“CHIEDETE PACE PER GERUSALEMME ….”

QUALE NATALE IN TERRA SANTA?

 

La condizione per i cristiani in Israele diventa sempre più difficile. Le nuove restrizioni d’ingresso imposte dal governo colpiscono direttamente anche religiosi, sacerdoti e seminaristi, limitando o impedendo loro il libero movimento. Le previsioni per il futuro sono molto oscure.

 

Il pellegrinaggio in Terra Santa, al di là dei suoi obiettivi religiosi, è anche l’occasione per rendersi conto di come evolve la situazione in questa terra di cruciale importanza nello scacchiere politico mondiale. E se il pellegrinaggio si svolge, come nel mio caso, a scadenza annuale, è ancora più facile misurare le variazioni della «temperatura» politica locale. Certo prima di tutto un pellegrinaggio è l’occasione per conoscere e amare quella terra e le sue popolazioni, siano esse ebraica o palestinese, cristiana o musulmana.

 

UNA “TREGUA”

NEL CONFLITTO, MA

 

Il momento politico attuale è caratterizzato da quello che gli osservatori chiamano una “tregua” nelle ostilità. Questa parola l’abbiamo sentita a più riprese nel corso del pellegrinaggio (11-24 novembre 2007). Ciò non significa affatto che i problemi siano finiti. Magari lo fossero! Il fatto è che tutti sono stanchi di questo conflitto infinito. La guerra dell’estate 2006 ai confini del Libano ha indebolito la credibilità del governo israeliano di Ehud Olmert, compromesso non solo dall’insuccesso di quella guerra, che gli Hezbollah libanesi dichiarano di aver vinto, ma anche dagli scandali morali che hanno coinvolto figure istituzionali di primo piano, come il presidente della Repubblica e il ministro della guerra. Dall’altra parte tutto questo non ha risollevato le sorti del popolo palestinese, oggi diviso al suo interno fra le fazioni di Hamas e di Al Fatah e incapace quindi di trarre profitto dall’attuale congiuntura politica. Nei giorni in cui eravamo in Israele, l’attenzione del mondo intero era rivolta all’imminente Conferenza per il Medio Oriente di Annapolis (Maryland) in USA, dove il presidente George W. Bush, impantanato ormai nella sua guerra dell’Irak, vorrebbe riscattare la sua immagine politica internazionale prima della fine del suo mandato, giungendo a una risoluzione che ponga fine al conflitto israelo-palestinese. Purtroppo molti osservatori temono una ripetizione dell’incontro di Camp David del luglio 2000, quando il presidente Bill Clinton, in analoghe circostanze, aveva fatto di tutto per portare Ehud Barak e Yasser Arafat a un accordo di pace, svanito per l’intransigenza di quest’ultimo.

La tregua, ovviamente, non significa la pace, eppure durante il pellegrinaggio abbiamo visto autentiche folle di pellegrini, di gran lunga più numerosi dello scorso anno, segno che c’è più fiducia. Ma sempre nel corso del pellegrinaggio ci siamo resi conto che i palestinesi sono ancora soggetti alle solite ingiuste restrizioni, che prosegue la costruzione del “muro della vergogna” che li rinchiude nei «territori» come in una prigione, che i militari israeliani entrano ancora, a loro piacimento, nella terra dei palestinesi, che si continua a costruire, sul territorio palestinese nuovi insediamenti ebraici (gli addumin) e tutto questo in spregio delle risoluzioni dell’ONU e delle promesse di Israele. Tutto ciò per la sicurezza nazionale, obiettivo unico della politica di Israele. Certo oggi la sicurezza è minacciata dalle proposte insensate del presidente iraniano, Mahamoud Ahmadinejad, che vuol colpire Israele con le armi nucleari. Anche se questa minaccia, verosimilmente, non sarà messa in atto, offre pur sempre un valido pretesto a Israele per indurire le sue posizioni bellicose. E chi ne fa le spese è la popolazione palestinese. Ancora una volta si comprende che la pace nella terra di Gesù non è vicina e che da essa dipende la pacificazione di tutta la regione mediorientale.

