaggio ci siamo resi conto che i
palestinesi sono ancora soggetti alle solite ingiuste restrizioni, che prosegue
la costruzione del “muro della vergogna” che li rinchiude nei «territori» come
in una prigione, che i militari israeliani entrano ancora, a loro piacimento,
nella terra dei palestinesi, che si continua a costruire, sul territorio
palestinese nuovi insediamenti ebraici (gli addumin) e tutto questo in spregio
delle risoluzioni dell’ONU e delle promesse di Israele. Tutto ciò per la
sicurezza nazionale, obiettivo unico della politica di Israele. Certo oggi la
sicurezza è minacciata dalle proposte insensate del presidente iraniano,
Mahamoud Ahmadinejad, che vuol colpire Israele con le armi nucleari. Anche se
questa minaccia, verosimilmente, non sarà messa in atto, offre pur sempre un
valido pretesto a Israele per indurire le sue posizioni bellicose. E chi ne fa
le spese è la popolazione palestinese. Ancora una volta si comprende che la
pace nella terra di Gesù non è vicina e che da essa dipende la pacificazione di
tutta la regione mediorientale.
NUOVE RESTRIZIONI
SUI VISTI D’INGRESSO
Quasi tutto ciò non
bastasse, una nuova preoccupazione è venuta a complicare la vita delle comunità
cristiane palestinesi, già molto provate dalla guerra e dall’emigrazione che ha
assottigliato le loro fila, passate in questi ultimi tempi dal 10% al 2% della
popolazione israeliana. Sempre per ragioni di sicurezza
in questi ultimi mesi il ministero degli interni israeliano ha deciso di
limitare l’entrata degli stranieri. Ufficialmente si tratta di un provvedimento
volto a limitare l’ingresso in Israele agli stranieri in possesso di un visto
«per una sola entrata» provenienti dai “paesi nemici”. Tuttavia esso è stato
subito applicato anche ai cittadini della Giordania e dell’Egitto, due paesi arabi
che hanno firmato un trattato di pace con Israele. Ora si dà il caso che, tra
coloro che sono oggetto di tali restrizioni, ci siano molti sacerdoti,
religiosi e religiose, seminaristi e altre persone della chiesa cattolica,
sicché ciò che potrebbe sembrare una restrizione “normale” in un tempo di
conflitto, finisce per colpire in modo molto grave la vita delle comunità
cristiane in Terra Santa e, in particolare, il Patriarcato latino di
Gerusalemme, che include Palestina, Israele e Giordania. Le stesse restrizioni
sono applicate ai frati francescani della Custodia della Terra Santa, ai membri
della Chiesa melchita (i cristiani greci in comunione con Roma), alle
congregazioni religiose e ai seminaristi del seminario del Patriarcato latino
di Beit Jala, la maggior parte dei quali sono di nazionalità giordana. A tutti
questi non sarà più permesso di spostarsi all’interno delle loro comunità, dato
che chi, per ragioni di ministero, di famiglia o per eventuali emergenze, deve
uscire da Israele, perde il suo “visto di residenza” e richiederlo, mentre si
trova fuori del paese, comporta un’attesa di 3-4 mesi senza, per altro, aver la
certezza di riacquistarlo.
Già oggi i preti palestinesi per entrare in
Israele o recarsi a Gerusalemme, devono avere un permesso delle autorità
militari israeliane, che fissano loro il luogo di entrata e la durata del
soggiorno, non possono usare la propria macchina per spostarsi e devono
sottoporsi a umilianti controlli ai check-point, sempre con pericolo di
trovarsi davanti ad arbitrarie e imprevedibili chiusure dei «territori». Queste
nuove disposizioni impediscono al clero e ai religiosi di programmare qualsiasi
normale lavoro pastorale e di partecipare alle cerimonie religiose nei Luoghi
santi, come pure agli incontri mensili e ai ritiri organizzati dal Patriarcato
latino. Le previsioni per il futuro sono purtroppo oscure e preoccupanti. Se,
come si teme, Israele dovesse applicare con rigore le nuove restrizioni, entro
giugno 2008 la Chiesa cattolica perderebbe molto del suo clero che proviene, in
prevalenza, dalla Giordania, il seminario di Beit Jala, che dal 1852 forma
tutto il clero per tutta la Terra Santa, dovrebbe chiudere e molte parrocchie
rimarrebbero senza parroco. Un alto ecclesiastico del Patriarcato, nel corso
della visita, ci faceva notare che purtroppo i ritardi e le complicazioni
burocratiche per i visti del personale di cui la Chiesa ha bisogno, sono già
una realtà. Per questo il patriarca Michael Sabbah si sta adoperando in ogni
modo per scongiurare questa situazione e sta chiedendo l’aiuto politico di chi
può influire in Israele, perché la soluzione di questi problemi non si trova in
Vaticano, ma a Washington e nelle cancellerie europee.
I RAPPORTI
ISRAELE-SANTA SEDE
La libertà della Chiesa
nella sua gestione ordinaria è stata fissata nell’«Accordo fondamentale fra
la Santa Sede e lo stato di Israele» del 30 dicembre 1993. Tale «Accordo» comportava un altro «Accordo giuridico», firmato nel
1997 ma mai entrato in vigore, e un «Accordo economico» per la risoluzione di
tre questioni delicate: le proprietà della Chiesa ingiustamente espropriate o
sottoposte a ingiuste servitù; i servizi che la Chiesa rende alla popolazione
israeliana, sia essa di origine ebraica o palestinese che, a parità di servizi,
dovrebbero essere ricompensati allo stesso modo delle istituzioni statali; la
questione delle tasse per le quali la Santa Sede chiede una cosa semplice e
naturale: e cioè che quello che è avvenuto durante gli ultimi tre secoli, ciò
che Israele ha promesso al momento della sua indipendenza nel 1948, ciò che è
sottinteso con la firma dell’Accordo giuridico, ciò che di fatto avviene fino a
questo momento in materia di esenzione di tasse per le istituzioni religiose
cristiane, sia cristallizzato giuridicamente in un accordo di valore
internazionale regolare.
Mons. Pietro Sambi, ora nunzio a
Washington, che è stato delegato apostolico e nunzio in Israele dal 1998 fino
al 2005, in una intervista rilasciata il 16 novembre 2007 a Giuseppe Caffulli,
ha denunciato il verificarsi in Israele di una “strana situazione: gli accordi
già firmati, quello Fondamentale e quello Giuridico, sono validi
internazionalmente, ma non sono validi in Israele, perché la legge israeliana
rende obbligatoria l’approvazione della Knesset (il Parlamento israeliano)
perché un accordo valido internazionalmente diventi valido sul territorio
israeliano. E l’approvazione della Knesset nessuno ha avuto la preoccupazione
di chiederla. L’Accordo economico, dopo quasi dieci anni di trattative rese
inutili da rinvii degli incontri da parte della delegazione israeliana, da
mancanza di poteri della medesima nelle trattative, in una parola per assenza
di volontà politica, non è stato ancora firmato. È sotto gli occhi di tutti
quale fiducia si possa accordare alle promesse d’Israele! Il problema dei visti
per il personale religioso cattolico era di più facile soluzione quando non
esistevano i rapporti diplomatici tra la Santa Sede e Israele”. Interrogato poi
su come egli vedesse la situazione dei rapporti di Israele con la Chiesa
cattolica, il nunzio Sambi, con la franchezza tutta romagnola che lo
caratterizza, ha risposto: «Se devo essere franco, le relazioni tra la Chiesa
cattolica e lo stato d’Israele erano migliori quando non c’erano i rapporti
diplomatici».
L’avvicinarsi delle feste natalizie ci
porta tutti idealmente in Terra Santa presso la grotta di Betlemme e ci invita
a pregare per la pace in quel paese e affinché Israele comprenda che la
sicurezza, cui la sua popolazione ha certamente diritto, non si raggiunge costruendo
muri invalicabili, ma ponti di comunicazione, non aumentando il numero dei
paesi nemici, ma allargando la base di quelli amici. L’arcivescovo Sambi, nella
stessa intervista, ha citato a memoria un detto rabbinico che afferma che «il
generale più valoroso non è quello che travolge il nemico, ma quello che sa
trasformare il nemico in amico».1
Gabriele
Ferrari s.x.
Tavernerio
26 novembre 2007
1 La conferenza che si è
tenuta ad Annapolis (Maryland) negli Stati Uniti per iniziativa del presidente
americano Bush l’ultima settimana di novembre e che ha riunito insieme i
rappresentanti del governo dello stato d’Israele e del Movimento per la
liberazione della Palestina, nelle persone del primo ministro israeliano Ehud
Olmert e del presidente Mahamoud Abbas, alias Abu Mazen, chairman del comitato
esecutivo e dell’Autorità palestinese, potrebbe segnare una svolta, speriamo
definitiva, nel conflitto israeliano-palestinese, dopo decenni di conflitti e
di violenze. Le due parti infatti hanno firmato una
dichiarazione congiunta (Joint Understanding) in cui esprimono la
determinazione di voler giungere a creare due stati indipendenti e di avviare
immediatamente, a questo scopo, negoziati bilaterali che portino a concludere
un trattato di pace che risolva le questioni pendenti. D’ora in poi, essi si
impegnano a incontrarsi ogni due settimane, mentre una commissione congiunta si
riunirà regolarmente a partire dal 12 dicembre prossimo. I due leader, inoltre,
si propongono di giungere a un accordo prima della fine del 2008, rispettando
la Road Map del 2003, messa a punto dal cosiddetto “quartetto” (Usa, Russia, UE
e ONU) che prevedeva un percorso a tappe per giungere a una pace stabile e alla
creazione di uno stato palestinese indipendente e democratico.
C’è da augurarsi che questo piano abbia
successo e segni anche per i cristiani di queste terre l’inizio di un’epoca
nuova.
IL MESSAGGIO LITURGICO
SPIRITUALITÀ DEL TEMPO DI
NATALE
Al centro della celebrazione del Natale-Epifania sta
l’evento storico dell’incarnazione del Verbo. Ma non è una semplice
commemorazione di un fatto storico del passato. La Chiesa “oggi” celebra
l’unione dell’umanità con la divinità realizzata nell’incarnazione del Verbo e
che “oggi” continua ad attuarsi nella vita dei credenti.
Il Tempo di Natale è la
seconda parte del “ciclo della manifestazione del Signore” di cui fa parte
anche l’Avvento. Questo tempo liturgico va dalla
solennità di Natale (25 dicembre) alla festa del Battesimo del Signore
(domenica dopo l’Epifania). È un tempo liturgico che è radicato nelle
tradizioni popolari ed è profondamente sentito anche ai nostri giorni. Basta
vedere come cambia nell’imminenza di queste festività l’aspetto delle nostre
città per accorgersene. Questo non è un male e non dobbiamo nemmeno condannarlo
come vuoto consumismo. Anche nelle manifestazioni esteriori infatti si può
nascondere qualcosa di autentico che, qualora valorizzato e indirizzato
correttamente, può essere l’espressione di un desiderio che non è detto non
possa trovare una risposta nell’annuncio evangelico. Tuttavia occorre fare
attenzione a non attribuire a questo tempo liturgico dei significati che non
gli appartengono. Se, come ho detto, le tradizioni e le manifestazioni
esteriori possono essere un bene, tuttavia sono esse a doversi lasciar
illuminare dalla celebrazione del Natale e non essere loro a imporre alla
celebrazione liturgica dei contenuti che non le sono propri o sono troppo
parziali.
NATIVITÀ
ED EPIFANIA
Nel tempo di Natale
possiamo individuare innanzitutto due “feste” principali che fanno da cornice a
tutto questo tempo liturgico e, insieme, ne esprimono bene il mistero che vi si
celebra. Sono la Natività del Signore (25 dicembre) e
l’Epifania (6 gennaio). Esse sono in stretto rapporto tra di loro e celebrano
sottolineature differenti del medesimo mistero dell’incarnazione e della
manifestazione del Signore. Nella loro origine tuttavia nascono in modo
distinto (IV sec.). L’Epifania nasce in oriente (dove oggi si celebra
principalmente il mistero del Battesimo del Signore) e il Natale in occidente:
un influsso reciproco porta in un secondo momento ad assumere entrambe le feste
sia in oriente, sia in occidente mantenendo le varie sottolineature che
entrambe le tradizioni attribuivano all’una e all’altra. Per cogliere l’autentico
significato della celebrazione del tempo di Natale occorre fare attenzione a
non separare le due dimensioni di cui Natività ed Epifania sono portatrici, ma
a tenerle strettamente unite tra di loro.
NEL RITMO
ANNUALE DEL TEMPO
Le feste del tempo di Natale
nascono intorno al solstizio di inverno. Questa
collocazione non è casuale. Nei testi liturgici troviamo molto spesso dei
riferimenti al tema della luce che viene a essere l’elemento simbolico
principale per esprimere il “mistero della salvezza” che la Chiesa celebra in
questo tempo. Anche i Padri della chiesa non ignorano l’importanza del
riferimento ai ritmi della natura. Ad esempio in un suo sermone san Massimo di
Torino diceva: Per quanto io taccia, fratelli, il tempo ci ricorda che il
natale di Cristo Signore è vicino; l’estrema contrazione dei giorni, infatti,
previene la mia predicazione. Con le sue stesse angustie il mondo annuncia che
sta per accadere qualcosa che lo riporterà al meglio e desidera, trepidante
nell’attesa, che il chiarore di un sole più splendente illumini le sue tenebre
(Sermone 61a,1).
Come la luce del giorno, a partire da
questo giorno “più piccolo” (s. Agostino), sottrae progressivamente spazio alle
tenebre della notte, così la Chiesa celebra nell’incarnazione del Verbo l’inizio
della salvezza. Quello della luce è un tema biblico che troviamo anche nei
testi che maggiormente ritornano nel lezionario del tempo di Natale: Gv
1,4-5.9; Lc 2,9.
«Per questo misterioso scambio _di doni» (I
testi liturgici)
Al centro della celebrazione del
Natale-Epifania sta certamente l’evento storico dell’incarnazione del Verbo. Ma
non si tratta di una semplice commemorazione di un fatto storico del passato.
Infatti, radicandosi in un evento fondante, per sua natura, avvenuto una volta
per tutte e irrepetibile, la Chiesa “oggi” celebra l’unione dell’umanità con la
divinità che si è realizzata nell’incarnazione del Verbo e che “oggi” continua
ad attuarsi nella vita dei credenti. È quanto si afferma in un testo liturgico
del tempo di Natale nel quale la Chiesa afferma:la nostra debolezza è assunta
dal Verbo, l’uomo mortale è innalzato a dignità perenne e noi, uniti a te in
comunione mirabile, condividiamo la tua vita immortale (Prefazio di Natale
III). Leone Magno in un famoso sermone del tempo di Natale diceva: Riconosci,
cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler
tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati che,
strappato al potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce del Regno di
Dio. Con il sacramento del battesimo sei diventato tempio dello Spirito Santo!
(Tractatus XXI,3). In questa prospettiva possiamo cogliere il senso più
profondo della celebrazione del Natale: «il Natale è la celebrazione
dell’incarnazione di Cristo in questo mondo, in questa società, mediante il
“parto” della Chiesa-Madre» (G. Cavagnoli).
Nella liturgia del Natale troviamo molti
altri testi liturgici che vanno in questa direzione e che dovrebbero realmente
plasmare la nostra preghiera in questi giorni. Nella colletta della
celebrazione eucaristica “della notte” la Chiesa prega: O Dio, che hai
illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del
mondo, concedi a noi, che sulla terra lo contempliamo nei suoi misteri, di
partecipare alla sua gloria nel cielo. Il testo quindi si chiede, come frutto
della celebrazione del Natale, che la Chiesa possa aver parte alla stessa vita
di Cristo. Ancor più esplicita e chiara è l’orazione sulle offerte sempre della
celebrazione “della notte”:Accetta, o Padre, la nostra offerta in questa notte
di luce, e per questo misterioso scambio di doni trasformaci nel Cristo tuo
Figlio, che ha innalzato l’uomo accanto a te nella gloria. Infine nella
colletta della celebrazione “del giorno” si chiede di poter condividere la
“vita del Figlio” e lo si fa ricorrendo a un linguaggio che rimanda alla
creazione: O Dio, che in modo mirabile ci hai creati a tua immagine, e in modo
più mirabile ci hai rinnovati e redenti, fa’ che possiamo condividere la vita
divina del tuo Figlio, che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana. La
celebrazione del Natale è quindi per la Chiesa una “nuova creazione” o una
“rinascita”. Leone Magno nel VI Sermone sul Natale affermava: mentre adoriamo
la nascita del nostro Salvatore, ci troviamo a celebrare anche la nostra
nascita.
«È apparsa la gloria di
Dio» (Alcuni spunti dal Lezionario)
Nella solennità della Natività del Signore
(25 dicembre) la liturgia romana propone delle letture ricavandole da quelle
usate tradizionalmente da questa famiglia liturgica in occasione delle
festività natalizie (cfr. OLM, 95). Un interessante accostamento di letture è
costituito dai tre brani proposti come seconda lettura per le celebrazioni
“della notte”, “dell’aurora” e “del giorno”. Letture che – come avviene di
solito per la seconda lettura delle domeniche e delle solennità – presentano in
modo particolare il legame tra il mistero celebrato e la vita dei credenti.
Naturalmente questo aspetto non è assente dalle altre letture (I Lettura e
Vangelo), ma è particolarmente centrale per quanto riguarda la seconda lettura,
che spesso ha anche un carattere parenetico-esortativo.
Il 25 dicembre il Messale Romano propone,
secondo una antica tradizione della Chiesa di Roma, tre formulari per la
celebrazione eucaristica con tre cicli di letture differenti. Se accostiamo i
tre testi del Nuovo Testamento proposti come seconda lettura, possiamo cogliere
nell’insieme il messaggio che la liturgia di questo giorno dà circa il rapporto
tra il mistero dell’incarnazione del Verbo e la vita dei credenti che celebrano
tale mistero nell’azione liturgica.
Per la celebrazione “della notte” e la
celebrazione “dell’aurora” il lezionario propone due brani della lettera a
Tito, che svolgono un ruolo ben preciso all’interno della struttura della
lettera stessa. Nella Lettera a Tito infatti i brani 2,11-14 e 3,4-7
costituiscono i punti cardine della struttura poiché rappresentano la
giustificazione dottrinale del comportamento morale che la lettera indica al
suo destinatario. Per la celebrazione “del giorno” invece la liturgia propone
la solenne e splendida apertura della Epistola agli Ebrei (1,1-6). Testo
estremamente forte, che, con espressioni molto dense, mette davanti agli occhi
dei credenti tutta la storia della salvezza e in essa colloca la novità del
Figlio.
Sono letture attraversate da una profonda
emozione, che traspare anche dalla loro forma letteraria che le avvicina a dei
“canti”, contemplazione degli autori sacri che si sentono come coinvolti e
partecipi della presenza-potenza di Dio che si manifesta nella storia:
– Tt 2,11-14 (notte): Si è manifestata la
grazia di Dio apportatrice di salvezza…
– Tt 3,4-7 (aurora): Quando si sono
manifestati la bontà di Dio salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini…
– Eb 1,1-6 (giorno): Dio, che aveva già
parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei
profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio…
Tre testi nei quali si percepisce lo
stupore per l’auto-comunicazione di Dio che in Gesù giunge al suo compimento. È
un po’ come nel prologo del Vangelo di Giovanni (brano di Vangelo del giorno di
Natale) dove con emozione l’autore afferma che il Verbo di Dio, colui che
eternamente è rivolto (in relazione con) verso il Padre, «si è fatto carne e ha
posto la sua tenda in mezzo a noi» (Gv 1, 14), compimento di un “progetto di
vita”… perché da sempre nel pensiero di Dio c’era la vita.