 

NUOVE RESTRIZIONI

SUI VISTI D’INGRESSO

 

Quasi tutto ciò non bastasse, una nuova preoccupazione è venuta a complicare la vita delle comunità cristiane palestinesi, già molto provate dalla guerra e dall’emigrazione che ha assot­tigliato le loro fila, passate in questi ultimi tempi dal 10% al 2% della popolazione israeliana. Sempre per ragioni di sicurezza in questi ultimi mesi il ministero degli interni israeliano ha deciso di limitare l’entrata degli stranieri. Ufficialmente si tratta di un provvedimento volto a limitare l’ingresso in Israele agli stranieri in possesso di un visto «per una sola entrata» provenienti dai “paesi nemici”. Tuttavia esso è stato subito applicato anche ai cittadini della Giordania e dell’Egitto, due paesi arabi che hanno firmato un trattato di pace con Israele. Ora si dà il caso che, tra coloro che sono oggetto di tali restrizioni, ci siano molti sacerdoti, religiosi e religiose, seminaristi e altre persone della chiesa cattolica, sicché ciò che potrebbe sembrare una restrizione “normale” in un tempo di conflitto, finisce per colpire in modo molto grave la vita delle comunità cristiane in Terra Santa e, in particolare, il Patriarcato latino di Gerusalemme, che include Palestina, Israele e Giordania. Le stesse restrizioni sono applicate ai frati francescani della Custodia della Terra Santa, ai membri della Chiesa melchita (i cristiani greci in comunione con Roma), alle congregazioni religiose e ai seminaristi del seminario del Patriarcato latino di Beit Jala, la maggior parte dei quali sono di nazionalità giordana. A tutti questi non sarà più permesso di spostarsi all’interno delle loro comunità, dato che chi, per ragioni di ministero, di famiglia o per eventuali emergenze, deve uscire da Israele, perde il suo “visto di residenza” e richiederlo, mentre si trova fuori del paese, comporta un’attesa di 3-4 mesi senza, per altro, aver la certezza di riacquistarlo.

Già oggi i preti palestinesi per entrare in Israele o recarsi a Gerusalemme, devono avere un permesso delle autorità militari israeliane, che fissano loro il luogo di entrata e la durata del soggiorno, non possono usare la propria macchina per spostarsi e devono sottoporsi a umilianti controlli ai check-point, sempre con pericolo di trovarsi davanti ad arbitrarie e imprevedibili chiusure dei «territori». Queste nuove disposizioni impediscono al clero e ai religiosi di programmare qualsiasi normale lavoro pastorale e di partecipare alle cerimonie religiose nei Luoghi santi, come pure agli incontri mensili e ai ritiri organizzati dal Patriarcato latino. Le previsioni per il futuro sono purtroppo oscure e preoccupanti. Se, come si teme, Israele dovesse applicare con rigore le nuove restrizioni, entro giugno 2008 la Chiesa cattolica perderebbe molto del suo clero che proviene, in prevalenza, dalla Giordania, il seminario di Beit Jala, che dal 1852 forma tutto il clero per tutta la Terra Santa, dovrebbe chiudere e molte parrocchie rimarrebbero senza parroco. Un alto ecclesiastico del Patriarcato, nel corso della visita, ci faceva notare che purtroppo i ritardi e le complicazioni burocratiche per i visti del personale di cui la Chiesa ha bisogno, sono già una realtà. Per questo il patriarca Michael Sabbah si sta adoperando in ogni modo per scongiurare questa situazione e sta chiedendo l’aiuto politico di chi può influire in Israele, perché la soluzione di questi problemi non si trova in Vaticano, ma a Washington e nelle cancellerie europee.

 

I RAPPORTI

ISRAELE-SANTA SEDE

 

La libertà della Chiesa nella sua ­gestione ordinaria è stata fissata nel­l’«Accordo fondamentale fra la Santa Sede e lo stato di Israele» del 30 dicembre 1993. Tale «Accordo» comportava un altro «Accordo giuridico», firmato nel 1997 ma mai entrato in vigore, e un «Accordo economico» per la risoluzione di tre questioni delicate: le proprietà della Chiesa ingiustamente espropriate o sottoposte a ingiuste servitù; i servizi che la Chiesa rende alla popolazione israeliana, sia essa di origine ebraica o palestinese che, a parità di servizi, dovrebbero essere ricompensati allo stesso modo delle istituzioni statali; la questione delle tasse per le quali la Santa Sede chiede una cosa semplice e naturale: e cioè che quello che è avvenuto durante gli ultimi tre secoli, ciò che Israele ha promesso al momento della sua indipendenza nel 1948, ciò che è sottinteso con la firma dell’Accordo giuridico, ciò che di fatto avviene fino a questo momento in materia di esenzione di tasse per le istituzioni religiose cristiane, sia cristallizzato giuridicamente in un accordo di valore internazionale regolare.

Mons. Pietro Sambi, ora nunzio a Washington, che è stato delegato apostolico e nunzio in Israele dal 1998 fino al 2005, in una intervista rilasciata il 16 novembre 2007 a Giuseppe Caffulli, ha denunciato il verificarsi in Israele di una “strana situazione: gli accordi già firmati, quello Fondamentale e quello Giuridico, sono validi internazionalmente, ma non sono validi in Israele, perché la legge israeliana rende obbligatoria l’approvazione della Knesset (il Parlamento israeliano) perché un accordo valido internazionalmente diventi valido sul territorio israeliano. E l’approvazione della Knesset nessuno ha avuto la preoccupazione di chiederla. L’Accordo economico, dopo quasi dieci anni di trattative rese inutili da rinvii degli incontri da parte della delegazione israeliana, da mancanza di poteri della medesima nelle trattative, in una parola per assenza di volontà politica, non è stato ancora firmato. È sotto gli occhi di tutti quale fiducia si possa accordare alle promesse d’Israele! Il problema dei visti per il personale religioso cattolico era di più facile soluzione quando non esistevano i rapporti diplomatici tra la Santa Sede e Israele”. Interrogato poi su come egli vedesse la situazione dei rapporti di Israele con la Chiesa cattolica, il nunzio Sambi, con la franchezza tutta romagnola che lo caratterizza, ha risposto: «Se devo essere franco, le relazioni tra la Chiesa cattolica e lo stato d’Israele erano migliori quando non c’erano i rapporti diplomatici».

L’avvicinarsi delle feste natalizie ci porta tutti idealmente in Terra Santa presso la grotta di Betlemme e ci invita a pregare per la pace in quel paese e affinché Israele comprenda che la sicurezza, cui la sua popolazione ha certamente diritto, non si raggiunge costruendo muri invalicabili, ma ponti di comunicazione, non aumentando il numero dei paesi nemici, ma allargando la base di quelli amici. L’arcivescovo Sambi, nella stessa intervista, ha citato a memoria un detto rabbinico che afferma che «il generale più valoroso non è quello che travolge il nemico, ma quello che sa trasformare il nemico in amico».1

 

Gabriele Ferrari s.x.

Tavernerio 26 novembre 2007

 

1 La conferenza che si è tenuta ad Annapolis (Maryland) negli Stati Uniti per iniziativa del presidente americano Bush l’ultima settimana di novembre e che ha riunito insieme i rappresentanti del governo dello stato d’Israele e del Movimento per la liberazione della Palestina, nelle persone del primo ministro israeliano Ehud Olmert e del presidente Mahamoud Abbas, alias Abu Mazen, chairman del comitato esecutivo e dell’Autorità palestinese, potrebbe segnare una svolta, speriamo definitiva, nel conflitto israeliano-palestinese, dopo decenni di conflitti e di violenze. Le due parti infatti hanno firmato una dichiarazione congiunta (Joint Understanding) in cui esprimono la determinazione di voler giungere a creare due stati indipendenti e di avviare immediatamente, a questo scopo, negoziati bilaterali che portino a concludere un trattato di pace che risolva le questioni pendenti. D’ora in poi, essi si impegnano a incontrarsi ogni due settimane, mentre una commissione congiunta si riunirà regolarmente a partire dal 12 dicembre prossimo. I due leader, inoltre, si propongono di giungere a un accordo prima della fine del 2008, rispettando la Road Map del 2003, messa a punto dal cosiddetto “quartetto” (Usa, Russia, UE e ONU) che prevedeva un percorso a tappe per giungere a una pace stabile e alla creazione di uno stato palestinese indipendente e democratico.