Questa auto-comunicazione di Dio viene
descritta come una manifestazione, una epifania che porta salvezza e che è
motivata unicamente dall’amore di Dio per gli uomini; viene descritta come
“parola” che attraversa la storia e che giunge al suo compimento. Ma davanti a
questa manifestazione e davanti a questa parola l’uomo non è un estraneo
spettatore, ma è profondamente coinvolto. Da qui la profonda emozione di questi
testi: il progetto di Dio in cui era vita (Gv 1,4) giunge a compimento e la
vita diviene “luce” per gli uomini (cf. J. Mateos - J. Barreto, Il Vangelo di
Giovanni, 306-309), perdono e salvezza.
Nella mia carne…
I testi biblici e liturgici che abbiamo
brevemente preso in considerazione ci salvano dal rischio di rinchiudere la
celebrazione del tempo di Natale nei confini troppo stretti di un “presepe”, e
ci donano uno sguardo contemplativo sulla storia, uno sguardo che sa
riconoscere nell’oggi di ogni tempo e di ogni uomo e donna l’incarnazione del
Verbo. Sarà semmai il “presepe” a lasciarsi attrarre verso orizzonti più ampi e
più ricchi.
Certamente nulla sarebbe possibile senza la
nascita di Gesù a Betlemme duemila anni fa, ma la celebrazione liturgica del
Natale non può essere ridotta a un nostalgico ricordo di un fatto commovente e
toccante del passato. Quel fatto ha trasfigurato la storia, ha fatto nascere un
mondo nuovo, una nuova creazione. Celebrando il Natale “oggi”, noi celebriamo
il nostro essere “resi figli” in colui che è il “primogenito” e il “pioniere”
(cf. Eb 2,10) che ci guida al compimento della nostra “vocazione celeste”. I
padri della chiesa d’oriente, parlando del senso dell’incarnazione, dicevano
che «Dio si è fatto uomo, perché l’uomo diventi Dio». Qui sta il senso della
nostra celebrazione del Natale “oggi”, è in noi che il Cristo oggi deve
nascere, nella sua Chiesa. Noi non attendiamo più una nascita del Cristo nella
carne… ma attendiamo il compimento quando tutto e in tutti sarà Cristo (cf. Col
3,11).
Si domanda Origene in una delle sue omelie
sulla Genesi: A che serve… dire che Gesù è venuto soltanto nella carne che ha
preso da Maria e non mostrare che è venuto anche nella mia carne? (Omelie sulla
Genesi 3,7 in: Maria. Testi teologici e spirituali, Milano 2000, 67-68). Egli
elenca gli aspetti della vita degli uomini e delle donne nei quali la venuta di
Cristo nella nostra carne può manifestarsi. Secondo il grande
“biblista-teologo” del II-III secolo io potrò dire che Cristo è nato nella mia
carne se avrò fatto morire le mia membra che sono sulla terra… se porto in ogni
momento nel mio corpo la morte di Cristo (cf. 2Cor 4,10)… se sono divenuto una
cosa sola con lui con una morte simile alla sua (Rm 6,5)… In fondo Origene
afferma che l’incarnazione di Cristo in noi, il suo prendere carne nella nostra
carne, non è altro che la nostra vita trasfigurata e rinnovata dalla sua
Pasqua; la nostra esistenza raggiunta e toccata dal mistero pasquale. Così la
celebrazione del Natale si rivela profondamente legata alla Pasqua e orientata
verso di essa che è il culmine di tutto l’anno liturgico. Possiamo concludere
queste brevi riflessioni sul tempo di Natale citando ancora una volta Origene:
Il Signore ci accordi di credere con il cuore, di confessare con la bocca (Rm
10,9-10) e di confermare con le opere che l’alleanza di Dio è nella nostra
carne affinché gli uomini, vedendo le nostre opere buone, diano gloria al Padre
nostro che è nei cieli (Mt 5,16) in Gesù Cristo nostro Signore.
Matteo
Ferrari,
monaco
di Camaldoli
I PRIMI TRE VOLUMI PER
GLI ANNI A B C
I NUOVI LEZIONARI
L’uscita del Lezionario è un’occasione per
riflettere sul valore di questo libro liturgico e della parola di Dio nelle
nostre celebrazioni. La nuova edizione, inoltre, presenta delle particolarità che
non sono da trascurare.
Nella prima domenica di
Avvento (2 dicembre) la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) ha consegnato
nelle mani delle comunità cristiane la nuova edizione del Lezionario domenicale
e festivo (tre volumi per gli anni A, B e C). È il
primo passo dell’uscita del nuovo Lezionario liturgico in lingua italiana che
si è resa necessaria dopo l’approvazione della nuova traduzione ufficiale della
Bibbia.
UN FRUTTO
DEL CONCILIO
Innanzitutto non dobbiamo
dimenticare che il Lezionario attualmente in uso, la scelta e la quantità
delle letture che leggiamo ogni domenica e ogni giorno nella liturgia, è frutto
del concilio Vaticano II e della riforma liturgica promossa dal concilio
stesso. Senza il Vaticano II noi non avremmo questo
Lezionario, né le nostre liturgie sarebbero così ricche, non solo da un punto
di vista quantitativo, di lettura delle Scritture sante. Infatti è stata la
costituzione conciliare sulla divina liturgia Sacrosanctum concilium (SC) a
indicare la via della riforma dell’ordinamento delle letture per la
celebrazione eucaristica. Innanzitutto SC ha richiamato la Chiesa
all’importanza da dare alle sacre Scritture nella celebrazione liturgica. Il
concilio ritiene che «per promuovere la riforma, il progresso e l’adattamento
della sacra liturgia, è necessario che venga favorito quel gusto saporoso e
vivo della sacra Scrittura, che è attestato dalla venerabile tradizione dei
riti sia orientali che occidentali» (SC 24) e al n. 35 aggiunge: «Nelle sacre
celebrazioni si restaurerà una lettura della sacra Scrittura più abbondante,
più varia e meglio scelta». Quando poi passa a parlare del “mistero
eucaristico” SC richiama nuovamente ed esplicitamente all’esigenza di una
“maggiore abbondanza” di testi biblici nella liturgia, scendendo maggiormente
nel dettaglio: «Affinché la mensa della parola di Dio sia preparata ai fedeli
con maggiore abbondanza, vengano aperti più largamente i tesori della Bibbia in
modo che, in un determinato numero di anni, si legga al popolo la maggior parte
della sacra Scrittura» (SC 51).
Anche in un altro documento del concilio si
parla del rapporto tra liturgia e sacra Scrittura. Si tratta della costituzione
dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum (DV). Anche questo è un documento
fondamentale del Vaticano II. DV ricorda che «la Chiesa ha sempre venerato le
divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai,
soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia
della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (n. 21).
I documenti del post-concilio da citare
riguardo all’importanza e al valore della proclamazione delle Scritture nella
celebrazione liturgica sarebbero molti (OLM; OGMR…). Ricordiamo solamente il
documento più recente: l’esortazione post-sinodale Sacramentum caritatis di
Benedetto XVI. In essa il papa afferma: «Insieme al Sinodo, chiedo che la
liturgia della Parola sia sempre debitamente preparata e vissuta. Pertanto,
raccomando vivamente che nelle liturgie si ponga grande attenzione alla
proclamazione della Parola di Dio da parte di lettori ben preparati.[…]
Infatti, la Parola che annunciamo ed ascoltiamo è il Verbo fatto carne (cf. Gv
1,14) e ha un intrinseco riferimento alla persona di Cristo e alla modalità
sacramentale della sua permanenza» (45).
LA RIFORMA
DEL LEZIONARIO
A partire dalle
indicazioni conciliari – maggiore abbondanza e completezza nella scelta delle
letture (SC 35 e 51) – la riforma liturgica ha realizzato, negli anni
successivi al Vaticano II, il Lezionario che è stato in uso fino ad oggi. Non dobbiamo sottovalutare l’importanza di questo grande lavoro che
ha rappresentato una vera e propria “rivoluzione” nel rapporto tra i cattolici
e la Bibbia. A questo lavoro hanno contribuito dal 1966 al 1971 «nove gruppi di
esperti in varie discipline: esegeti, liturgisti, storici, catecheti,
pastoralisti e altri» (R. De Zan). Il Lezionario uscito dalla riforma liturgica
ed entrato definitivamente in vigore nel 1974 ha seguito – soprattutto per le
domeniche e per le feste – due criteri generali nella scelta dei testi biblici:
«la concordanza tematica e la lettura semicontinua. Nell’applicare questi due
principi, si ricorre ora all’uno ora all’altro, secondo i diversi tempi
dell’anno e le caratteristiche particolari di ogni tempo liturgico» (Ordo
lectionum missae OLM 66,3). Gli altri criteri seguiti nella formazione del
Lezionario sono illustrati e commentati nell’OLM (II ed. 1981).
Per comprendere l’importanza della riforma
liturgica del Lezionario, che costituisce indubbiamente uno degli aspetti più
significativi per la vita della Chiesa nel post-concilio, basta fare un veloce
confronto con le letture bibliche – non esisteva un Lezionario – presenti nel
Missale Romanum plenario di San Pio V. In un recente documento dei vescovi USA
si sottolinea, in modo molto efficace e suggestivo, che mentre nel messale di
Pio V si leggeva unicamente l’1% del Primo Testamento e il 17% del Nuovo, nel
Lezionario uscito dalla riforma liturgica del Vaticano II si trova il 14% del
Primo e ben il 71% del Nuovo. Non si può certamente dire che questa sia una
“differenza” irrilevante per la frequentazione delle sacre Scritture da parte
di pastori e fedeli. Inoltre il Primo Testamento non veniva mai letto nelle
domeniche e nelle feste e il Vangelo di Marco era quasi del tutto assente. Nel
Lezionario del 1974 invece, come abbiamo visto, il Primo Testamento è molto
presente e, tranne per il tempo di Pasqua e poche altre eccezioni, viene letto
ogni domenica e ogni festa. Nel messale di Pio V inoltre per i tempi di Pasqua
e dopo Pentecoste non esisteva un Lezionario feriale e si era costretti a
leggere ogni giorno la pericope della domenica precedente. Oggi invece
disponiamo di un Lezionario che permette letture proprie per ogni giorno
feriale (su due anni per il Tempo ordinario). Si è inoltre recuperato il
criterio della lettura semi-continua che permette un accostamento quasi
integrale di molti libri del Primo e del Nuovo Testamento a cominciare dai
quattro vangeli.
Un ultimo aspetto, non secondario, che
contraddistingue il Lezionario riformato riguarda il fatto di essere passati da
un unico libro liturgico, il messale plenario, che conteneva sia le parti
eucologiche (preghiera) riservate al presidente, sia le letture, a una
_pluralità di libri liturgici. Non si tratta di un aspetto puramente
“editoriale”, ma tocca la dimensione “ministeriale” dell’azione liturgica.
Infatti mentre nell’antichità c’era una molteplicità di libri liturgici in base
ai diversi ministeri, nel Messale Romano di Pio V (e negli altri messali
plenari) tutto era riportato in un solo libro, poiché unico era il ministro. Le
altre forme ministeriali erano pressoché scomparse. Il Vaticano II ha voluto
recuperare la dimensione ministeriale delle celebrazioni liturgiche nelle sue
diverse forme ed espressioni, e per questo ha riproposto la distinzione del
Messale dal Lezionario, recuperando così la figura dei lettori che hanno oggi
un compito assai significativo e importante nella liturgia.
Da queste brevi e incomplete osservazioni
risulta evidente la grande ricchezza del Lezionario del 1974 rispetto al
messale di Pio V nel quale molte pagine delle Scritture e anche dei vangeli non
venivano mai proclamate nelle assemblee liturgiche e quindi rimanevano
pressoché sconosciute alla maggior parte dei cattolici.
IL NUOVO LEZIONARIO
PREVISTI NOVE VOLUMI
Sulla scia della riforma
del Lezionario post-conciliare e in continuità con essa si innesta la nuova
edizione del Lezionario che è stato consegnato dalla CEI alle nostre comunità
per essere utilizzato nelle assemblee liturgiche a partire dalla prima domenica
di Avvento 2007 (anno A). Il nuovo Lezionario è stato
presentato in una conferenza stampa il 12 novembre da mons. Giuseppe Betori,
segretario generale della CEI; mons. Felice Di Molfetta, presidente della
Commissione episcopale per la liturgia; mons. Crispino Valenziano, liturgista
del pontificio Istituto Sant’Anselmo; don Angelo Lameri, dell’Ufficio liturgico
nazionale della CEI.
La preparazione di un nuovo Lezionario si
era resa necessaria da quando la CEI aveva approvato la nuova traduzione della
Bibbia (maggio 2002). La revisione del testo biblico è stata curata da diversi
studiosi (32 per il Primo Testamento e 17 per il Nuovo) ed è stata la prima
volta che una conferenza episcopale ha messo mano a una rinnovata traduzione
della Bibbia dopo la pubblicazione dell’istruzione Liturgiam authenticam che
indica i criteri di traduzione dei testi liturgici nelle lingue moderne. In tale
documento si chiede inoltre che nella traduzione dei testi biblici per la
liturgia, a partire dai testi originali, si tenga conto, soprattutto per i
problemi di canonicità, del testo della Neo-vulgata. La nuova traduzione è
stata anche l’occasione per eliminare errori e per predisporre un testo anche
più adatto per la proclamazione liturgica e di più facile ascolto.
L’opera prevede nel complesso l’uscita di
nove volumi. I primi tre, già disponibili dalla prima domenica di Avvento,
riguardano i tre cicli del Lezionario festivo (A, B, C). Nei mesi successivi è
prevista l’uscita di altri sei volumi: tre per il ciclo feriale (un volume per
Avvento, Natale, Quaresima, Pasqua; uno per il Tempo ordinario anni pari; uno
per il Tempo ordinario anni dispari), uno per le memorie e le feste dei santi;
uno per la celebrazione dei sacramenti (messe rituali); infine, un volume per
le messe ad diversa e votive. L’insieme dei volumi del nuovo Lezionario
dovrebbe uscire nell’arco del 2008 e il suo utilizzo liturgico sarà obbligatorio
a partire dall’Avvento del 2010.
Per quanto riguarda la scelta delle letture
si è seguita la distribuzione indicata dalla seconda edizione dell’OLM (1981)
senza apportarvi nessuna modifica.
Un aspetto non secondario del nuovo
Lezionario riguarda il coinvolgimento di numerosi artisti italiani
contemporanei nella realizzazione dei vari volumi. Anche questa è una novità
assoluta nel panorama della Chiesa cattolica. Sono state realizzate, da parte
di trentun artisti, ottantasette opere inedite, create appositamente per il
Lezionario. Si tratta di illustrazioni, dal figurativo all’astratto, che
rappresentano i brani principali delle Scritture proclamati nell’arco dell’anno
liturgico. Nella presentazione mons. Betori ha sottolineato che «il Lezionario
si pone in continuità con gli antichi libri liturgici per la proclamazione
della parola di Dio. Di essi eredita la preoccupazione di presentarsi in una
forma nobile, ben curata, dignitosa, arricchita dalle opere del genio umano». È
significativo questo coinvolgimento del mondo dell’arte nella realizzazione del
Lezionario. Anche questo corrisponde, oltre che alla sensibilità della Chiesa
di ogni tempo, alle indicazioni del Vaticano II (SC 122-130). Rivolgendosi agli
artisti nella Lettera del 1999 Giovanni Paolo II affermava: «Nessuno meglio di
voi artisti, geniali costruttori di bellezza, può intuire qualcosa del pathos
con cui Dio, all’alba della creazione, guardò all’opera delle sue mani» (1). E,
a proposito del rapporto tra Parola e arte – come è il caso del Lezionario –
dice: «Dalla Natività al Golgota, dalla Trasfigurazione alla Risurrezione, dai
miracoli agli insegnamenti di Cristo, fino agli eventi narrati negli Atti degli
Apostoli o prospettati dall’Apocalisse in chiave escatologica, innumerevoli
volte la parola biblica si è fatta immagine, musica, poesia, evocando con il
linguaggio dell’arte il mistero del “Verbo fatto carne”» (n. 5).
OCCASIONE
PER UN RINNOVATO IMPEGNO
L’uscita del nuovo
Lezionario, che si pone in continuità con la riforma liturgica e ne valorizza
alcuni aspetti, è un’occasione preziosa per riprendere in mano, come singoli e
come comunità, una delle dimensioni più importanti della celebrazione liturgica
e della vita cristiana in generale: il rapporto con la parola di Dio. Se il Vaticano II e la riforma liturgica hanno ricollocato nel cuore
della liturgia nella Chiesa cattolica la proclamazione delle Scritture sia del
Primo che del Nuovo Testamento, d’altra parte non sono mancate delle difficoltà
da parte di pastori e fedeli nel cogliere questa grande “novità”. Il nuovo
Lezionario, con le sue non trascurabili novità, potrebbe essere l’occasione per
“recepire” ciò che del concilio non è stato ancora pienamente valorizzato nella
vita delle nostre comunità. Questo significa un rinnovato impegno da parte di
tutti per fare in modo che la parola di Dio abbia in ogni celebrazione
liturgica lo spazio e l’importanza che merita. Anche Benedetto XVI nella sua
recente esortazione post-sinodale Sacramentum caritatis richiamava a tale
esigenza: «È necessario che i fedeli siano aiutati ad apprezzare i tesori della
sacra Scrittura presenti nel Lezionario attraverso iniziative pastorali,
celebrazioni della Parola e la lettura orante (lectio divina). Inoltre, non si
dimentichi di promuovere le forme di preghiera confermate dalla tradizione: la
Liturgia delle Ore, soprattutto le Lodi, i Vespri, la Compieta e anche le
celebrazioni vigiliari. La preghiera dei Salmi, le letture bibliche e quelle
della grande tradizione presentate nell’Ufficio divino possono condurre a
un’approfondita esperienza dell’avvenimento di Cristo e dell’economia della
salvezza, che a sua volta può arricchire la comprensione e la partecipazione
alla celebrazione eucaristica» (45). Per la Chiesa è una rinnovata esperienza
di “sequela” del suo Signore, perché «quando nella Chiesa si legge la sacra
Scrittura, Dio stesso parla al suo popolo e Cristo, presente nella sua parola,
annunzia il Vangelo» (OGMR 29).
Matteo
Ferrari
monaco
di Camaldoli
ASSEMBLEA SEMESTRALE DEI
SUPERIORI GENERALI
CONVOCATI DALLA PAROLA
Il tema del prossimo sinodo dei vescovi al centro
dei lavori. Anche i consacrati non possono non sentirsi
“afferrati”, “convocati” e “inviati” dalla Parola. Una comprensione della
Bibbia a partire dai poveri. Una prima “risonanza” dopo la lettura del
documento preparatorio del sinodo. Il tema della prossima assemblea USG.
Con largo anticipo
l’unione dei superiori generali (USG) ha voluto affrontare il tema del prossimo
sinodo dei vescovi – che si svolgerà a Roma nell’ottobre 2008, su “La Parola
nella vita e nella missione della Chiesa” – dedicandovi interamente, dal 21 al
23 novembre, la sua 70ª assemblea generale semestrale. Lo
ha fatto non solo mettendosi in ascolto di alcuni esperti (p. Innocenzo
Gargano, sr. Dolores Aleixandre, p. Ludger Feldkämper, fr. Enzo Bianchi), ma
anche prevedendo intenzionalmente, nelle prime due giornate di lavori, ampi
spazi di approfondimento personale e di confronto con la Parola nei diversi
gruppi linguistici.
Nel breve saluto iniziale, il presidente
dell’USG, don Pascual Chavez, ha ricordato come il tema del prossimo sinodo
fosse stato esplicitamente suggerito dai delegati dei superiori generali al
termine dei lavori del sinodo sull’Eucaristia (ottobre 2005). «Per noi, ha
detto, come d’altronde per tutti i cristiani, si tratta di un tema vitale, nel
senso che la Parola è all’origine della nostra vocazione». La testimonianza e
la predicazione dei consacrati saranno “attendibili” solo nella misura in cui
il Vangelo predicato sarà alla base della loro stessa vita. Anche nella loro
vita c’è un pericolo tutt’altro che “immaginario”, quello di tralasciare la
cosa più importante, che non si può delegare ad altri, la preghiera e il
ministero della Parola. Anticipando la “trilogia” che sarebbe poi stata
sviluppata dai diversi relatori, don Chavez ha invitato i consacrati a sentirsi
anch’essi “afferrati”, “convocati” e “inviati” da quella Parola che, come
leggiamo in Vita consecrata, «è la prima sorgente di ogni spiritualità
cristiana» (94).
L’UNITÀ
DEI DUE TESTAMENTI
Il primo dei tre
“mistagoghi” – come li ha chiamati don Chavez – ascoltati in assemblea, è stato
il camaldolese Innocenzo Gargano. Più che una relazione vera e propria, gli era
stata chiesta una lectio divina sul tema Afferrati dalla Parola. «Il primato dell’ascolto–lectio,
che caratterizzerà la comunità dei discepoli di Gesù di Nazareth in tutte le
generazioni future, ha esordito, si fonda in realtà tutto sulla misteriosa e
indispensabile reciprocità fra l’incontro con Gesù risorto e l’incontro con le
Scritture ebraiche». Anzi, non si può accedere in nessun caso né alla
comprensione dell’identità di Gesù Cristo Signore, senza la mediazione delle
Scritture, né alla comprensione delle Scritture, senza la mediazione di Gesù
Cristo Signore. Essere afferrati da Cristo ed essere afferrati dalle Scritture
sono allora l’unica e medesima cosa.
Applicando questi
semplicissimi principi ermeneutici ad un passo del vangelo di Giovanni (1,
35-39), Gargano ha voluto dimostrare come anche solo da questo brano sia
possibile intravedere l’itinerario interiore compiuto dai primi discepoli. Solo
dopo essere stati “preparati” da Giovanni il Battista, si sono potuti
incontrare con Gesù di Nazaret, entrando nella massima intimità possibile con
lui. L’unità dei due Testamenti, ha precisato, «significa che la Parola ci ha
raggiunto pienamente nel Figlio». Una volta “afferrati” dalla Parola profetica,
i discepoli non possono fare a meno di seguire Gesù. La strada maestra per
essere “afferrati” dalla Parola identificata con il Signore risorto, secondo
Gargano è una sola: quella di lasciarsi “prendere per mano” dalle pagine della
Scrittura ispirata.
È quanto ha cercato di
fare, con estrema immediatezza, anche sr. Dolores Aleixandre. Molti dei 120
superiori generali presenti la ricordavano molto bene per la sua suggestiva e
originale interpretazione delle due icone bibliche della samaritana e del buon
samaritano in occasione del congresso internazionale sulla vita consacrata del
2004: Passione per Cristo. Passione per l’umanità.
Questa volta ha
focalizzato la sua attenzione su alcuni personaggi solo tratteggiati da Gesù,
frutto del suo “potente immaginario”. Si tratta di personaggi, ha detto, che
sono arrivati ad esistere «solo perché convocati e creati dalla sua parola». Ne
ha evocati cinque: il portiere (Mc 12,37), il seminatore tranquillo (Mc 4,
27-29), l’amministratore scaltro (Lc 16, 1-8), gli operai dell’ultima ora (Mt
20, 1-32), i bambini che giocavano in piazza (Lc 7, 31-35). Da ognuno di loro
«possiamo imparare come essere e come vivere oggi nella vita consacrata». La
parabola, ad esempio, del seminatore – ribattezzata dalla relatrice Il
seminatore tranquillo – ha qualcosa di importante da dire proprio alla nostra
cultura dell’efficienza, della pianificazione, del rendimento immediato. Oggi
si vuole misurare e controllare tutto. «Siamo soliti essere persone serie,
disciplinate e responsabili nel lavoro e facciamo fatica a trovare la giusta
alternanza tra azione e riposo, sforzo e abbandono».
La maggior parte dei
religiosi è stata formata secondo una certa logica dell’errore e una
sopravvalutazione del lavoro e dell’impegno pastorale. Molto spesso sono in
preda ad una specie di ansia apostolica. «Non abbiamo ancora imparato quando la
situazione richiede di essere vigili e intervenire, e quando l’unica cosa che
possiamo fare è andare a dormire». La straordinaria capacità di Dolores
Aleixandre di dar voce, di far parlare anche i personaggi meno importanti del
Vangelo, nasce con ogni probabilità non solo dalla sua ben nota preparazione biblica,
ma anche dall’esperienza che lei stessa sta attualmente conducendo a Madrid,
insieme a religiose di altri istituti, nell’assistenza di immigrati di
religioni e culture diverse.
LA BIBBIA
IN MANO ALLA GENTE
Anche il terzo
“mistagogo”, il verbita Ludger Feldkämper, ha fatto capire quanto sia
importante la comprensione della Parola proprio a partire spesso dagli
“ultimi”. Ha esordito con una serie di interrogativi: chi è inviato? Solo Gesù
o non anche la Chiesa, le comunità dei consacrati, i singoli individui? Come
dev’essere intesa la Parola? Quale il suo reale contenuto? Inviati solo dalla
Parola o anche dallo Spirito? Inviati dalla Parola o anche per la Parola?
L’invio dalla Parola che cosa significa concretamente per la grande varietà dei
nostri ordini e istituti religiosi? E non solo per gli ordini nella loro
struttura complessiva, ma anche per le singole comunità di consacrati, anzi, si
potrebbe dire, per ogni singolo consacrato?
Non è facile comprendere
il discorso di Feldkämper senza tener conto della sua ferma convinzione che se
il 50% della sua formazione biblica risale agli studi fatti presso il
pontificio istituto biblico di Roma, l’altro 50%, però, l’ha maturato nel suo
impatto concreto e immediato con la gente comune con cui si è sempre trovato a
condividere il pane della Parola.
Dopo aver parlato di
Gesù, il Verbo incarnato, inviato dal Padre (prima parte), della sacra
Scrittura come parola ispirata (seconda parte), il relatore, nella terza parte,
ha affrontato in maniera più diretta il fatto di essere “inviati” dalla Parola.
Grazie al concilio, «tutti i membri della Chiesa hanno assunto un ruolo
interpretativo della Scrittura». La Bibbia in mano alla gente anche di più
bassa estrazione, in mano ai poveri, è stato un grande evento. Se si tiene
presente tutta la storia della Bibbia nella Chiesa cattolica, è fin troppo
facile comprendere come con il concilio si sia verificato qualcosa di
rivoluzionario al riguardo.
I superiori generali si
attendevano, forse, un più diretto ed esplicito riferimento alla vita
consacrata. Feldkämper, invece, ha preferito sviluppare il tema della comunità
della Parola per la Parola in stretto riferimento a tutti i membri della
Chiesa, dal momento che questo non è solo “il tempo della Parola”, ma anche “il
tempo dei laici”. Ha significativamente concluso il suo intervento, però,
evocando brevemente alcune persone (consacrate), quasi tutte da lui stesso
conosciute, che hanno dedicato la loro intera esistenza nel campo
dell’apostolato e del ministero biblico-pastorale. È il caso del carmelitano
brasiliano Carlos Mesters (che, fra l’altro, aveva tenuto una sua magistrale
relazione proprio nell’ultima assemblea USG a Sacrofano nel maggio scorso),
dell’italiano Gabriele Allegra, ofm (che ha trascorso quasi tutta la sua vita
in Cina, non risparmiandosi la fatica di tradurre in cinese tutta la Bibbia),
della religiosa salesiana Maria Ko Ha Fong (nata a Macau e vissuta ad Hong
Kong, dopo aver fatto i suoi studi in teologia, scrittura e patristica in
Europa), della religiosa benedettina Henrietta Sebastian (che dopo aver
abbandonato la professione di dentista, ha dedicato, nelle Filippine, tutta la
sua vita all’apostolato biblico), di un’altra religiosa filippina, Tomasa
Saberon (impegnata nell’introdurre alla comprensione della Bibbia migliaia di
lavoratori domestici emigrati dalle Filippine ad Hong Kong), e, infine, della
religiosa coreana, Maria Cho (considerata da Feldkämper se non proprio un
pioniere, sicuramente uno dei pionieri dell’apostolato-biblico in Corea). Su
sei nomi evocati, ha fatto notare un superiore generale, quattro erano donne e
tutte hanno svolto il loro apostolato nel continente asiatico.
LA TESTIMONIANZA
DELLA COMUNITÀ DI BOSE
Una persuasiva
testimonianza di quanto sia determinante l’ascolto della Parola all’interno di
una comunità monastica è stata quella offerta da Enzo Bianchi, il fondatore
della comunità di Bose. Fin dall’inizio ha tenuto a precisare che con il suo
breve intervento intendeva rendere testimonianza alla Parola e non tanto alla
sua comunità. Da sempre, nella comunità di Bose, l’importanza della parola si
fonda su due certezze, anzitutto che la Scrittura non è direttamente parola di
Dio ma la contiene, e poi che la Chiesa stessa è affidata alla parola del
Signore, il quale la edifica, la plasma giorno dopo giorno.
Nella comunità di Bose,
composta da una ottantina di monaci e di monache, ogni giorno tutti fanno la
lectio, la meditatio e l’oratio sullo stesso testo prescritto dal lezionario.
La lectio varia ovviamente a seconda delle persone, della preparazione
intellettuale e dell’età. Non è mai, però, un approccio puramente intellettuale
alla Parola, ma piuttosto una ricerca spirituale capace di rinnovare ogni
giorno la fede e la vita di chi la pratica.
Attraverso l’assiduità
alle Scritture è possibile cogliere nella parola di Dio, e soprattutto nel
vangelo, “la regola” della comunità di Bose. A distanza di tempo, Enzo Bianchi
sente di poter dire «che ciò che nella nostra vita è più fedele al Vangelo, è
il frutto di questa prassi di lectio divina comunitaria». Per poter cogliere
fino in fondo i frutti spirituali di questo farsi servi della parola è
sicuramente necessario un particolare “carisma profetico”. «È la parola di Dio
nella forza dello Spirito e nella comunione ecclesiale, ha concluso il
fondatore della comunità di Bose, che ha permesso e forgiato tutta la nostra
vita».
Tutti gli interventi
ascoltati in assemblea, nelle intenzioni dell’USG, avevano lo specifico scopo
di una preparazione, neanche troppo remota, al prossimo sinodo episcopale. Da
tempo, nell’apposito sito internet del Vaticano, è disponibile il testo dei
lineamenta il cui unico scopo è quello di avviare una prima riflessione sul
tema del sinodo. Sulla base delle risposte sollecitate dalle numerose domande
presenti in questo documento, verrà poi elaborato l’instrumentum laboris vero e
proprio.
Durante i lavori
dell’assemblea è stato possibile avere una prima risonanza ai contenuti dei
lineamenta. È il frutto di un apposito incontro del consiglio generale dei
verbiti che per carisma sono degli esperti nel campo della Parola nella vita e
nella missione della Chiesa. Questi lineamenta, ha osservato il superiore
generale p. Antonio Pernia, facendosi portavoce di tutto il suo consiglio, a
una prima lettura danno l’impressione di ignorare gli sviluppi della
riflessione biblica e del conseguente apostolato biblico di questi ultimi 40
anni dopo la Dei verbum. Sembra quasi che da allora in poi «non sia successo
nulla». Tra le righe del documento è percepibile una certa riluttanza nel riconoscere
le tante iniziative promosse nel campo dell’apostolato biblico da persone
“normali”, quasi queste ultime non fossero considerate parte viva delle
rispettive Chiese locali. Il documento si presenta eccessivamente “dottrinale e
astratto”, non sufficientemente pastorale e concreto. Manca, in altre parole,
una stretta connessione tra il mondo della parola di Dio e i problemi attuali
dell’umanità. Alcuni aspetti sui quali, durante i lavori del sinodo, andrebbe
posta una particolare attenzione, sono quelli relativi ai rapporti tra la
parola di Dio da una parte e l’Eucaristia, la preghiera cristiana, l’omelia, la
formazione sacerdotale, l’esegesi e la teologia, la vita dei credenti, gli
altri metodi di condivisione della Bibbia, il dialogo interreligioso
dall’altra. Se i poveri, osservano i verbiti in conclusione, «occupano il primo
posto nella parola di Dio», allora dovrebbero essere sempre i poveri i
destinatari di un messaggio di consolazione e di speranza da parte del sinodo.
I superiori generali si ritroveranno
a fine maggio per la loro prossima assemblea semestrale. Anche se si
incontreranno a pochi mesi di distanza dal sinodo dei vescovi, affronteranno un
tema molto diverso e oggi tra i più problematici nella vita consacrata, quello
del rapporto autorità-obbedienza. La scelta è imposta dal fatto della ormai
imminente pubblicazione, da parte del dicastero vaticano sulla vita consacrata,
di una sua istruzione su questo specifico argomento. I superiori generali, in
occasione della loro assemblea, si confronteranno sul tema
dell’autorità-obbedienza, per una giornata intera, anche con una rappresentanza
di superiore generali. Sarà quella, sicuramente, una straordinaria occasione
per mettere in pratica quanto ascoltato in questi giorni e verificare insieme
quanto la Parola illumini la vita e la missione dei consacrati proprio a
partire da un rinnovato rapporto tra autorità e obbedienza.
Angelo Arrighini
CAPITOLO GENERALE DEI
SERVI DI MARIA
QUALE POVERTÀ OGGI?
Il Capitolo non si è limitato a trattare la povertà
come elemento fondamentale per la vita religiosa dei Servi, ma ha allargato lo
sguardo alle necessità del mondo di oggi, afflitto da varie forme di povertà ed
ha impegnato tutto l’Ordine a operare per combatterle.
Servi di Maria hanno
celebrato, nei giorni 8-30 ottobre 2007, ospiti nella casa Divin Maestro ad
Ariccia, il 212° Capitolo generale sul tema
Il tema, disegnato come
cornice delle finalità capitolari, echeggiava Lc 5,11, ossia l’opzione dei
discepoli di Gesù, i quali “lasciarono tutto e lo seguirono”. Quella sequela
veniva resa visibile nella povertà evangelica, connotato irrinunciabile
dell’identità di un Ordine religioso sin dalle origini di fatto collocato nella
tipologia dei Mendicanti. L’attualità sfida con la domanda: quale povertà oggi.
Il Capitolo generale ha cercato di non evadere quella istanza. L’assemblea è
stata sollecitata, oltre che dalle relazioni di base in agenda e dal dialogo assembleare,
anche ascoltando due lezioni di fra Giancarlo M. Bruni sulla icona di Abramo in
Genesi 12,1-4a e sulla sequela “con il Cristo poveri con i poveri”.
AMBITI
DELLA POVERTÀ
L’introduzione ai
documenti capitolari delinea le ispirazioni per pensare e testimoniare la
povertà evangelica oggi interpretando i segni dei tempi e dei luoghi. La
povertà, si afferma, è una modalità per la sequela di Cristo, resa visibile
nella conversione, la quale «non può essere solo frutto di buona volontà ma
dono e grazia da chiedere sempre e poi da ravvivare con la contemplazione, la
familiarità con la parola di Dio, le scelte di vita». Le visibilità rimarcate
sono la comunione dei beni nella fraternità conventuale, ma anche oltre le mura
di essa, ossia la solidarietà verso i poveri, verso i «mille volti di una
umanità ferita che reclama rispetto, diritto di vivere e di partecipare alla
costruzione di una terra nuova, più giusta e fraterna». Il servizio impegna
anche a favorire il superamento delle molteplici situazioni di povertà o
impoverimento, come sono il degrado ecologico, le privazioni di giustizia e di
pace, la ricerca affannosa di ricchezza.
Il Capitolo convoca alla
testimonianza di povertà e al servizio generoso verso poveri e povertà l’intera
Famiglia servitana. Questa espressione allude alla condivisione della medesima
spiritualità, ossia fraternità servizio e ispirazione mariana, da parte dei
frati e delle religiose, degli istituti e delle fraternità secolari. «La
povertà evangelica e il servizio al povero sono uno stile e un segno che
accomunano la Famiglia servitana. La comune ispirazione a Maria infonde un
peculiare amore nel servizio al povero. Dalla partecipazione della Madre alla
missione redentrice del Figlio, i Servi e le Serve di Maria sono indotti a comprendere
le umane sofferenze; con lei sostano ai piedi delle infinite croci per recarvi
conforto e cooperazione redentrice».
Il Capitolo generale non
si è limitato a trattare la povertà come elemento fondamentale per la vita
religiosa dei Servi, ma ha allargato lo sguardo alle necessità del mondo di
oggi, afflitto da varie forme di povertà ed ha impegnato tutto l’Ordine a
operare per combattere tutte le forme di povertà. Nella dichiarazione finale è
stato detto:
«Abbiamo scelto la
povertà per superare le molte barriere che ancora dividono l’uomo dall’uomo,
feriti dall’ascolto dell’immenso pianto del mondo: senza passione per l’uomo
non c’è povertà. Dalla comunità la nostra fraternità si espande guidata da un
sogno di alleanza con tutto ciò che vive sotto il sole.
La comunità che include i
poveri come eredità lasciatale dal Signore, che ordina concretamente i propri
beni al loro aiuto (Cost. 62, 289/c) può dire al mondo, con la propria vita,
che il bene non sta nel maggior profitto ma in una comunione che si estende;
che la verità della storia non è la crescita economica ma la fine delle
barriere. L’altro nome di povertà è solidarietà.
Cristo, da ricco che era
si fece povero (2 Cor 8, 9). Il povero è il luogo teologico dove la storia
sacra accade e ci raggiunge. L’umanità è il luogo dove Dio ancora si incarna,
dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli (Cost. 319). Lui ha tracciato
la strada, ma noi abbiamo seguito altre vie.
Il Capitolo è grato ai
fratelli che, poveri con i poveri, mettono la vita al loro servizio, e li
benedice. Ma sente anche che l’impegno di alcuni non gli basta; sente, con
tristezza, di aver mancato al suo voto. Sente che ora è il tempo per il
cambiamento del cuore.
Per questo, a nome
dell’Ordine intero, il Capitolo dei Servi chiede oggi perdono a Dio e ai poveri
per aver ignorato le loro voci; per aver taciuto quando era necessario alzare
la voce in loro difesa; per non averli neppure visti quando, come il povero
Lazzaro, sedevano alle porte delle nostre case, della casa grande che è il
mondo, a mendicare pane e fraternità; chiede perdono ai poveri per la carità
senza amore e senza giustizia».
LANCIATI
DUE TIPI DI ALLEANZA
E, dopo aver chiesto
perdono, il Capitolo ha lanciato due tipi di alleanza, perché la vita religiosa
sia un impegno a favore degli uomini del nostro tempo.
«Il Capitolo – si afferma
nel documento finale – ha fatto spesso riferimento al fenomeno mondiale della
povertà economica e ai meccanismi di ingiustizia che producono una sempre
maggiore separazione tra ricchi e poveri. Dichiariamo inaccettabile questo
crescente divario.
Le parole di papa Paolo
VI 40 anni fa nella Populorum progressio (26 marzo 1967) rimangono tuttora
valide: costruiamo una comunità umana dove le persone possano godere una vita
veramente umana… dove Lazzaro possa sedersi a tavola al medesimo banchetto del
ricco (n. 47). Le sofferenze dei nostri fratelli e sorelle attraverso il mondo
ci raggiungono.
Sono volti di popoli in
guerra; volti di bambini, vittime di violenza, fame, abusi, abbandono; volti di
donne, violate, comprate e vendute; volti di popoli indigeni, espropriati per
secoli di terra, cultura e fede; volti di esiliati e di migranti, alla ricerca
di sopravvivenza e dignità; volti di carcerati, che affollano le infinite
carceri del mondo; volti di ammalati, manifesto della nostra precarietà, ma
vittime spesso di interessi ciechi, di epidemie, della tremenda piaga
dell’AIDS. Volti di lavoratori precari e senza garanzia, privati della speranza
di futuro. Volti di bambini non nati.