C’è da augurarsi che questo piano abbia successo e segni anche per i cristiani di queste terre l’inizio di un’epoca nuova.


IL MESSAGGIO LITURGICO

SPIRITUALITÀ DEL TEMPO DI NATALE

 

Al centro della celebrazione del Natale-Epifania sta l’evento storico dell’incarnazione del Verbo. Ma non è una semplice commemorazione di un fatto storico del passato. La Chiesa “oggi” celebra l’unione dell’umanità con la divinità realizzata nell’incarnazione del Verbo e che “oggi” continua ad attuarsi nella vita dei credenti.

 

Il Tempo di Natale è la seconda parte del “ciclo della manifestazione del Signore” di cui fa parte anche l’Avvento. Questo tempo liturgico va dalla solennità di Natale (25 dicembre) alla festa del Battesimo del Signore (domenica dopo l’Epifania). È un tempo liturgico che è radicato nelle tradizioni popolari ed è profondamente sentito anche ai nostri giorni. Basta vedere come cambia nell’imminenza di queste festività l’aspetto delle nostre città per accorgersene. Questo non è un male e non dobbiamo nemmeno condannarlo come vuoto consumismo. Anche nelle manifestazioni esteriori infatti si può nascondere qualcosa di autentico che, qualora valorizzato e indirizzato correttamente, può essere l’espressione di un desiderio che non è detto non possa trovare una risposta nell’annuncio evangelico. Tuttavia occorre fare attenzione a non attribuire a questo tempo liturgico dei significati che non gli appartengono. Se, come ho detto, le tradizioni e le manifestazioni esteriori possono essere un bene, tuttavia sono esse a doversi lasciar illuminare dalla celebrazione del Natale e non essere loro a imporre alla celebrazione liturgica dei contenuti che non le sono propri o sono troppo parziali.

 

NATIVITÀ

ED EPIFANIA

 

Nel tempo di Natale possiamo individuare innanzitutto due “feste” principali che fanno da cornice a tutto questo tempo liturgico e, insieme, ne esprimono bene il mistero che vi si celebra. Sono la Natività del Signore (25 dicembre) e l’Epifania (6 gennaio). Esse sono in stretto rapporto tra di loro e celebrano sottolineature differenti del medesimo mistero dell’incarnazione e della manifestazione del Signore. Nella loro origine tuttavia nascono in modo distinto (IV sec.). L’Epifania nasce in oriente (dove oggi si celebra principalmente il mistero del Battesimo del Signore) e il Natale in occidente: un influsso reciproco porta in un secondo momento ad assumere entrambe le feste sia in oriente, sia in occidente mantenendo le varie sottolineature che entrambe le tradizioni attribuivano all’una e all’altra. Per cogliere l’autentico significato della celebrazione del tempo di Natale occorre fare attenzione a non separare le due dimensioni di cui Natività ed Epifania sono portatrici, ma a tenerle strettamente unite tra di loro.

 

NEL RITMO

ANNUALE DEL TEMPO

 

Le feste del tempo di Natale nascono intorno al solstizio di inverno. Questa collocazione non è casuale. Nei testi liturgici troviamo molto spesso dei riferimenti al tema della luce che viene a essere l’elemento simbolico principale per esprimere il “mistero della salvezza” che la Chiesa celebra in questo tempo. Anche i Padri della chiesa non ignorano l’importanza del riferimento ai ritmi della natura. Ad esempio in un suo sermone san Massimo di Torino diceva: Per quanto io taccia, fratelli, il tempo ci ricorda che il natale di Cristo Signore è vicino; l’estrema contrazione dei giorni, infatti, previene la mia predicazione. Con le sue stesse angustie il mondo annuncia che sta per accadere qualcosa che lo riporterà al meglio e desidera, trepidante nell’attesa, che il chiarore di un sole più splendente illumini le sue tenebre (Sermone 61a,1).