E mille altri volti di
una umanità ferita che reclama rispetto, diritto di vivere e di partecipare
alla costruzione di una terra nuova, più giusta e fraterna. A questi volti e al
loro grido dobbiamo in qualche modo rispondere».
E infine, riflettendo
sulla povertà, si è capito che la vita religiosa deve oggi trovare anche una
“alleanza con il creato”. Per questo i capitolari si sono chiesti: «Come
dobbiamo rispondere alla gravissima aggressione che la terra stessa subisce
attraverso lo sfruttamento selvaggio delle risorse del pianeta, e che rischia
di compromettere l’esistenza stessa dell’umanità? Una ricerca affannosa di
ricchezza sta generando un rischio di morte per l’intero pianeta. Esempio
doloroso di questo squilibrio sono il riscaldamento globale, l’inquinamento, la
privatizzazione dell’acqua, lo spreco, la distruzione della Foresta Amazzonica.
I nostri primi Padri,
nella solitudine del Senario, coltivavano rispetto per la natura e devozione
verso il creato come dono di Dio (cf. L.O. 41). Anche oggi alcuni Servi
promuovono la responsabilità ecologica, altri difendono attivamente le risorse
della terra, ma insieme a loro tutte le comunità devono crescere nell’amore e
nel rispetto del creato, ponendo particolare attenzione alla sobrietà dello
stile di vita, all’uso consapevole di acqua e di energia, alla testimonianza
contro il consumismo».
IL NUOVO
GOVERNO GENERALE
I vari altri argomenti in
agenda sono stati delineati nella cornice della povertà. «L’organizzazione
dell’Ordine non è un mero strumento giuridico, ma un mezzo per favorire il bene
comune, facilitare la comunione fra tutti e prestare una attenzione particolare
ai fratelli che vivono nelle strettezze del bisogno». Anche il campo della
amministrazione finanziaria è solcato da intendimenti di servizio: «siamo
chiamati a usare nel modo più proficuo i nostri beni aiutandoci gli uni gli
altri a rispondere alle esigenze ministeriali e ai bisogni umani del nostro
mondo e a provvedere prudentemente per il futuro». La povertà evangelica e le
visibilità peculiari secondo tradizione e incarnazioni nella attualità con
l’ottica dei segni dei tempi e dei luoghi, si configurano come uno stile che
diviene mentalità tramite una solida formazione, a cominciare da quella
iniziale, «nell’intento di confermare o suscitare nell’Ordine valori e
decisioni che nascano dal necessario confronto tra la povertà evangelica e le
sfide concrete che la Chiesa e il mondo contemporaneo indicano e sollecitano
per viverla autenticamente».
Un’incombenza primaria
erano le elezioni del governo centrale. È stato confermato nel servizio di
priore generale fra Angel M. Ruiz Garnica, messicano cinquantenne. Il consiglio
generalizio, del tutto rinnovato, è composto dai frati Eugene M. Smith
statunitense, Reth M Sarabia filippino, Gino M. Leonardi modenese, Charlie M.
Leitao De Souza brasiliano.
La “salita dei Sette
Santi Fondatori a Monte Senario”, affresco dell’Annigoni, era il logo
iconografico del Capitolo. Il priore generale ha sovente invitato a tornare
“alle fonti della nostra vocazione, per riprendere energia, gioia e speranza”,
a camminare “insieme per la vita, al servizio di quanti il Signore porrà sul
nostro cammino quotidiano, con cuore grande e compassionevole, assieme a santa
Maria e ai nostri Sette Santi Fondatori”.
Lino M. Pacchin _e Umberto Omnibus
MARIANNA NASI E IL
COTTOLENGO
IL PROFUMO DELLA CARITÀ
Nel suo carisma sono fuse le due anime
cottolenghine: quella contemplativa e quella attiva. È doveroso riconoscere
Marianna Nasi quale “cofondatrice” delle Suore di san Giuseppe Cottolengo. Una
figura che comincia ora a uscire dall’ombra.
Marianna Nasi è stata
definita “prima suora e prima delle suore della Piccola Casa” del Cottolengo di
Torino. Sono trascorsi 175 anni dalla sua morte, avvenuta il 15 novembre 1832 a
soli 41 anni. Si spense tra le braccia del Cottolengo, il quale, come risulta
da una testimonianza, affranto dal dolore, esclamò: «Povero me! una famiglia
all’abbandono, tante figlie senza Madre! Ma fu un momento e sull’istante
riavutosi, soggiunse: Il Signore tanto buono provvederà».1
Ora la sua figura ha
cominciato a uscire dall’ombra in cui è rimasta avvolta per tanto tempo, per
iniziativa soprattutto delle suore di san Giuseppe Benedetto Cottolengo, di cui
era stata la prima Madre.
L’INCONTRO
CON IL COTTOLENGO
Marianna Nasi, di
famiglia, si chiamava in realtà Anna Maria Pullino. Solo dopo il matrimonio
prese il cognome del marito, Carlo Nasi. Era nata a Torino il 6 luglio 1791,
figlia unica dei coniugi Antonio Pullino e Francesca Demateis. Di ceto
medio-borghese, riceve un’educazione consona alla sua posizione sociale: sa
leggere, scrivere, computare, è brava nel ricamo e nel cucito ma soprattutto è
una giovane di profonda religiosità. Desidera consacrarsi a Dio ma i suoi
genitori le consigliano il matrimonio e il 4 luglio 1812 sposa Carlo Nasi,
un’ottima persona, onesta e religiosa, capace di dedicare il suo tempo libero
alla cura dei malati negli ospedali di Torino.
Carlo e Marianna aprono
un negozio di chincaglieria. La loro vita scorre serena. Dal loro amore nascono
due figli maschi, ma il primo morì appena battezzato; l’altro, Giovanni, aveva
appena due anni quando il 25 febbraio 1817 Carlo muore a soli 25 anni, di tifo.
Da questo momento, Marianna si divide tra il negozio, la cura del figlio e dei
genitori, la preghiera, le opere di carità.
Nel suo cuore è però vivo
il desiderio di consacrarsi al Signore. Nel 1818 conosce Giuseppe Cottolengo
che nominato canonico del Corpus Domini, vi si trasferisce da Bra, sua città
natale e diviene sua penitente, figlia spirituale, amica, anche di famiglia.
Nel 1827 Giuseppe
Cottolengo inizia la sua avventura di carità verso i poveri più bisognosi,
aprendo nel distretto della parrocchia un piccolo ospedale chiamato
popolarmente “Deposito della Volta rossa”, dal nome del cortile in cui le
stanze si trovano. Si tratta di pochi locali dove ospita i bisognosi rifiutati
dagli altri ospedali.
Marianna è la prima e più
coinvolta Dama della Carità. Ben presto le Dame, gruppo di laiche impegnate,
non bastano più per soddisfare i bisogni dei poveri.
Nel 1830 viene abbozzata
quella che sarà la famiglia religiosa delle suore, che nel suo primo sorgere
sarà denominata: “Figlie della Carità sotto gli auspici di San Vincenzo de’
Paoli”. Il Cottolengo ha infatti come suo modello e patrono il noto santo
francese.
Il gruppo delle ragazze è
guidato e diretto da Marianna Nasi, che ne diventa la Madre.
Che tipo di donna è
Marianna? A descriverla con poche pennellate è lo stesso figlio Giovanni. «La
mia madre era dolce, pacifica, non conosceva parole pungenti; essa era sempre
tranquilla, essa era di un’aria sempre composta».2
Questo suo equilibrio,
questo suo restare uguale a se stessa, sarà un atteggiamento di tutta la vita,
a cui unisce l’amore alla vita nascosta: «Non era amante del comparire, non dei
divertimenti e delle compagnie chiassose».
Non è però una persona
introversa; riservata sì, ma cordiale e amabile, disinvolta: è una donna che sa
stare da sola, che cerca il raccoglimento, ma è anche una persona che sa stare
in compagnia anche se tende a selezionare molto le sue amicizie, circondandosi
di persone con una sensibilità religiosa simile alla sua.
DOPPIAMENTE
“MADRE”
Negli anni dopo la morte
di Carlo, Marianna è soprattutto mamma attentissima che circonda il piccolo
Giovanni delle cure più tenere, lo educa con profonda finezza pedagogica. Più
volte egli sottolinea come la mamma non lo obbligasse mai a entrare in una
chiesa o a pregare contro la sua volontà, perché voleva che la sua preghiera
fosse sincera. È Marianna stessa a prepararlo alla prima comunione e alla
cresima. Gli insegna a non domandare mai nella preghiera grazie per cose
temporali: per questo basta un Padre nostro; piuttosto lo invita caldamente a
chiedere la grazia di farsi buono e santo.
Non lo punisce se non è
veramente necessario. Giovanni ricorda due episodi in cui dimenticò di spegnere
la fiamma della candela. Fortuna che sua madre aveva la stanza a fianco della
sua e l’abitudine di andare a vederlo prima di coricarsi! Giovanni rischiava di
morire, e non lui solo; Marianna riesce a estinguere la fiamma senza nemmeno
svegliarlo. Non si spazientisce, benché in questi casi ne avrebbe avuto tutte
le ragioni. L’unica cosa che si sente di dirgli la mattina è di ringraziare il
Signore. «Al mattino mi disse in tono dolce: vedi Giovanni che bella grazia hai
ricevuto dal Signore; e più non mi disse. Io non ho mai visto mia madre a
essere in collera o con me o con altri».
Negli anni in cui è
vedova, Marianna vive il suo martirio del cuore. Riaffiora sempre più forte il
desiderio di consacrarsi a Dio. Il Signore mette sulla sua strada il canonico
Cottolengo. Inizia un cammino da lui accompagnata e scopre il dono di Dio:
essere madre dei poveri. Con delicata attenzione chiede a Giovanni il permesso
di dedicarsi interamente alle opere di carità, disposta anche a rinunciarvi
davanti a un suo rifiuto. Giovanni acconsente.
Nel 1830 la vita di
Marianna subisce la svolta decisiva: si consacra a Dio nel servizio dei poveri
e diviene Madre delle prime Figlie della Carità che andranno a vivere nella sua
casa.
MODELLO
DI CARITÀ
La signora Nasi, si
trasferisce nelle vicinanze del “Deposito”, proprio per prendersi cura delle
Figlie; è l’estate del 1830.3 Queste giovani sono poste sotto la sua direzione
e Marianna è da loro chiamata comunemente la Madre. La sua responsabilità nei
confronti delle Figlie ha le caratteristiche di una “autorità” reale, da tutte
riconosciuta. Affiancata dal Cottolengo, non sarà però sua mera controfigura.
Il Cottolengo ha grande
fiducia in lei, apprezza il suo fine intuito, in modo particolare per quel che
riguarda il discernimento delle vocazioni. Non accetta infatti nessuna giovane
senza aver avuto prima il suo giudizio a riguardo.
È soprattutto la
formatrice delle Figlie; possiamo tentare di delineare quale genere di formazione
Madre Nasi desse loro?
Condivide prima di tutto
la loro vita quotidiana. «Non era possibile vedere in lei il contegno da
superiora, ricorda Giovanni. Era una figlia tra le figlie, una sorella fra gli
ammalati e le ammalate… faceva, come io la vedeva a fare, i più bassi servigi,
essa scopava, preparava la tavola».
Sr Arcangela ci informa
che le Figlie venivano da lei istruite: «nei lavori donneschi (femminili), nel
leggere, nel catechismo, e sul modo di assistere i malati».
La sua formazione
comprendeva quindi l’aspetto pratico: assistenza ai malati e lavori femminili,
ma anche la formazione culturale di base: il leggere, e quella religiosa: il
catechismo.
La Madre era per le
giovani soprattutto un modello nell’esercizio della carità verso i poveri, come
ci dice suor Pia che tante volte lo aveva sentito raccontare dalle prime
figlie. «Mi ricordo d’aver sentito tante volte quelle prime figlie (che furono
poi suore Vincenzine) a parlare della somma carità che aveva la signora Nasi».
Formazione pratica, culturale,
religiosa, esempio di vita… ma non è tutto: altro aspetto fondamentale è la
formazione spirituale. «Lo spirito poi, con cui questa pietosa cercava
informarle […] era questo: consacrazione del loro cuore a Gesù Cristo,
specialmente Sacramentato; esercizio di preghiera in casa, e pratiche di carità
d’ogni maniera intorno agli infermi».
Quindi, consacrazione del
loro cuore, della loro persona a Gesù Cristo, come vere spose. Consacrazione
che trova la sua massima espressione nel duplice precetto dell’amore. Amore a
Dio, a Gesù nella preghiera, soprattutto con l’adorazione e le pratiche di
pietà tipiche del tempo.
Amore al prossimo,
particolarmente nel servizio di carità verso i poveri più abbandonati, nei
quali, come insegnava il Cottolengo, le Figlie dovevano vedere Gesù stesso.
Si trattava perciò di una
formazione completa, che teneva conto di tutte le dimensioni della persona
umana: quella spirituale, profondamente radicata nell’amore per Cristo, e
quella delle opere, in cui questo amore per Cristo, coltivato nella preghiera,
si faceva servizio al prossimo nella carità, coinvolgendo ed educando tutta la
costellazione delle virtù umane che rendono la persona accogliente e
affettuosa, segno dell’attenzione sollecita di Dio sotto forma di quell’amore
materno che deve plasmare il cuore e gli atteggiamenti di una donna consacrata.
Di tutto questo Madre Nasi si offriva come modello visibile e quotidiano
davanti agli occhi delle sue figlie: madre per loro e per i poveri. È donna
discreta e prudente, la sua condotta non suscita pettegolezzi. «Era donna di
molta orazione, di soda pietà e di esemplarissima condotta».
GRANDE AMORE
ALL’EUCARISITIA
C’è un aspetto rilevante
della vita spirituale di Marianna Nasi che merita di essere messo
particolamente in risalto: il suo amore all’Eucaristia.
Normalmente assiste alla
messa, assorta in profonda meditazione. Giovanni racconta: «Riguardo al SS.
Sacramento essa nutriva profonda divozione e grande amore. Sentendo la santa
messa, la vidi, essendo con lei, raccolta, anzi assorta, facendo spesso
meditazione piuttostoché lettura su un libro di divozione».
Il suo amore per
l’Eucaristia, il suo profondo raccoglimento durante la messa erano una
catechesi esperienziale per il piccolo Giovanni. Marianna non si limitava però
all’esempio, educava il figlio a ricevere con amore Gesù nell’Eucaristia. «Mi
ricordo che per tutte le volte che mi accostava alla Santa Mensa, essa si
infiammava nel parlarmi dell’Eucaristia e nell’eccitarmi a ricevere Gesù nel
mio cuore».
Questo stesso fervore lo
comunicava anche alle prime Figlie della carità di cui era formatrice. «In ogni
occasione che le si offrisse la faceva da missionaria per infiammar nella
divozione al ss. Sacramento tutte quante le persone che l’avvicinavano, e
specialmente le dilette sue figlie spirituali, le suore».
«Per quanto poteva – dice
Giovanni – essa faceva visite al SS. mo Sacramento». Egli ricorda le lunghe
passeggiate in campagna insieme alla mamma dopo la benedizione festiva nella
chiesa del Corpus Domini, durante le quali, passando accanto ad alcune chiese,
vi entravano facendovi una breve preghiera.
Marianna Nasi,
soprattutto dopo la morte del marito «vedevasi in chiesa ad adorarvi il suo
sacramentato Signore, …se non era adoratrice di nome lo era di fatto in spirito
e verità».
Durante la solenne
esposizione nelle Quarantore «era per tutti i tre giorni sempre in chiesa,
tolto il tempo del mangiare. Questo vidi io stesso – conferma il figlio
accompagnandola qualche volta».
Marianna Nasi è
un’innamorata dell’Eucaristia, questo suo amore al sacramento dell’altare altro
non è che una delle più alte espressioni della sua profonda vita di preghiera e
di unione con il Signore.
Scrive a ragione la
teologa Adele Colombo: «Marianna Nasi emerge come colei che ha vissuto una vita
pienamente evangelica, fondata sulla relazione di amore con il Signore che, in
tal modo, ha motivato e sostenuto il suo amore per il prossimo più emarginato.
Il suo carisma è stato quello di sintetizzare le due anime cottolenghine:
quella contemplativa e quella attiva. Pertanto è doveroso riconoscere Marianna
Nasi quale “cofondatrice”». Due anime che oggi si incarnano nelle due famiglie
del nostro Istituto, quella di vita apostolica e quella di vita contemplativa
che in lei trovano la radice da cui continuano ad attingere linfa per incarnare
nell’oggi il carisma cottolenghino.
Maria Lara Broggi
1L. Anglesio, PO,
Sessione CCCCXCV, vol. 9, int. 17, p. 463.
2Deposizione del cav.
Giovanni Nasi…, in Antonio Pellegrino (a cura di), Madre Marianna Nasi, memorie
storiche edificanti, Pinerolo 1964, p. 150.
3Cf. L. Piano, San
Giuseppe Benedetto Cottolengo…, p. 214. Le prime ragazze, secondo la versione
di suor Clara (cf. p. 62), furono accolte il 25 novembre di quello stesso anno.
È plausibile pensare, come spiega L. Piano, che non si tratti di due versioni
divergenti riguardo la data di fondazione del gruppo delle Figlie, ma che il
Cottolengo abbia voluto premettere alcuni mesi di prova prima di dare avvio
formale alla comunità. Cf. Ibid., p. 215.
ATEISMO DI RITORNO (3)
RAGIONI PER CREDERE
Rimaniamo dell’opinione che un ateismo vero e
proprio non esiste, che l’ateo non è che un panteista, il quale attribuisce
alla materia tutti quanti gli attributi di Dio. Una convinzione, questa, fatta
propria da non pochi scienziati e filosofi.
Quanto è stato detto in
precedenza1 va completato con una trattazione diretta dell’esistenza di Dio,
anche se rimane vero che il problema dell’esistenza è preceduto dal problema
della natura. Molte volte si nega un Dio che non ha riscontro nella realtà.
Noi, nelle nostre riflessioni, dobbiamo tendere a presentare, come ci è
possibile, il Dio di Gesù Cristo: una fede che ci distanzia dalle altre
credenze, in qualche modo anche dalle credenze del Primo Testamento.
Per non ripeterci,
prendiamo in esame a questo proposito le due ultime opere che abbiamo citato
all’inizio. Il libro di Richard Dawkins, che porta come sottotitolo la dizione
Le ragioni per non credere, discute abbastanza seriamente gli argomenti a
favore dell’esistenza di Dio. Si passano in rassegna le cinque vie di san
Tommaso, l’argomento ontologico (che tanto inchiostro ha fatto versare nel
corso dei secoli), altri argomenti fra cui anche quello dell’esperienza
personale e, per finire, la famosa scommessa di Pascal (in fin dei conti, afferma
il pensatore francese, se Dio non esiste non ci rimetti niente). Evidentemente
nessuno di questi argomenti è accettato come valido, secondo le premesse e le
promesse, dall’autore. Con una certa sorpresa però il capitolo susseguente,
quello formalmente dedicato alla non esistenza di Dio, è intitolato Perché è
quasi certo che Dio non esiste. Un capitolo condotto soprattutto secondo gli
schemi dell’evoluzionismo di tipo darwiniano, con il richiamo della selezione
naturale e delle stesse leggi del caso.
ANDANDO
A TENTONI
Significativo l’esempio
discusso all’inizio: quello del Super-Boeing 747. Un argomento forte dei
teisti, che non riescono a spiegare come un simile mostro, tanto complesso e
tanto sofisticato in certe sue parti, sia venuto fuori a caso. Ragionamenti,
quelli dell’autore, che non riescono a convincere il lettore minimamente
informato: «Una profonda comprensione del darwinismo ci insegna a non presumere
con troppa faciloneria che il progetto sia l’unica alternativa al caso, e a
cercare rampe graduali di complessità crescente. Prima di Darwin, filosofi come
Hume capirono che l’improbabilità della vita non implicava necessariamente un
progetto preliminare, ma non riuscivano a immaginare l’alternativa. Dopo
Darwin, tutti dovremmo sentire un’istintiva diffidenza per l’idea stessa di
progetto. È una trappola in cui siamo già cascati in passato e Darwin dovrebbe
averci immunizzato, risvegliando la coscienza. Peccato che non sia riuscito a
risvegliarla a tutti».
Gli intrappolati
continuano imperterriti a pensare che solo un evoluzionismo teistico e
finalistico è possibile e che l’evoluzionismo ateo, senza direzione e senza
scopo, pecca insieme contro i principi della ragione e contro gli stessi dati
dell’esperienza. Un occhio vivente, un semplice occhio, è moto, infinitamente
più complesso di un Boeing più o meno grande. In più si dà il caso che l’occhio
vede, una capacità che oltrepassa la pur complessa composizione di questa
piccola parte dell’organismo umano.
Andando più avanti, la
questione si complica sempre di più. Senza colpo ferire, il caso è capace di
produrre l’armonia dell’universo e delle sue parti, dove fin da principio sono
iscritte e reperibili leggi ferree, chiare impronte di una ragione creante e
preveniente? Ma poi questa materia iniziale, amorfa e senza qualità, in cosa
esattamente consiste se è capace di produrre spontaneamente, in progressione,
la vita vegetativa, quella sensitiva e, soprattutto, quella razionale? Il meno
può produrre da solo il più? È inutile che lo scienziato ci ripeta che la
soluzione di Dio è troppo semplice per quietare la sua insaziabile fame di
ricerca. Dio non è l’oggetto della ricerca scientifica e lo scienziato fa bene
a prescindere dalla sua esistenza per ricercare fino in fondo la soluzione
naturale dei suoi problemi. Ma lo scienziato è anche uomo, è anche “filosofo”,
è anche essere razionale, e per questo può essere chiamato a divenire anche
credente. La ragione non esaurisce la sua funzione nella scienza, ma la
oltrepassa essendo capace di contemplare l’essere in tutta la sua estensione.
Tutto sommato, si capisce perché il nostro autore intitoli il capitolo in
questione con una affermazione insieme umile e incerta: Perché è quasi certo
che Dio non esiste.
OLTRE IL TEISMO:
IL MATERIALISMO PANTEISTA
Alla resa dei conti,
l’alternativa al teismo è il materialismo panteistico, tipo quello espresso da
Baruch Spinoza con la nota espressione Deus sive natura, una identificazione
che sposta semplicemente gli elementi del problema. Rimaniamo dell’opinione che
un ateismo vero e proprio non esiste, che l’ateo non è che un panteista, il
quale attribuisce alla materia tutti quanti gli attributi di Dio. Una
convinzione, questa, fatta propria da non pochi scienziati e filosofi. Anche
Albert Einstein, che pure affermava che Dio non gioca a dadi, apparteneva a
questa categoria.
Nel libro prima
ricordato, André Compte-Sponville afferma: quello che Spinoza chiama Dio, non è
il buon Dio, «non è che la Natura… che non è un soggetto e non persegue alcuno
scopo. A che pro rivolgerle preghiere, visto che lei non ci ascolta? Come
obbedirle, se lei non ci chiede nulla? Perché affidarci a lei, che non si
interessa per nulla di noi? E cosa resta allora della fede?». Gli idoli al
posto di Dio, gli idoli che per il salmista hanno occhi ma non vedono, orecchi
ma non ascoltano, mani ma non palpano. Il rischio già previsto dal Salmo è che
coloro che li hanno fabbricati diventino simili a loro.
Se anche il credente è,
almeno in certe circostanze, attraversato da dubbi e incertezze, il non credente
non sta affatto meglio. Le sue convinzioni devono essere continuamente
sottoposte allo sforzo di una tenace volontà perché non vengano meno. È quanto
affermava lo scrittore cattolico François Mauriac dopo aver ascoltato o letto i
ragionamenti del grande fautore del caso che risponde al nome di Jacques Monod
(il quale riporta la frase nel suo libro fondamentale Il caso e la necessità):
“Quanto dice questo professore è ancora più incredibile di quel che crediamo
noi poveri cristiani” (p. 185).
Più volte, parlando a
questi autori, ho detto loro di andarci piano coi loro argomenti, di procedere
con molta cautela e molta circospezione, di usare comprensione e delicatezza
nel proporre le loro conclusioni. Nel caso che essi riescano a convincere
qualche credente e a portarlo alle loro posizioni, non hanno il diritto di
cantare vittoria. In realtà, più che vincere, essi hanno aumentato il numero
dei disperati, come ha detto chiaramente il citato J. Monod, il quale afferma
senza mezzi termini che chi ascolta e fa proprio il suo messaggio, “come uno
zingaro, si trova ai margini dell’universo in cui deve vivere. Universo sordo
alla sua musica, indifferente alle sue speranze, alle sue sofferenze, ai suoi
crimini” (p. 185). Veramente una ben magra consolazione. Parole forse più
sincere, senz’altro più forti, di quelle prima ricordate di Camus. È
impossibile immaginarci Sisifo felice.
PERCHÉ L’ESSERE
E NON IL NULLA?
Una domanda che più volte
è risuonata nel corso della storia del pensiero. L’occasione di riprenderla in
considerazione ce l’ha data un altro laico non credente, ma onesto e sincero,
Norberto Bobbio, il grande politologo torinese, morto da pochi anni. Così egli
scriveva nella rivista Micromega 2/ 2000, un numero sostanzialmente dedicato ai
problemi religiosi: «Cos’è il cosmo? Cosa sappiamo del cosmo? Come e perché il
passaggio dal nulla all’essere? È una domanda tradizionale, ma io non ho la
risposta: perché l’essere e non piuttosto il nulla? Io non mi sono mai nascosto
di non avere una risposta, e non so chi sappia darla a questa domanda ultima,
se non la fede. Secondo Severino l’essere è infinito, l’essere c’è. Ma non è
che così siamo in grado di capire cosa c’era prima. È impossibile. E di fronte
alle domande cui è impossibile dare una risposta – perché di questo sono certo:
non posso dare una risposta, benché appartenga ad una umanità che ha realizzato
progressi enormi – mi sento un piccolo granello di sabbia in questo universo. E
negare che la domanda abbia senso, come potrebbe fare una certa filosofia
analitica, mi pare un gioco di parole» (p. 8).
Una rassegnazione nobile,
ma forse non giustificata. Possiamo aiutare il vecchio professore anche
riandando con la mente almeno alla prima formulazione della domanda. Essa
appartiene a Leibniz, uno dei grandi filosofi dell’illuminismo europeo, il
tenace assertore del principio di ragion sufficiente. La risposta alla domanda
da lui considerata fondamentale e così formulata: «Perché è in generale l’ente
e non piuttosto il niente», è già implicita nell’affermazione del suddetto
principio: la ragione ultima della realtà è l’Essere assoluto, cioè Dio. Se
esiste qualcosa, e di fatto esiste, la spiegazione non può che rimandare a
Colui che ha potuto trarre le cose dal nulla. L’essere postula l’Essere.
Anche Schelling e
Heidegger, da un punto di vista diverso, si porranno la stessa domanda,
naturalmente variando anche la risposta. Ma c’è un autore contemporaneo che in
un’opera originalissima, ma sostanzialmente seria (anche se non dovesse
rispecchiare, come sembra, almeno del tutto il suo pensiero), che riprende
l’antica questione con linguaggio fresco e attuale. È l’accademico francese
Jean d’Ormesson, recentissimo autore del libro La creazione del mondo (Spirali,
2007), presentato nell’estate scorsa dal Corriere della sera col titolo più
accattivante E Dio creò il big bang. A p. 81 c’è registrato questo dialogo (il
libro è di per sé un racconto, un romanzo vero e proprio): «Mentre formulavo
questa risposta che traduceva abbastanza bene ciò che provavo e in cui mi ritrovavo
interamente, mi tornava piano piano in mente una domanda che avevo letto da
qualche parte e che mi era molto piaciuta. Parlai a voce altissima: – Signore,
perché c’è qualcosa piuttosto che niente? – Ah! Ecco l’ombra di Heidegger e
l’ombra di Leibniz: Cur aliquid potius nihil? Benvenuta nel club! – mormorò
André. Finsi di non avere sentito e continuai la lettura che andava verso la
fine. Ci fu un gran silenzio. Poi la voce risuonò: - Perché l’est e l’ovest e
il nord e il sud, perché l’immenso e il minuscolo, il delizioso e l’atroce,
l’inizio e la fine e tutto il divenire tra loro celebrino la gloria di Dio».
Perché, perché? La
domanda che assillava Bobbio è la domanda fondamentale della vita. Anche
Comte-Sponville avverte la stessa urgenza: «Che un essere ci sia, è fuori
discussione. E che questo essere sia necessario, sono portato a pensarlo
anch’io. È il lato spinoziano. Il mondo avrebbe potuto non essere? Certamente,
ma solo nella nostra immaginazione” (p. 75). Dinanzi alla concreta realtà,
dinanzi alla forza dell’evidenza, la domanda è destinata a rinascere, a
inquietare, a turbare i sonni della notte e i pensieri del giorno. Oppure si
preferisce la soluzione di Giosuè Carducci: «Meglio oprando obliar senza
indagarlo/ questo enorme mister dell’universo»? La rinuncia al perché
fondamentale della vita è la rinuncia alla ragione.
SE DIO C’È
DA DOVE VIENE IL MALE?
Si Deus est, unde
malum? Il problema del male sembra
diventato oggi la causa fondamentale dell’ateismo, la sua “roccia”, è stato
detto. Non ci torneremmo sopra se non ci fosse un richiamo suggestivo
nell’ultimo libro da noi considerato. Se Dio esiste, perché c’è il male? Il
male in tutta la sua profondità e in tutta la sua estensione: il male fisico e
il male morale, il male personale e il male sociale, il male oggetto di
constatazione e il cosiddetto male metafisico, che è l’imperfezione congenita
di tutti gli esseri creati, compreso l’uomo.
Il terribile dilemma
formulato da Epicuro (o Dio può eliminare il male e non vuole, e allora non è
buono; o Dio vuole ma non può, e allora non è onnipotente) ha interrotto i
sonni di molte persone, non esclusi i cristiani. La nuova concezione di Dio
inclina verso questa seconda soluzione, contro una malintesa onnipotenza
divina. Intanto si ricorda che la parola “onnipotente” non è presente nella
Bibbia; lo stesso aggettivo attribuito nel Credo al Padre non riporta
esattamente il senso della parola originale: pantocrator, il cui significato
originale è quello di signore.
C’è intanto una
limitazione dell’onnipotenza divina che nasce dalla libertà dell’uomo, origine
dei mali morali che hanno punteggiato la storia lungo tutti i millenni fino ai
nostri giorni. La libertà dell’uomo è un concetto forte da rispettare e
salvaguardare sempre. Contro di essa non può niente nemmeno Dio. L’esistenza
dell’inferno è esattamente la riprova della intangibile libertà dell’uomo.
Nemmeno Dio può costringere l’uomo a volergli bene, ad accettare la sua offerta
di salvezza. Anche Auschwitz, simbolo estremo della degradazione morale a cui
può arrivare l’uomo, non mette in causa la bontà di Dio, ma semplicemente la
libertà dell’uomo. Creando l’uomo, Dio si è come ritirato, lasciando uno spazio
che ora appartiene soltanto alla sua immagine. Così aveva già affermato la
Cabala ebraica con la suggestiva teoria dello tsimtsum.
Altrettanto, anche se con
maggiore difficoltà, si tende a pensare per il male fisico. Se l’universo è in
evoluzione e non è ancora arrivato alla sua perfezione finale, rimane
abbastanza comprensibile che esso incontri nel suo percorso stasi, lacune,
imperfezioni, vuoti, fallimenti, sconfitte. Un pensiero che fa proprio anche il
Catechismo della Chiesa Cattolica, che al n. 311 afferma: «Insieme con il bene
fisico esiste anche il male fisico, finché la creazione non avrà raggiunto la
sua perfezione». All’avvento di questa perfezione è chiamato a collaborare
l’uomo, capace con la sua intelligenza di dominare e possedere la terra,
secondo il comando divino all’inizio della creazione, di compiere quei miracoli
che troppo spesso chiede al suo Creatore.
Comte-Sponville ha
qualcosa da obiettare a questa impostazione. «Alcuni credenti – egli afferma –,
davanti all’evidenza e all’ampiezza del male si battono oggi in direzione
opposta, invocando ormai non più l’onnipotenza, ma l’impotenza o la debolezza
di Dio. Questa variante della kenosi o del tsimtsum, che troviamo per esempio
nel Concetto di Dio dopo Auschwitz di Hans Jonas… La Shoah rende insopportabile
l’idea stessa di un Dio onnipotente. Bisognerebbe allora rinunciare a quell’idea
e rassegnarsi ad accettare, andando contro la tradizione, la tragica debolezza
di un Dio in divenire e sofferente, di un Dio che “si è spogliato della propria
divinità”, come dice Hans Jonas (in ciò molto vicino a Simeone Weil, che
peraltro non cita), di un Dio disarmato, che non ha potuto creare il mondo e
l’uomo se non rinunciando all’onnipotenza» (p. 100s.).
Il tema della debolezza
di Dio è oggi all’ordine del giorno anche in campo teologico; per questo le
parole del nostro autore non sono da rifiutare in toto. Il CCC difende ancora
l’onnipotenza di Dio. Il che rimane certamente possibile, dal momento che,
nelle attuali circostanze, l’eliminazione del male morale e anche del male
fisico possono considerarsi come due assurdità. Ora l’onnipotenza divina non è
messa in questione dall’assurdità, perché l’assurdo rappresenta semplicemente
l’impossibile. E l’impossibile, come un circolo quadrato, non ha la minima
possibilità di essere realizzato.
Considerazioni forse
troppo astratte, che vanno per questo completate con una delle altre idee che
hanno fatto irruzione ai nostri giorni nella riflessione teologica: Dio soffre
con noi, è sempre vicino alle sue creature, specialmente nel momento del dolore
e della solitudine. Il problema dell’esistenza di Dio va commisurato con questi
ultimi pensieri, che nascono dalla lettura attenta della Bibbia, decisamente
diversa dalla concezione del Dio greco, di cui abbiamo nel tempo mutuato le
caratteristiche della immutabilità e della impassibilità.
Al Dio di Gesù Cristo
dobbiamo puntare la nostra attenzione. Un Dio nuovo, un Dio diverso, un Dio
paterno e materno, come il padre della parabola del padre buono e
misericordioso, erroneamente passata alla storia come la parabola del figliol
prodigo. Una vera e propria conversione. Come afferma Jürgen Moltmann ne Il Dio
crocifisso, «cogliere Dio nel Crocifisso abbandonato esige una rivoluzione
dell’idea di Dio».
È forse questo il
problema teologico fondamentale del nostro tempo. Almeno in buona parte, gli
altri sono dei derivati.
Giordano Frosini
1Cf.
È VENUTO A INSEGNARCI
COME VIVERE …
A Natale Gesù appare tra noi per mostrarci quale è
l’essere pienamente umano, quell’uomo ideale che ogni mamma sogna quando in lei
sboccia la vita e che ciascuno porta nascosto nel cuore, come la forza che lo
proietta verso la piena realizzazione di sé
Tutti, grandi e piccoli,
attendiamo con i nostri desideri il Natale e il tempo d’Avvento ci è offerto
proprio per identificarli. Ma Dio ha per noi un dono che ad ogni Natale si
rinnova nel mistero della liturgia cristiana. È il dono del Figlio di Dio che
si fa uomo per noi. Il bambino che Maria mette al mondo nella grotta di
Betlemme non è solo il Figlio unigenito del Padre, ma è anche l’uomo nuovo,
quello che Dio da sempre ha pensato e in vista del quale ha creato l’universo.
A Natale egli appare tra di noi per mostrarci quale è l’essere pienamente
umano, quell’uomo ideale che ogni mamma sogna quando in lei sboccia la vita e
che ciascuno porta nascosto nel cuore, come la forza che lo proietta verso la
piena realizzazione di sé: «Il Figlio di Dio si è fatto uomo perché noi
possiamo diventare figli di Dio».
Nel Bambino di Betlemme e
nella sua vicenda umana emerge, passo dopo passo, quella persona ricca di
umanità e di amore gratuito che tutti vorremmo essere, una persona aperta a
tutti, che di tutti si prende cura, soprattutto dei deboli, dei poveri, degli
umili, di coloro che non contano agli occhi del mondo; una persona che non ha
nulla da spartire con il male, che s’indigna per il male che incontra, ma che
vuol salvare coloro che lo commettono, che condanna il peccato, ma salva il
peccatore, che tollera pazientemente le cose che non vanno come dovrebbero per
dare tempo a tutti di ritrovare se stessi. L’uomo nuovo apparso in Gesù è uno
che dialoga con tutti e non esclude nessuno, che lega amicizia con gli altri,
ma che cerca di allargare la cerchia dei propri amici per costruire una
comunità di fratelli e di sorelle; una persona che ama con amore sconfinato,
fino a sacrificarsi per gli altri, per togliere le croci dalle loro spalle, che
porta la propria senza farla pesare sugli altri fino a cadere sotto il suo
peso, ma che non perde mai la speranza di rialzarsi e di continuare; che riesce
a sopportare il silenzio di un Dio che sembra assente nel momento della grande
prova, eppure continua a invocarlo con la fiducia del figlio.
Quest’uomo nuovo è Gesù,
il dono del Natale, un dono prezioso per noi oggi in un tempo in cui rischiamo
di imbarbarirci nello scontro con gli altri e nel rifiuto di parlare con chi
non la pensa come noi, e di smarrire i valori autenticamente umani nella corsa
al profitto e al successo. Oggi, troppo spesso e per troppa gente l’uomo ideale
è quello che chiamiamo la persona “vincente”, colui o colei che supera, senza
badare a spese e senza farsi troppi scrupoli, ogni ostacolo che incontra sul
suo cammino, colui o colei che può vantarsi di essersi fatto da solo (ma sarà
poi vero?), che riesce in ogni impresa e non conosce sconfitta di alcun genere.
Questo è – lo sappiamo – un mito tanto diffuso quanto falso e, in più, una
pericolosa illusione. La sapienza divina ci ricorda che l’uomo è fragile e
debole, come un soffio o come l’erba del campo, che solo appoggiandosi alla
parola di Dio trova la sua consistenza. Anche il Figlio fatto uomo, dono di Dio
per ogni Natale, è “carne” come noi, fragile come noi, con le nostre stesse
debolezze, escluso il peccato, che conosce, come noi, la fatica di essere uomo,
ma è capace di amare “fino alla fine”. Proprio così ci mostrerà il volto del
Padre suo che ama tutti senza condizione e su tutti fa cadere la pioggia e
brillare il sole. Per rivelarcelo, Gesù ha accettato di morire sulla croce per
amore, un amore così grande che lo ha fatto risorgere alla Vita piena ed eterna
di Dio, che egli condivide con coloro che credono in Lui. Questa vita dei figli
di Dio è garanzia e speranza (non consolazione a buon mercato!) per i poveri e
gli oppressi, i miti e i misericordiosi, per quelli che piangono e che cercano
la giustizia e la pace.
A Natale ci appare la
Grazia di Dio, che porta la salvezza per tutti gli uomini e che “ci insegna a
vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo” (Tito 2,11). Questo è
ciò di cui abbiamo bisogno per non cedere alla tentazione del potere e dell’avere
e alle distrazioni del consumismo natalizio, per accogliere invece il dono di
Dio. Buon Natale!
Gabriele Ferrari s.x.
PADRE ARRUPE A CENT’ANNI
DALLA NASCITA
UN INTERPRETE AUDACE DEL
CONCILIO
È stato un ottimista pieno di realismo perché
fiducioso nell’azione dello Spirito. Per questo ha invitato a guardare avanti
senza nostalgie per il passato. Se non si può chiedere a tutti lo stesso grado
di ottimismo, diceva, a tutti si richiede almeno di non ammettere mai il
pessimismo, poiché la novità del concilio è un dono di Dio che merita la nostra
totale fedeltà.
Il 14 novembre scorso si
sono compiuti cento anni dalla nascita di padre Pedro Arrupe. Sono trascorsi
anche 16 anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 5 febbraio 1991, ma la sua
figura è ancora molto viva in molti che l’hanno conosciuto direttamente o
indirettamente, soprattutto per la grande saggezza con cui ha saputo
interpretare e attuare le novità del concilio Vaticano II, in mezzo a tante
spinte contrastanti, sia nella Compagnia di Gesù sia nella stessa Chiesa.
Alcuni lo chiamarono “l’uomo dell’utopia”, altri “un mistico e un profeta del
nostro secolo”, altri, ancora, lo riconoscevano come uno che ha fatto cose
nuove, nel nome del Signore. In un’epoca di tensioni nella Chiesa
postconciliare e all’interno stesso della Compagnia ha saputo procedere con
raro equilibrio e con illuminato discernimento, sostenuto da una fede
incrollabile e da una fiducia incondizionata nell’azione dello Spirito il
quale, come diceva, non induce mai a tornare indietro né a fermarsi al
presente, ma invita, anzi spinge a guardare _al futuro e a intraprendere con
coraggio vie nuove. Per questo ha avuto anche molto da soffrire a causa di
incomprensioni che a volte hanno contagiato i vertici stessi della Chiesa.
Ripercorrere oggi la vita
di padre Arrupe vuol dire rileggere un periodo esaltante e insieme inquieto
della storia recente della Chiesa e della stessa vita consacrata; ma
soprattutto vuol dire riconoscere tutta la validità dei criteri di
comportamento da lui adottati e che continuano a essere quanto mai validi anche
per noi oggi. Il concilio infatti ha tutt’altro che esaurito la sua spinta ed è
ancora in gran parte da attuare.
Pubblichiamo qui, con
solo un piccolissimo taglio iniziale, il ricco profilo che di padre Arrupe ha
tracciato l’attuale Preposito generale della Compagnia di Gesù, p. Peter-Hans Kolvenbach, il 13 novembre scorso nell’aula
magna dell’università di Deusto, a
Bilbao, città natale di p. Arrupe.
Padre Pedro Arrupe fu
eletto Preposito generale della Compagnia di Gesù il 22 maggio 1965. Prima di
allora si era trovato a dover far fronte a molte sorprese, a grandi cambiamenti
e profonde novità nella sua vita. Un “colpo di grazia” a Lourdes cambiò la sua
promettente carriera di medico in quella di gesuita, lasciandosi guidare nel
suo cammino verso Dio dal suo compatriota basco Ignazio di Loyola. Le
vicissitudini della politica nazionale lo trasformano in un esiliato,
condannato a un’esperienza internazionale nella sfida di imparare nuove lingue
e far fronte a diversi cambiamenti culturali in Europa e negli Stati Uniti.
Tutti questi sradicamenti
non estinguono in lui il desiderio di seguire le orme dell’altro suo
compatriota, Francesco Saverio. Queste separazioni non esauriscono il suo
desiderio di annunciare la buona notizia del Signore in Giappone, un paese
dotato di una cultura religiosa perfetta, che sembra non avere bisogno di
nessuna buona notizia che venga da fuori. In “questo Giappone incredibile”,
sperimenterà la novità dell’isolamento durante un mese in una cella della
prigione di Yamaguchi, accusato di spionaggio. Giungerà a dire che questa
esperienza insperata fu un colpo di grazia, poiché in solitudine con l’unico
Signore visse, come ebbe a dire, «il mese più istruttivo della mia vita».
Un’altra novità vissuta
in Giappone sarà quella della moderna invenzione dell’orrore umano che si
chiama la bomba atomica di Hiroshima. Celebrando l’Eucaristia il giorno dopo il
cataclisma, davanti a tanti corpi stesi al suolo, p. Arrupe rimane come
paralizzato nel momento in cui deve dire davanti a tanta sofferenza “Dominus
vobiscum”. Ma, contro una tale apparenza, il Signore è con voi.
L’ESPERIENZA
IN GIAPPONE
Una trentina di anni
dopo, quando p. Arrupe visitò il Libano e io gli feci vedere le rovine del
centro della città di Beirut, gli dissi che dopo una notte di terribili
bombardamenti distruttivi, il mattino seguente gli uccelli cantavano sugli
alberi. Egli mi rispose che anche a Hiroshima il Signore della vita non permise
che l’incredibile potenza della morte dicesse l’ultima parola. Come dice il
Cantico dei Cantici: “forte come la morte è l’amore, le grandi acque non
possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo” (Ct 8,6-7).
Ancora in Giappone vive
un’altra novità quando è nominato responsabile di un gruppo importante di
gesuiti, di origine internazionale. Padre Arrupe incoraggia questi apostoli ad
abbandonare generosamente le maniere occidentali di pregare, di vivere e di
lavorare per farsi, a imitazione dell’apostolo Paolo, tutto a tutti. In questo
modo voleva far sì che i giapponesi riconoscessero nel volto di Cristo e della
sua Chiesa, i tratti giapponesi del loro ancestrale desiderio religioso. Una
tale fedeltà a questo modo di approccio nuovo dell’apostolo Paolo suscitava in
alcuni l’entusiasmo apostolico, ma risvegliava in altri una resistenza di
principio.
Questo è il modo con cui
il Signore era andato preparando p. Arrupe a guidare la Compagnia nella novità
che lo Spirito aveva ispirato nella Chiesa del Vaticano II, nel mondo e per il
mondo. Rivolgendosi ai gesuiti di Roma l’11 marzo 1967, p. Arrupe sottolinea
che la Congregazione Generale 31a – che lo elesse generale – è come un seme e
un’esigenza di vita nuova che impegna la nostra responsabilità davanti a Dio e
alla storia. Terribile responsabilità davanti alla storia, ma soprattutto
responsabilità ancora più grave davanti a Gesù Cristo. Egli non ci ha scelti
per i nostri meriti, né a motivo dei nostri gusti, ma secondo il beneplacito
della sua volontà. In questo modo la nostra missione nella Chiesa, per quanto
limitata e modesta, è affidata alla nostra responsabilità personale e
comunitaria affinché vivificati e riuniti nel suo Spirito, ci incamminiamo
verso la consumazione della storia umana in piena conformità con il suo disegno
di amore.
Questa conclusione che
assume pienamente in Dio la realtà di una Chiesa che cambia e l’esigenza di
scoprire nuovi approcci per rispondere ai bisogni nascenti della Chiesa e del
mondo, non elimina gli sforzi, gli sconvolgimenti e i sacrifici che comportano
tutti questi cambiamenti e adattamenti.
Il padre Arrupe è
realista: a noi sarà chiesto di più che non ai gesuiti del tempo di
sant’Ignazio. Appena terminato il concilio chiede di non lasciarsi
impressionare da dichiarazioni quali “è cambiata la Compagnia” o quell’altra
più crudele per il riferimento personale, “quello che Ignazio, un basco, ha
costruito, un altro basco lo sta distruggendo”. Prevedendo reazioni di questo
genere, p. Arrupe, al termine della Congregazione, confessa il suo desiderio di
impegnarsi in una fedeltà piena e totale al concilio Vaticano II. È un
“ottimismo realista pieno di fiducia nello Spirito Santo che guida la Chiesa e
la Compagnia. Non si tratta di conservare un ricordo nostalgico del tempo
passato, né di un risentimento o malcontento per i cambiamenti difficili che
incontriamo all’interno della Compagnia o al di fuori di essa. Sempre
rispettoso della reazione dell’altro ai principi e alle attuazioni dell’
“aggiornamento”, p. Arrupe afferma che “anche se non si può esigere da tutti lo
stesso grado di ottimismo, si impone almeno a tutti l’esigenza di non ammettere
mai il pessimismo, poiché la novità del concilio è un dono di Dio che merita la
nostra totale fedeltà.
DALLE OSSERVANZE
ALL’APERTURA ALLO SPIRITO
Questo spirito e questo
messaggio del padre Arrupe si facevano sentire nei dettagli concreti della vita
dei gesuiti, e dato il grado di nervosismo di questo tempo post-conciliare,
qualsiasi fatto banale poteva scatenare autentiche tempeste. Così avvenne, per
esempio, durante la sua prima visita ai gesuiti di Parigi, appena un anno dopo
il concilio. In quell’epoca, io ero studente di linguistica alla Sorbona ed era
la prima occasione in cui potei vederlo veramente così come i primi gesuiti
volevano che fosse il “superiore generale”. Vale a dire “uno di noi”:
accogliente e uomo di dialogo, senza formalità di protocollo, senza ricerca di
un culto della personalità. Il provinciale di Parigi, desiderando fare bella
figura, aveva imposto ai suoi compagni l’abito talare, o per lo meno l’abito
clericale con la camicia e il colletto romano. Questa era la disciplina di quel
tempo. Soltanto due giovani gesuiti, che venivano dal nord Europa, ruppero
l’uniformità del gruppo, indossando un abito civile e la cravatta. Il
provinciale cercò invano di allontanarli e di nasconderli dietro gli altri
gesuiti che erano vestiti “come Dio comanda”. A maggiore imbarazzo del
provinciale, per caso, furono tra i primi a salutare il loro superiore generale
il quale si intrattenne piacevolmente con loro a parlare della Compagnia di
Gesù nel nord Europa, che egli conosceva molto bene per gli anni del suo
esilio. L’incidente, come si può immaginare, non passò inosservato e suscitò
commenti ben diversi.
Avvenne qualcosa di
simile il giorno dopo. Dati i miei doveri all’università, io non potei
partecipare all’incontro dei gesuiti di Parigi con il padre Arrupe, ma alla
sera in comunità si poterono udire chiaramente le diverse reazioni. Mentre
alcuni si mostravano entusiasti, altri pronunciarono parole indignate poiché
padre Arrupe aveva infranto santi costumi, aveva scosso posizioni acquisite da
molti anni, mettendo ciascuno dei suoi uditori, personalmente, davanti alla
novità dello Spirito che in maniera nuova aveva fatto irruzione nella nostra
storia. Di conseguenza, per essere un autentico compagno di Gesù, non è
sufficiente una condotta impeccabile, una fedeltà minuziosa e formale al
regolamento e all’orario (nemmeno al più tradizionale e sacro), né basta
un’osservanza perfetta a qualsiasi punto di vista. Prima di tutto è necessaria
un’adesione senza riserve a questa novità cristiana a cui lo Spirito invita la
Chiesa attraverso una disponibilità apostolica a tutta prova, illuminata da un
discernimento orante nell’ascolto dei “segni dei tempi”.
Questo è ciò che voleva
dire padre Arrupe ai gesuiti di Parigi, come lo farà in seguito per tutto il
mondo, provocando di conseguenza un autentico sconvolgimento nella spiritualità
e nella missione della Compagnia, senza risparmiare nessun dettaglio della vita
di tutti i giorni.
FEDE INCROLLABILE
NELlA GRAZIA DEL CONCILIO
Quando dieci anni più
tardi p. Arrupe traccia il bilancio di questa situazione, comincia anzitutto
col ribadire la sua fede nella grazia del concilio. Conservava un ottimismo
realistico, attribuito da qualcuno a una ingenuità personale che gli impediva
di vedere la realtà disastrosa della Chiesa postconciliare. I numerosi contatti
e la copiosa corrispondenza che teneva gli parlavano di continuo di dimissioni
e di uscite, di situazioni conflittuali all’interno della Chiesa e della
Compagnia, di pericolosi malintesi circa il rinnovamento in atto e di
divergenze circa l’essenziale della nostra fede, mettendo in questione quasi
tutto ciò che era stato così caro alla Chiesa prima del concilio. Padre Arrupe,
da parte sua, non negava questa realtà ma si rifiutava di riconoscere in essa
tutta la verità.
In effetti, applicando la
ben nota legge di Zipf secondo cui una buona notizia non è una notizia e che
solo una cattiva notizia merita questo nome, tutto il materiale negativo che si
riferiva al postconcilio riscuoteva un’ampia risonanza nei periodici, riviste e
servizi televisivi, alimentando in questo modo un pessimismo che raggiungeva
persino le più alte sfere del Vaticano. Nonostante questo quadro così oscuro,
padre Arrupe non proferiva mai una parola che non fosse di fiducia e di
speranza, di incoraggiamento e di fede nell’impulso dello Spirito di Dio che
rinnova la faccia di questo mondo attraverso la sua Chiesa e coloro che sono
stati inviati ad annunciare la buona novella. Questa speranza che non cade in
alcun modo nella notte oscura della nostra storia, era come sintetizzata in un
proverbio che padre Arrupe ripeteva di frequente, e che il papa Benedetto XVI
ha citato l’estate scorsa parlando a un gruppo di sacerdoti circa il tempo
postconciliare: «Se cade un albero, fa molto rumore, ma se mille fiori si
schiudono, ciò avviene nel più grande silenzio».
NOVITÀ CHE ESIGONO
UNA CONVERSIONE
Tutta questa pubblicità
unilaterale e tendenziosa circa la novità del concilio era un male minore
rispetto a una difficoltà più di fondo. Padre Arrupe ci ricordava di frequente
che riguardo alle grazie e ai risultati del concilio Vaticano II ci comportiamo
volentieri come dei forestieri, dei nuovi ricchi che ostentano la ricchezza
ricevuta per farsi vedere e ammirare, dimenticando che tutti questi nuovi
tesori ricevuti implicano nuove responsabilità verso gli altri. Corriamo il
grave pericolo di nutrire dei sospetti circa le conquiste del concilio quali l’
“aggiornamento” e la nuova presenza della Chiesa nel mondo, la libertà
religiosa di coscienza e la responsabilità dei fedeli nella Chiesa, il dialogo
interreligioso e l’opzione preferenziale per i poveri, l’impegno per lo
sviluppo umano e la riscoperta della Scrittura e della liturgia. Questi sono
valori innegabili del concilio, ma, perché siano frutti dello Spirito,
suppongono una vera conversione del cuore. In caso contrario, queste conquiste
non produrranno altro che accomodamenti superficiali o si trasformeranno in
concessioni all’opportunismo, cedendo alle pressioni della moda e alle correnti
cosiddette moderne.
Un’irruzione dello
Spirito nella vita della Chiesa può essere facilmente deformata o impedita
dall’uomo. Come diceva padre Arrupe «siamo straordinariamente inventivi quando
si tratta di trovare dei modi per tagliare la strada all’azione dello Spirito
e, di conseguenza, il vangelo diventa lettera morta. Sono profondamente
convinto di una cosa: senza una profonda conversione personale, non saremo in
grado di rispondere alle sfide che l’oggi ci lancia. Al contrario, se riusciamo
ad abbattere le barriere che si innalzano in noi stessi, sperimenteremo di
nuovo l’irruzione di Dio e impareremo cosa significa essere cristiani oggi».
L’atteggiamento di padre
Arrupe nei riguardi della novità del concilio presenta altri tratti. Mentre nel
periodo post-conciliare tutti dovevano essere fatalmente classificati come
conservatori o progressisti, sono molti coloro che hanno affermato che padre
Arrupe non si lasciava classificare, poiché si trovava in un’altra situazione.
E questa situazione non è, in alcun modo, una specie di compromesso tra la
posizione degli integristi fanatici della purezza del sistema, da mantenere a
qualsiasi prezzo, e l’atteggiamento di coloro che si schieravano per
un’apertura incondizionata, col rischio di innovare con un radicalismo tale da
non lasciare che vuoti e rovine. Per padre Arrupe, la novità non era né di
destra né di sinistra; non si trovava nel mantenimento del passato né
nell’ossessione del presente, ma nell’avvenire secondo la fede professata da
sant’Ireneo di Lione: “Sapete che (Cristo) portò con sé tutta la novità che era
stata annunciata. Questo è esattamente ciò che tempo fa era stato annunciato:
che la novità doveva venire per rinnovare e dare vita all’essere umano” (Adv,
Haer. IV, 34,1).
NECESSITÀ
DELLA PREGHIERA
Alla luce di Colui che
deve venire come nostro futuro, Giovanni XXIII, convocando il concilio, vedeva
in esso non solamente una specie di “saggia modernizzazione della Chiesa”, ma
il suo rinnovamento nella novità di Cristo. Così, in seguito, padre Arrupe,
cercando di essere fedele a questo orientamento, stimolava i suoi compagni a
“fare un colloquio”, un incontro da persona a persona con Colui che deve
venire, il Cristo “modello mai passato di moda e fonte di ogni nuova
ispirazione”. Lui, che è la novità, fa nuove tutte le componenti del nostro
essere e della nostra azione apostolica, sia di oggi che di ieri. Fa rivivere
la nostra fedeltà e la nostra audacia, la nostra spiritualità in azione e la
nostra presenza nel mondo.
Da questa preghiera che
guarda a Cristo come nostro futuro, padre Arrupe tirava la conclusione pratica
che ci saranno cambiamenti che non sono né capitolazioni né sconfitte, ma una
necessità e un vero progresso. In questa ricerca di forme nuove si possono
commettere degli errori, in parte dovute al fatto che i cambiamenti a volte
devono effettuarsi secondo punti di riferimento che a loro volta sono in
movimento; e in parte perché sono in gioco valori di segno diverso di cui
bisogna tener conto con equilibrio. Ma sarebbe un errore ancora più grande non
tentare questa ricerca. Tutto questo rinnovamento è molto delicato perché
l’uniformità che in altri tempi era accessibile e si poteva imporre a priori,
oggi risulta impraticabile in un mondo caratterizzato in gran parte
dall’entrata in campo di nuovi paesi, il rapporto con nuove culture e la
scristianizzazione crescente di paesi che erano stati tradizionalmente
evangelizzatori.
In questo cammino di
rinnovamento, padre Arrupe ha potuto aiutare tante persone, tanta gente, dal
momento che egli stesso ha dovuto percorrere questa strada che gli si
presentava come un vero esodo. Si tratta, secondo le sue stesse parole quando
fu eletto superiore generale della Compagnia, di un esodo radicale pieno di incertezze
e di responsabilità; un esodo che implicava l’abbandono di tutto un insieme di
atteggiamenti, di concezioni, di priorità. Da tutto questo, secondo lo spirito
del concilio, era necessario prendere le distanze per adottare altri
atteggiamenti da precisare, chiarire e definire. Si trattava di uscire da un
mondo pieno di sicurezze affermate, ereditate dalla tradizione secolare della
Chiesa e della Compagnia, per entrare in un mondo ancora in fieri, da noi
sconosciuto, ma a cui Dio ci chiamava attraverso la voce del concilio, del
santo Padre, delle congregazioni generali.
L’ESEMPIO
DI SANT’IGNAZIO
Questo cammino comportava
numerosi tunnel e nuove sfide, ma anche innumerevoli speranze e possibilità
poiché era, e lo è sempre per noi, il cammino di Dio “che ha fatto nuove tutte
le cose nel suo Figlio Gesù, che è la novità”. Si tratta della testimonianza
dello stesso padre Arrupe, il 15 gennaio del 1977, in occasione dei 50 anni
della sua entrata nella Compagnia.
Questa omelia,
pronunciata presso la tomba di sant’Ignazio, ci ricorda anche che questo basco
del secolo decimosesto fu un inventore che ha aperto tante nuove strade, ha
dato impulso a un nuovo spirito missionario nel mondo e ha iniziato una nuova
forma di vita consacrata a immagine degli apostoli. Inoltre, negli Esercizi
spirituali sant’Ignazio ha aperto la contemplazione dei misteri della vita di
Cristo alle scelte che il Signore ha fatto in nostro favore perché in questo
modo la nostra vita giunga a conformarsi alla sua. Di conseguenza, difficilmente
uno può dirsi ignaziano se non percorre questa via di novità.
Come vedete, non c’è
nulla di strano che padre Arrupe, fedele allo spirito del Vaticano II,
avanzasse su questa linea già tracciata da sant’Ignazio, consapevole che si
trattava di una linea elevata, nel cui percorso possono avvenire cadute e
incidenti di percorso. Camminare su questa linea alta per costruire il nuovo in
nome del Signore richiede coraggio e prudenza. In questo sforzo per introdurre
la novità del concilio, padre Arrupe faceva suo ciò che Giovanni Paolo II
sollecitava dai professori dell’università Gregoriana di Roma: «Sappiate essere
giorno per giorno creativi, senza accontentarvi facilmente di ciò che è stato
utile in passato. Abbiate il coraggio di esplorare nuove strade, anche se con
prudenza». Questa consegna del papa era quanto mai opportuna, poiché il
post-concilio comportava per la Chiesa, e in particolare per la Compagnia di
Gesù, dei pericoli non illusori. Ossia, una specie di compiacenza di non
vedere, non tornare a dire le meravigliose novità del concilio, di non metterle
in pratica per una specie di paura a impegnarsi in un cammino nuovo senza
sapere in anticipo dove ci porta e conduce. In diverse occasioni padre Arrupe
si lamenta che anche i gesuiti vengano meno nell’intento: i più anziani, perché
tentati di fuggire dalla novità; i più giovani, perché portati da una
precipitazione incosciente.
Tuttavia questa
resistenza passiva, che trova tra i suoi fratelli gesuiti, al desiderio dei
vicari di Cristo in terra di “mettere in pratica le novità del concilio” non
scoraggia in nessun modo padre Arrupe nel suo progetto di indicare le porte che
lo Spirito Santo ha aperto e che nessuno potrà chiudere. Su impulso del
concilio e alla sua luce, restavano molti compiti da attuare, spesso in terreni
dove non erano tracciate le strade, senza fare affidamento su mappe in cui
fossero indicate chiaramente le vie da seguire. Come ripeteva Giovanni Paolo
II, era necessario andare avanti, ma con prudenza.
UN DISCERNIMENTO
ORANTE
I pareri circa
l’interpretazione di questo consiglio papale non concordavano e nemmeno la
portata di questa prudenza ottiene l’unanimità. Sarà forse necessario in questa
linea elevata misurare i passi, rallentare o addirittura fare marcia indietro?
Sulla scorta dell’esperienza di sant’Ignazio, padre Arrupe affida la prudenza
al discernimento orante: davanti a Dio, nel Signore, la verità tutta intera è
scrutata per leggere ciò che egli vuole compiere per mezzo nostro. Si tratta,
di un vero approccio “olistico” che non si limita ad aspetti parziali o
particolari della realtà e che nemmeno si lascia ipnotizzare dalle ideologie o
correnti di moda. Non segue idee fisse e pietrificate, ma seleziona dalla lunga
storia di Dio con noi, dal vecchio e dal nuovo, il necessario per costruire la
città di Dio con gli uomini, una terra nuova e un cielo nuovo.
Questa apertura orante è
ciò che caratterizza la prudenza di padre Arrupe. Nel suo modo di mettere in
pratica la novità del concilio riconosce che lo Spirito mai ci costringe a
tornare indietro, ma, al contrario, ci incoraggia a un’incessante ricerca della
via di Cristo. Così poi, animati dallo Spirito, dobbiamo soppesare ciò che
facciamo per vedere se, con il Signore, è quanto si potrebbe o dovrebbe fare.
Padre Arrupe afferma che è essenziale raccogliere e interpretare i fatti, come
anche analizzare le tendenze, ma non si tratta ancora di un vero discernimento.
L’autentico discernimento sta nello scrutare i segni dei tempi e
nell’interpretarli alla luce del vangelo, per mezzo della preghiera, sulla
realtà umana.
È contento di vedere che
questo compito delicato e arduo richiede una costante trasformazione interiore,
una vera metanoia o conversione a Cristo crocifisso e, d’altra parte, implica
per noi una liberazione da tutto ciò che può turbare il nostro giudizio o
occupare inutilmente il nostro cuore. In questo modo si potrà rimanere
costantemente alla scuola e a disposizione dello Spirito.
Grazie a questo
discernimento orante, praticato nella Chiesa, con la Chiesa e per la Chiesa,
padre Arrupe vive l’ “aggiornamento” del concilio con intensità. Al di là della
lettera dei numerosi documenti conciliari, riconosce il manifestarsi dello
Spirito che fa nuova ogni cosa. Nelle formule ed espressioni della lettera
coglie la nuova fede, espressione della tradizione viva e della passione per
l’unità di tutta l’umanità nel suo Signore. Anche se il cambiamento che si
attua dopo il concilio è stato a volte troppo precipitoso e sconcertante, e
tende a fermarsi, p. Arrupe desidera che l’ “aggiornamento” continui, anche
solo per il semplice fatto che il nostro mondo cambia e si evolve, obbligando
la Chiesa a offrire nuove risposte alle nuove necessità. Se queste risposte
portano oggi nomi ben noti come dialogo e inculturazione, spiritualità e chiesa
dei laici, sviluppo e pace, promozione della giustizia nel mondo attraverso una
precisa e chiara opzione preferenziale per i poveri, possiamo dire che tutte
queste risposte, secondo padre Arrupe, hanno avuto un luogo privilegiato nell’
“aggiornamento”.
Anche qui si è
manifestata la resistenza contro l’attuazione del concilio, nonostante tutta la
prudenza sollecitata dal compianto Giovanni Paolo II. Se desideriamo lavorare
per la giustizia in forma seria e fino alle sue ultime conseguenze, la croce
apparirà immediatamente al nostro orizzonte. Se siamo fedeli al nostro carisma
sacerdotale e religioso, anche quando agiamo con prudenza, vedremo levarsi
contro di noi coloro che nella società industriale di oggi praticano
l’ingiustizia, coloro che per un altro verso sono considerati eccellenti
cristiani e che forse hanno potuto essere nostri benefattori, amici, e persino
membri delle nostre famiglie: ci accuseranno di marxismo e di sovversione. Ci
toglieranno la loro amicizia e insieme ritireranno la loro vecchia fiducia e il
loro sostegno economico. Siamo disposti ad assumere questa responsabilità di
entrare nella via di una croce più pesante, a sopportare le incomprensioni
delle autorità civili ed ecclesiastiche e dei nostri migliori amici? Siamo noi
stessi disposti a offrire una vera testimonianza nella nostra vita, nelle
nostre attività, nel nostro stile di vita?
LA LEGGE FONDAMENTALE
DELL’AMORE
Per padre Arrupe, questa
impostazione era una conseguenza logica della novità che comporta per la Chiesa
la sua legge fondamentale, il comandamento nuovo dell’amore, “amatevi gli uni
gli altri; come io vi ho amato, da questo tutti sapranno che siete miei
discepoli” (Gv 13,34). Era prevedibile, e in certo senso un atteggiamento di
routine, l’indignazione suscitata da questa impostazione? Il comandamento nuovo
dell’amore ci invita sempre a fare il primo passo per la riconciliazione, a
salutare fraternamente coloro che non ci salutano, ad amare non solo coloro che
ci sono vicini, ma anche quanti si allontanano da noi – amici e nemici. Più
ancora, nella nostra carità cristiana non dobbiamo accontentarci di dare nostre
cose, ma noi stessi, la nostra vita ed essere così a immagine del Signore
persone a servizio degli altri.
È evidente che il nostro
egoismo reagisce con forza a questo comandamento nuovo, anche quando non
abbiamo parlato per niente dell’ingiustizia del mondo, dell’oppressione e della
schiavitù, piaghe anche del nostro tempo cosiddetto moderno, che mantiene in
quelle condizioni intollerabili che i mezzi di comunicazione pongono davanti ai
nostri occhi e che il mondo dei poveri deve sopportare senza speranza e
sostegno.
Nel suo sforzo per
imprimere un nuovo impulso e portarlo fino alle ultime conseguenze, padre
Arrupe si riconosceva in stretta continuità con il concilio e i sinodi, con le
dichiarazioni dei pontefici e dei vescovi, anche se per tradizione e prudenza
le loro esigenze pratiche non raggiungevano la linea elevata che padre Arrupe
desidera seguire. Qualunque conversione al sociale potrebbe allontanare il cristiano
dalla spiritualità, anche quando tale allontanamento non è in alcun modo
indispensabile. Ogni opzione e lotta per la liberazione degli oppressi, ogni
difesa dei poveri e ogni testimonianza per la giustizia può condurre
all’ingiustizia della violenza e dell’odio, anche se questo cambiamento di
valori non si impone in modo fatalistico. Mentre Giovanni Paolo II afferma che
non è sufficiente la lotta per la giustizia contro le strutture ingiuste e che
è necessario che questa lotta sia a servizio della carità e da essa
condizionata, padre Arrupe, con una posizione che mi permetto di definire più
sfumata, sottolinea in primo luogo che non tutta la carità è di per sé
autentica. Questa carità può essere falsa e solo apparente, vale a dire, può
essere una ingiustizia camuffata quando al di là della legge si concede a una
persona per benevolenza ciò che le è dovuto per giustizia. In concreto,
l’elemosina non può essere una specie di ultimo sotterfugio per non rispettare
nei riguardi di una persona la giustizia di cui ha diritto.
D’altra parte, padre
Arrupe si mostra meno reticente nei riguardi della giustizia poiché mai si è
parlato tanto di questa e a sua volta mai è stata disprezzata in modo così
flagrante. Egli concorda con Giovanni Paolo II nella convinzione che la carità,
come amore al prossimo, e la promozione della giustizia sono inseparabilmente
unite nel nuovo comandamento dell’amore. La lettura che il concilio fa del
vangelo conferma che non si ama se non si fa giustizia e che la giustizia si
degrada e diventa ingiustizia se a sua volta non si attua con amore.
Per dirlo ancor più
chiaramente, la sua fiducia nella giustizia vissuta alla luce del Vangelo ha
questa espressione e caratteristica nuova: la giustizia vissuta come sequela
del vangelo è in se stessa il sacramento dell’amore e della misericordia di
Dio. In questo modo, padre Arrupe desidera riaffermare, in linea con la più
pura tradizione ignaziana, che l’amore non sta nelle parole ma deve essere
tradotto in azioni concrete di giustizia.
Si tratta della novità
del concilio che porta fino alle ultime conseguenze il comandamento nuovo
dell’amore, anche col rischio di presentarlo come un’utopia e di suscitare la
sfiducia e il sospetto scoprendo, in questa prospettiva, la dimensione sociale
del vangelo. Quando in seguito si profilò il problema del dialogo con il mondo,
non solo a livello di religioni e di credenti, ma anche nel contesto delle
grandi ideologie, padre Arrupe, anziché chiudere a priori e di colpo la porta
del dialogo, stimola la Compagnia a studiare gli elementi positivi di queste
ideologie. Nel caso concreto del marxismo, sostiene con fermezza che la
Compagnia di Gesù non potrà mai accettare un’ideologia che abbia come
fondamento essenziale l’ateismo. Ma, a sua volta, afferma con chiarezza che si
deve studiare con serietà e coscienza ciò che essa ha di vero. E questa
posizione fondamentale la ritiene una necessità nel dialogo con il marxismo,
con altre ideologie e religioni.
I SEMINA VERBI
PRESENTI OVUNQUE
Non dobbiamo forse
riconoscere come una novità del concilio che crede nella presenza dei semina
Verbi, gli elementi validi presenti nell’induismo, nell’Islam, nel buddismo, in
altre religioni? Non dobbiamo riconoscere questi semina Verbi come un punto di
partenza per un dialogo costruttivo con l’altro? Una volta di più, padre Arrupe
si è mosso su questa linea avanzata, proclamando la novità dello spirito del
concilio fino alle esigenze di apertura e di dialogo. Il suo linguaggio, nel
contenuto e nell’espressione, è del tutto fedele alla richiesta del Signore il
quale ci dice che “il nostro sì sia sì, e il nostro no sia no”, senza ambiguità
di linguaggio, senza abile diplomazia. In questo modo di parlare franco e
chiaro, il punto di partenza è indicato sempre dalla situazione attuale: egli
non si perde in paragoni col passato quando è tempo di accogliere la novità
sempre presente nelle prospettive del domani. Di fatto, tali prospettive le ha
spiegate Colui che deve venire per fare nuove tutte le cose. È esattamente
nella ricerca di forme nuove dove si manifesta il cambiamento che viene dallo
Spirito nel contesto attuale. Tenuto presente che Colui che fa nuova la nostra
storia è l’alfa e l’omega, colui che era, che è e sarà. Padre Arrupe non può
immaginarsi un cambiamento che sia di rottura radicale con il passato, o di
discontinuità, tale da supporre l’abbandono di una sana tradizione, poiché se
così fosse si tratterebbe di un vuoto che nulla potrebbe colmare.
In questo senso, dobbiamo
riconoscere che l’introduzione della dimensione sociale nel corpo della Chiesa
debba essere fatta in continuità con il contenuto del comandamento nuovo del
Vangelo. Per quanto si riferisce alla Compagnia di Gesù, l’apostolato sociale,
senza dubbio, era già in germe nell’azione sociale di sant’Ignazio. Continuità,
certamente, ma anche cambiamento e novità. È opportuno ricordare, a questo
punto, che Benedetto XVI ha riconosciuto sant’Ignazio come un santo sociale,
permettetemi che citi solamente lui fra le tante testimonianze della storia che
così lo presentano. Di conseguenza, vedere in tutto questo processo unicamente
una specie di capitolazione di fronte alle ideologie marxiste o socialiste
sarebbe semplicemente una falsa interpretazione.
Tutto ciò che padre
Arrupe ha compiuto è stato una risposta all’invito di Giovanni Paolo II il
quale diceva che la Chiesa si attendeva oggi dalla Compagnia che contribuisse
efficacemente all’attuazione del concilio Vaticano II, che in questo modo
avrebbe fatto avanzare tutta la Chiesa sulla via tracciata dal concilio, e
convincesse coloro che disgraziatamente si sentivano tentati sulle vie del
progressismo o dell’integrismo (27.02.1982). In antecedenza, data la sua
fiducia nella forza spirituale della Compagnia, che ha il suo fondamento
nell’esperienza di Dio attraverso sant’Ignazio, Paolo VI (1974) aveva indicato
la Compagnia di Gesù come il luogo in cui la novità del concilio avrebbe dovuto
prendere forma. La vostra Compagnia, per così dire, non è forse un test della
vitalità della Chiesa attraverso i secoli, non costituisce forse una specie di
incrocio in cui confluiscono in maniera molto significativa le difficoltà, le
tentazioni, gli sforzi e le realizzazioni, la perpetuità e la riuscita della
Chiesa intera?
Su questa linea avanzata
troviamo padre Arrupe che cammina stando avanti. Egli cerca di accogliere la
novità del Concilio, nel cui seno si sviluppa l’ermeneutica della riforma, del
rinnovamento all’interno della continuità con una Chiesa viva, poiché è il
Signore colui che dà la vita. Applicando questa terminologia introdotta da
Benedetto XVI, questa ermeneutica della riforma si distingue chiaramente da una
ermeneutica di rottura e di discontinuità, in cui il cambiamento è cercato solo
per il cambiamento, come se la Chiesa dovesse ri-fondarsi e non ri-formarsi
(22.12.2005).
NON METTERE
OSTACOLI ALLO SPIRITO
Questi riferimenti
pontifici appena menzionati, applicati all’azione rinnovatrice di padre Arrupe,
potrebbero far sembrare a colui che legge questo capitolo della storia
postconciliare come un conflitto della Compagnia con il papato. La
documentazione di lettere e discorsi dei papi che ho ricordato non contraddice
in alcun modo i nuovi orientamenti difesi con rigore e fervore da padre Arrupe.
Allo stesso tempo, bisogna riconoscerlo, questa documentazione contiene segni di
precauzione, di preoccupazione e di riserve riguardo a questo cammino in avanti
su una linea avanzata. All’interno della Compagnia le preoccupazioni dei
pontefici furono utilizzate da diverse parti per fomentare una resistenza
contro il rinnovamento lanciato da padre Arrupe. A loro volta, alcune
espressioni di padre Arrupe furono interpretate alla leggera come una
giustificazione di iniziative e condotte estranee alla missione della
Compagnia, attribuendo un peso quasi dominante alla promozione umana e unicamente
al progresso sociale.
Sia le decisioni del
concilio, sia l’attuazione che padre Arrupe desiderava promuovere, esigevano
l’irruzione dello Spirito di Dio nel concreto della nostra storia e non una
semplice riorganizzazione. Come ho ricordato all’inizio, lo stesso padre Arrupe
costatava che gli uomini hanno una straordinaria capacità di inventiva nel
porre ostacoli all’azione dello Spirito. Per questo il vangelo diventa lettera
morta e non siamo più capaci di comprendere il radicalismo del messaggio evangelico.
Lo minimizziamo per il nostro sfrenato egoismo e non portiamo a capo le riforme
personali e sociali necessarie, poiché abbiamo paura delle conseguenze che ne
deriverebbero per le nostre persone.
Il padre Arrupe era
profondamente convinto di una cosa: senza una conversione personale profonda
non saremo in grado di rispondere alle sfide che oggi ci vengono lanciate. E
così, cercando di vivere perfino con sofferenza questo valore conciliare che è
il rispetto per l’altro nella sua libertà di scelta, rifugge dal ricorrere ad
argomenti di autorità e di potere per imporre ciò che egli sapeva venire dallo
Spirito. Il suo atteggiamento sarà quello di proporre con tutta la sua fede,
non quello di imporre, anche a rischio di essere accusato di debolezza o di
seconde intenzioni. Come evitare le ambiguità di una parola di Dio espressa con
parole umane? È il prezzo da pagare per andare avanti e aprire strade su una
linea avanzata.
UN INNOVATORE
FINO ALLA FINE
Le due ultime omelie di
padre Arrupe riflettono questa immagine che sto delineando: non quella di un
audace, ma quella di un innovatore totale. A Manila pronuncia una omelia che
contiene questa prima testimonianza: «Mi riferisco alla ri-formulazione del
fine della Compagnia, a partire dalla difesa e propagazione della fede a
servizio della fede e della promozione della giustizia. La nuova formula non è,
in alcun modo, riduttiva, de-viazionista o dis-unitiva: al contrario esplicita
elementi contenuti in germe nella vecchia formulazione, grazie a un riferimento
più esplicito alle necessità attuali della Chiesa e dell’umanità al cui
servizio siamo impegnati per vocazione». Tutta la figura e tutto il messaggio
di padre Arrupe sono espressi in questa densa sintesi.
L’altra omelia è degli
inizi di settembre del 1983, pronunciata a La Storta, luogo ignaziano per
eccellenza, dove Ignazio sperimenta il compiersi della sua preghiera di essere
posto con Cristo come suo compagno, servo della missione del Signore. Padre
Arrupe non era in condizioni di poter pronunciare questa omelia che aveva
redatto personalmente: «Chiedo al Signore che questa celebrazione, che per me è
un addio e una conclusione, sia per voi e per tutta la Compagnia qui
rappresentata, l’inizio, con rinnovato entusiasmo, di una nuova tappa di
servizio».
Nei nove anni che
seguirono a queste parole, in uno stato di apparente inutilità, non più capace
di comunicare e in grado unicamente di soffrire una lenta agonia, padre Arrupe
si sente più che mai nelle mani del Signore. Sono sue parole. Considera la sua figura
sofferente come il compiersi di ciò che ha desiderato per tutta la vita: la
profonda esperienza che oggi è il Signore stesso ad avere in mano tutta
l’iniziativa.
Questo sarà anche un
luminoso messaggio per tutti i compagni che si trovano nel pieno della vita
attiva: che non si esauriscano nel lavoro, che il centro di gravità della loro
vita non sta nelle cose da fare, ma in Dio (cf. 03.09.1983). Il messaggio che
vi rivolgo oggi è un messaggio di piena disponibilità al Signore. Cerchiamo
senza stancarci ciò che abbiamo da fare per il suo maggior servizio e
mettiamolo in pratica nel modo migliore possibile, con amore, spogliati di
tutto. Abbiamo un senso molto personale di Dio.
Hans-Peter Kolvenbach
DATI BIOGRAFICI DI P.
ARRUPE
Pedro Arrupe nasce il 14
novembre del 1907 a Bilbao, città dei paesi baschi, da cui proveniva anche
sant’Ignazio di Loyola. Il giorno dopo la nascita riceve il battesimo nella
basilica di Santiago, attualmente cattedrale.
Il primo di ottobre 1914
entra nel collegio degli Scolopi di Bilbao, dove frequenta il corso di
bacellierato fino al 1922. Nel 1923 lo troviamo a Madrid per iniziare il primo
corso di medicina nella facoltà di San Carlos.
Nel 1926 muore suo padre.
Poco dopo decide di compiere un viaggio a Lourdes con le sue sorelle. Qui
assiste ad alcune guarigioni miracolose che può verificare in qualità di
studente di medicina. Dirà: «Ho sentito Dio così vicino nei suoi miracoli, da
trascinarmi violentemente dietro di sé».
Il 25 gennaio 1927 entra
nella Compagnia di Gesù, nel noviziato di Loyola. Dopo aver iniziato gli studi
di filosofia nel monastero di Oña (Burgos), giunge il decreto di scioglimento
della Compagnia in Spagna (1932): Arrupe parte per l’esilio con i suoi compagni
e professori e continua gli studi a Merneffe (Belgio). Per frequentare la
teologia lo mandano a Valkenburg (Olanda). Intanto nella vicina Germania
sorgeva la fatidica ombra di Hitler e del nazismo. «Per me, dirà in seguito,
l’incontro con la mentalità nazista fu un tremendo shock culturale».
Il 30 luglio 1936 riceve
l’ordinazione sacerdotale a Merneffe. In settembre si trasferisce negli Stati
Uniti per compiere studi di morale medica.
Il 6 giugno 1938 riceve
una lettera del padre generale che lo destinava alla missione in Giappone,
missione che egli stesso aveva chiesto molte volte ai suoi superiori. Il 30
settembre s’imbarca da Seattle verso Yokohama.
Dopo vari mesi di
apprendimento della lingua e dei costumi giapponesi, nel giugno del 1940 è
destinato alla parrocchia di Yamaguchi, ricca di ricordi di san Francesco
Saverio.
L’8 dicembre 1941 il
Giappone entra in guerra. Il giorno dopo, padre Arrupe, viene messo in
prigione, accusato di essere una spia. Lo rinchiudono in un bugigattolo di due
metri per due. Dopo un mese è rimesso in libertà, per l’ammirazione che aveva
suscitato con il suo buon comportamento e le sue conversazioni con i carcerieri
e i giudici.
Pochi mesi più tardi
viene nominato maestro dei novizi. Parte per il noviziato di Nagatsuka, una
collina nella periferia di Hiroshima. Qui, il 6 agosto 1945, alle 8 di mattina,
è testimone dell’esplosione della bomba atomica su Hiroshima. Immediatamente
trasforma il noviziato in un ospedale di emergenza. Più di 150 persone, colpite
dalle radiazioni, sono attese da una comunità che ha a disposizione solo pochi
mezzi per sé. In seguito Arrupe scriverà un libro su questa esperienza
intitolato: Io ho vissuto la bomba atomica.
Il 24 marzo 1954 è
nominato superiore di tutti i gesuiti del Giappone, con l’incarico di vice
provinciale e gira un po’ il mondo per tenere conferenze allo scopo di
raccogliere fondi per la Chiesa del Giappone.
Il 22 maggio 1965 è
eletto generale della Compagnia di Gesù. In questa veste, seppe tracciare
itinerari, indelebili per la Compagnia di Gesù, ma che non mancarono di
influire anche su altri settori della società.
Il 2 dicembre 1974
convoca la Congregazione generale 32ª, evento che rimarrà una pietra miliare
nella storia dei gesuiti, soprattutto perché viene affermato che la fede in Dio
deve inevitabilmente andare unita alla lotta instancabile contro le ingiustizie
che gravano sull’umanità.
Il 7 agosto 1981, di
ritorno dall’oriente, dove si era recato a visitare i gesuiti di quella parte
del mondo, nel taxi che lo portava dall’aeroporto in città, a Roma, viene
colpito da una trombosi cerebrale che lo lascia paralizzato nel lato destro. Il
giorno seguente gli viene amministrato il sacramento degli infermi.
Il 26 agosto nomina un
delegato personale per accudire al governo della Compagnia nella persona del
gesuita p. Dezza. Il 3 settembre 1983, riunita la Congregazione generale, p.
Arrupe presenta la sua rinuncia all’incarico davanti a tutti i padri presenti.
Pochi giorni dopo, p. Peter-Hans Kolvenbach è eletto generale. Il suo primo
gesto è di abbracciare p. Arrupe dicendogli: «Ora non la chiamerò più padre
generale, ma continuerò a chiamarla padre».
Dopo quasi dieci anni di
dolorosa inattività e di offerta di sé per la Compagnia, la Chiesa e l’umanità,
il 5 febbraio 1991 consegna la sua anima a Dio nella casa generalizia dei
gesuiti a Roma. Alcuni giorni prima, già in agonia, era stato visitato da
Giovanni Paolo II.
Indice TESTIMONI 2007
La prima cifra rimanda al numero della rivista, la
seconda alla pagina. I titoli in neretto corsivo si riferiscono allo «speciale
ATTUALITÀ: Il messaggio
di Benedetto XVI. La grammatica della pace 1,1; Viaggio in Terra Santa.
Pellegrini sulle tracce di Gesù 1,4; Cosa si è fatto? 3,20; In merito
all’attuale dibattito. Unioni di fatto 4,1; In Africa il VII World social
forum. La sfida di Nairobi 4,4; Sviluppi del progetto culturale. In dialogo con
le culture 6,1; A 50 anni dai trattati di Roma. Rilancio dell’Europa. 7,1;
Esortazione apostolica “Sacramentum caritatis”. Mistero da credere, celebrare,
vivere 7,4; I rapporti Cina-Vaticano. Quali ancora gli ostacoli? 8,23; Grido di
allarme di mons. Sako. Un Iraq senza cristiani? 9,1; Grandi laghi, quali
prospettive? Tacciono le armi ma non è pace 9,20; Il Papa in Brasile ad
Aparecida. Aperti i lavori del Celam 10,1; Udienza del Papa all’Uisg. Coltivate
la dimensione “mistica” 10,10; La fede del papa teologo. Un bel libro da
leggere 12,18; La situazione in Palestina e Libano. Non si vede una via
d’uscita 16,19; Dopo la marcia dei monaci. La Birmania non resti sola 18,1;
Quale Natale in Terra Santa? 21,1.
ATTUALITÀ (in Italia):
Settimana sociale cattolici italiani. Bene comune ma senza trincee 19,1.
ATTUALITÀ (nel mondo):
Ucciso p. Ragheed. Altri martiri nel tormentato Iraq 12,6; Assemblea della
Caritas internationalis. Un grido d’allarme 13,1.
CHIESA NEL MONDO: Ultimi
sviluppi. La Chiesa guarda alla Cina 3,1; Il Papa ai religiosi. Ardete di
questa fiamma 4,11; V Assemblea del Celam. Nuovo slancio alla missione 8,1; 80º
genetliaco di Benedetto XVI 8,10; Aumentano le conversioni. Essere cristiani in
Cina 8,21; Ripercorrendo le precedenti conferenze. Il cammino fino ad Aparecida
10,4; Dopo la conferenza del Celam. In cammino nel secolo XXI 12,1; La donna
nella Chiesa locale. Al di là del “fare” 13,8; Annunciato dal Papa per il
2008-2009. Un anno giubilare paolino 14,4; Una lettera annunciata da mesi. Il
Papa scrive alla Chiesa cinese. 14,7; Il parere del card. J. Zen 14,8; Il Papa
all’Agorà dei giovani a Loreto. “Andate controcorrente” 15,1; Viaggio del papa
in Austria. Ha parlato a tutta l’Europa 16,1; Nuove frontiere della missione
della Chiesa. Ateismo di ritorno 19,4; Ateismo di ritorno (2). Etica e
spiritualità senza Dio? 20,4; Rileggendo il documento di Aparecida. Alcune luci
e diverse ombre 20,21; Ateismo di ritorno (3). Ragioni per credere 21,25.
CHIESA NEL MONDO
(sinodi): A 40 anni dalla Populorum Progressio. Proposte ancora valide 3,19;
Verso la V assemblea Celam. Da Rio de Janeiro ad Aparecida 7,17.
CHIESA IN ITALIA: Il
sinodo dei vescovi. I religiosi e la Parola di Dio 12,4; Verso la 45ma settimana
sociale. A tema il bene comune 17,1; I nuovi Lezionari 21,7.
DIALOGO CON I LETTORI:
Scarsità e abbandoni 14,30; “Il carisma dei religiosi è solo dei religiosi?”
19,29.
ECUMENISMO-RELIGIONI: Il
viaggio del Papa in Turchia. Dalla critica alla stima aperta 1,7; La gioia di
chi era là 1,8; Settimana di preghiere per l’unità dei cristiani. Rompere
insieme il silenzio 2,1; Visita di Christodoulos a Roma. Si apre una nuova
tappa 2,7; Incontro di Chrisostomos con il papa. Messaggero di buone notizie
13,4; Terza assemblea ecumenica europea. A Sibiu per ripartire. 14,1;
L’ecumenismo dopo l’assemblea di Sibiu. Realismo dopo l’utopia 16,23; 138 guide
musulmane ai leader cristiani. Una parola comune tra noi e voi 19,7.
EDUCAZIONE-SCUOLA: Il
Centro educativo ignaziano. Gesuiti e Ancelle. La “caduta del muro” 3,6.
INFORMAZIONE
BIBLIOGRAFICA: La stessa acqua fa galleggiare o affondare 1,30; Crescita
personale e comunità religiosa 2,30; Il grido dell’amore 3,30; Piegati ma non
spezzati 4,30; Aiuto fraterno 5,30; Donna dell’unità 6,30; Formare per
trasformare 7,30; Un monaco straordinario. Padre Benedetto Calati 8,30; Con
occhi spalancati 9,30; Non più schiave 10,30; Lectio degli Atti degli apostoli
11,30; Per la catechesi e l’iniziazione cristiana 12,30; Una catechesi familiare
e giovanile 13,38; San Benedetto e l’impresa moderna 15,30; Rinnovamento vc e
famiglia francescana 16,30; Attenzioni “pastorali” nuove 17,30; Cristiani
iracheni: stranieri in patria 18,30; Una vita affidata a Dio 19,30.
MOVIMENTI-ASSOCIAZIONI:
II incontro europeo dei movimenti. Insieme per l’Europa 12,16.
MISSIONE “AD GENTES”:
Chiamati per essere inviati. La missione richiede l’amore 9,9; Cinquant’anni di
“Fidei donum”. Un ponte tra le Chiese. 10,18; Un nuovo sinodo speciale per
l’Africa. Continente da riconciliare 11,7; I francescani tra i musulmani. Con
lo stile di san Francesco 17,9; Interrogativi sulla missione. L’Ad gentes in
transizione 17,20; Credere, vivere, donare. Missione: scambio di doni 18,4.
PASTORALE: Giornata
mondiale del malato. Non solo curare ma prendersi cura 2,4; Messaggio consiglio
permanente CEI. Amare e desiderare la vita 2,6; Convegno del centro nazionale
vocazioni. Vocazioni crisi vera o presunta? 2,9; Un argomento da approfondire.
Lettura liturgica delle scritture 2,15; V convegno
PSICOLOGIA-VITA
SPIRITUALE: Riflessioni psicologiche. Quando uno è in crisi 17,7.
QUESTIONI SOCIALI: VI
Rapporto Caritas. Vite fragili presenza quadruplicata 2,19; Rapporto di Amnesty
international. Politiche della paura 13,27; Seminario sulla “tratta” degli
schiavi oggi. L’impegno delle religiose 20,19.
SPIRITUALITÀ: La beata
Elisabetta della Trinità. Con il cielo dentro il cuore 1,15; Semplicità virtù
da scoprire. Essere semplici non è così semplice 2,12; Forum internazionale dei
giovani orionini. La speranza? Ascoltiamo i santi 3,14; Il digiuno nei testi
liturgici della quaresima. Ancora possibile parlare di “digiuno”? 4,6; Un
cardine di tutta la vita spirituale. Preghiera contemplativa 4,22; Alcuni
suggerimenti pratici 4,29; Tempo di Quaresima. Aprire a Dio che bussa 5,1;
Lectio divina quotidiana. Quando Dio parla al cuore 5,23; Dio e la sofferenza
dell’uomo. Croce rivelazione dell’amore 6,22; 15 maggio: domenica della
misericordia. Misericordia ma anche giustizia 7,6; Dalla Pasqua alla
Pentecoste. Un unico ottavo giorno 7,9; Da una meditazione di p. R.
Cantalamessa. Mitezza virtù dei forti 8,11; Meditando sulle quattro “note”. Uno
sguardo d’amore sulla Chiesa 8,13; L’esperienza di M. Maddalena de’ Pazzi. Il
tempo della prova 8,16; Assumere i sentimenti del Signore. Centralità di Cristo
nella VC 8,25; Omelia di p. Raniero Cantalamessa. “C’erano anche alcune donne”
9,6; Spiritualità apostolica nel quotidiano. “Un giorno davanti a Te” 10,15;
Meditazione biblica. Dov’è Dio? Domanda o grido? 13,14; Lettera del rettor
maggiore dei salesiani. “Farsi eucaristia” 14,10; Il dono del timore di Dio.
Umili davanti a Dio 14,12; All’origine del dono e del servizio. Vedere con il
cuore 15,23; Il papa ai sacerdoti e ai religiosi. “Siate come lampade” 16,4; Il
discernimento come esperienza di fede 16,9; Per una comprensione dei voti
religiosi. Nella luce della redenzione 18,13; Per diventare persone
spiritualmente adulte. Amicizia con Dio e maturità 19,13; Riflessione per il
tempo liturgico. Avvento e “conversione” 20,7; Spiritualità del tempo di Natale
21,4.
TESTIMONIANZE: I
“martiri” del 2006. Servi dell’amore 2,23; La scomparsa dell’abbé Pierre. Un
gigante della misericordia 3,16; Ricordo di don Andrea Santoro. A Trabzon un
anno dopo 5,5; Un santo alla nostra portata 6,15; Jean Therry Ebogo. Un fiore
profumato del Camerun 6,19; Maria Rosa Pellesi. Come oro nel crogiolo 9,12; Un
amico sufi ricorda p. Ragheed. Era l’innocenza fatta persona 15,8; Suor Maria
degli Angeli Beretta. Un cuore assetato di verità 15,21; A dieci anni dalla
scomparsa. Madre Teresa e il silenzio di Dio 17,16; Antonio Rosmini proclamato
beato. Lontano precursore del Vaticano II 19,15; Scomparsa di don Oreste Benzi.
Ha lasciato un’eredità d’amore 20,10; Marianna Nasi. Il profumo della carità
21,14; P. Arrupe. Un interprete audace del concilio 21,29.
TEOLOGIA: Linee di
ricerca e riflessione. Gesù visto dall’Africa 13,25
VOCE DELLO SPIRITO: Una
comunione oltre ogni frontiera 1,21; La parola sorgente di amore. 2,22; Sguardo
a Colui che hanno trafitto 4,21; Al cuore della Chiesa c’è il Cuore di Gesù
5,22; Lo sguardo di Gesù su Pietro 6,21; Incontro con il Risorto. Una comunità
che racconta 7,22; Il discepolo che Gesù amava disse: “È il Signore” 8,24; Con
Maria nel cenacolo 9,23; I sette santi doni 10,22; Dio ci ama con cuore nuovo
11,21; L’amore calato nel quotidiano 12,21; Vedi la Trinità se vedi l’amore.
13,29; Maria assunta in cielo 14,21; Fa’ della tua vita un dono d’amore 15,22;
Da’ tutto datti tutto 16,22; Con Maria doniamo a Dio la nostra umiltà 17,19;
Siate santi! 18,22; Il senso cristiano della morte 19,20; Dio vuole trovare
casa nel nostro cuore 20,23; È venuto a insegnarci come credere 21,28.
VITA CONSACRATA: Per
vivere con gioia e frutto la vocazione 1,12; Seminario di studio. Vita
consacrata e dottrina sociale 1,18; “Signore dove abiti?” 1,22; Messaggio Cei
ai consacrati 2,18; Una domanda senza pregiudizi. Che cosa si è eclissato? 3,9;
Un interrogativo inquietante. Cristo l’emarginato? 3,11; P. Nava ai membri
delle curie generalize. C’era una volta la visita canonica 3,23; La profezia
della VC nella Chiesa di oggi. Una vita samaritana 4,9; I vescovi e i religiosi
tedeschi si interrogano. Come servire il vangelo 4,12; Prime risposte di alcuni
generali. Vita consacrata. Un futuro “incerto” 5,9; Incontro alla dehoniana
libri di Roma. Affettività cammino di crescita 5,14; Cooperazione
religiosi-laici. Insieme per servire 5,19; Alcuni vescovi nella giornata per la
VC. “Grazie perchè ci siete” 6,4; La comunità religiosa. Luogo di crescita
7,12; Dal documento finale del capitolo generale straordinario OFM. Il Signore
parla lungo il cammino 7,23; In dialogo con mons. Gardin.
VC - FORMAZIONE: Fr.
Alvaro Echeverrìa sulla formazione. Lasciare che Dio agisca in noi 4,15;
Settimo incontro formatori cappuccini. Crescere nella fede e in umanità 4,18;
Un argomento spesso trascurato. Le virtù umane nella formazione 6,9; Intervista
a G. Crea. Disagi e stress in comunità 11,10; Una formazione permanente globale.
Quando nella vita occorre una svolta 13,6; Un impegno di formazione permanente.
Educarsi alla relazione 16,7; Riflessioni psicologiche 2. Quando uno ci ripensa
18,7.
VC - ISTITUTI SECOLARI:
Simposio 60 anni dalla “Provvida Mater Ecclesia”. Questo è il tempo per noi
6,6.
VC - MONACHESIMO:
Incontro monaci e monache vallombrosani. Un primo passo per camminare insieme
17,11; Cristocentrismo nella vita benedettina. “Nulla antepongano a Cristo”
20,24.
VC - VITA DEGLI ISTITUTI:
I dati più recenti di 205 istituti religiosi maschili. Un calo inarrestabile?
12,9; Capitolo generale Servi di Maria. Quale povertà oggi? 21,12.
VC - VITA DEGLI ISTITUTI
(maschili): I camilliani in vista del capitolo. A tema “giustizia e
solidarietà” 1,10; Convegno internazionale dei mercedari. Schiavi di ieri e di
oggi 1,13; Programma dei missionari della Consolata. Prima santi e poi
missionari 6,12; I comboniani e il servizio dell’autorità. Il superiore
parola-chiave 7,15; Lettera di Pasqua dell’abate Tiribilli. Terza età evento
pasquale 8,7; Il fondatore dei dehoniani Leone Dehon. Un beato “in lista
d’attesa” 9,14; Il 56º capitolo generale dei camilliani. Ricerca di strade
nuove 11,15; Convegno internazionale salesiano. Dal cuore di Dio al cuore
dell’uomo 14,19; Il XV capitolo generale dei saveriani. Perchè e come essere
missionari 15,17; Convegno di studio degli assunzionisti. Ritorno a Oriente
17,14; Lettera del generale degli orionini. Le vocazioni priorità assoluta
18,16; Capitolo generale dell’ordine domenicano. Verso il futuro con gioia e
speranza. 20,13; Centenario della “formula vitae”. Lettera dei superiori
generali Oc-Ocd 20,14. Terzo capitolo delle stuoie. “Tornate ogni giorno al
primo amore” 15,14.
VC - VITA DEGLI ISTITUTI
(femminili): Le figlie di S. Paolo. Un capitolo per “andare oltre” 16,11.