Come la luce del giorno, a partire da questo giorno “più piccolo” (s. Agostino), sottrae progressivamente spazio alle tenebre della notte, così la Chiesa celebra nell’incarnazione del Verbo l’inizio della salvezza. Quello della luce è un tema biblico che troviamo anche nei testi che maggiormente ritornano nel lezionario del tempo di Natale: Gv 1,4-5.9; Lc 2,9.

«Per questo misterioso scambio _di doni» (I testi liturgici)

Al centro della celebrazione del Natale-Epifania sta certamente l’evento storico dell’incarnazione del Verbo. Ma non si tratta di una semplice commemorazione di un fatto storico del passato. Infatti, radicandosi in un evento fondante, per sua natura, avvenuto una volta per tutte e irrepetibile, la Chiesa “oggi” celebra l’unione dell’umanità con la divinità che si è realizzata nell’incarnazione del Verbo e che “oggi” continua ad attuarsi nella vita dei credenti. È quanto si afferma in un testo liturgico del tempo di Natale nel quale la Chiesa afferma:la nostra debolezza è assunta dal Verbo, l’uomo mortale è innalzato a dignità perenne e noi, uniti a te in comunione mirabile, condividiamo la tua vita immortale (Prefazio di Natale III). Leone Magno in un famoso sermone del tempo di Natale diceva: Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati che, strappato al potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce del Regno di Dio. Con il sacramento del battesimo sei diventato tempio dello Spirito Santo! (Tractatus XXI,3). In questa prospettiva possiamo cogliere il senso più profondo della celebrazione del Natale: «il Natale è la celebrazione dell’incarnazione di Cristo in questo mondo, in questa società, mediante il “parto” della Chiesa-Madre» (G. Cavagnoli).

Nella liturgia del Natale troviamo molti altri testi liturgici che vanno in questa direzione e che dovrebbero realmente plasmare la nostra preghiera in questi giorni. Nella colletta della celebrazione eucaristica “della notte” la Chiesa prega: O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo, concedi a noi, che sulla terra lo contempliamo nei suoi misteri, di partecipare alla sua gloria nel cielo. Il testo quindi si chiede, come frutto della celebrazione del Natale, che la Chiesa possa aver parte alla stessa vita di Cristo. Ancor più esplicita e chiara è l’orazione sulle offerte sempre della celebrazione “della notte”:Accetta, o Padre, la nostra offerta in questa notte di luce, e per questo misterioso scambio di doni trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha innalzato l’uomo accanto a te nella gloria. Infine nella colletta della celebrazione “del giorno” si chiede di poter condividere la “vita del Figlio” e lo si fa ricorrendo a un linguaggio che rimanda alla creazione: O Dio, che in modo mirabile ci hai creati a tua immagine, e in modo più mirabile ci hai rinnovati e redenti, fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio, che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana. La celebrazione del Natale è quindi per la Chiesa una “nuova creazione” o una “rinascita”. Leone Magno nel VI Sermone sul Natale affermava: mentre adoriamo la nascita del nostro Salvatore, ci troviamo a celebrare anche la nostra nascita.

«È apparsa la gloria di Dio» (Alcuni spunti dal Lezionario)

Nella solennità della Natività del Signore (25 dicembre) la liturgia romana propone delle letture ricavandole da quelle usate tradizionalmente da questa famiglia liturgica in occasione delle festività natalizie (cfr. OLM, 95). Un interessante accostamento di letture è costituito dai tre brani proposti come seconda lettura per le celebrazioni “della notte”, “dell’aurora” e “del giorno”. Letture che – come avviene di solito per la seconda lettura delle domeniche e delle solennità – presentano in modo particolare il legame tra il mistero celebrato e la vita dei credenti. Naturalmente questo aspetto non è assente dalle altre letture (I Lettura e Vangelo), ma è particolarmente centrale per quanto riguarda la seconda lettura, che spesso ha anche un carattere parenetico-esortativo.

Il 25 dicembre il Messale Romano propone, secondo una antica tradizione della Chiesa di Roma, tre formulari per la celebrazione eucaristica con tre cicli di letture differenti. Se accostiamo i tre testi del Nuovo Testamento proposti come seconda lettura, possiamo cogliere nell’insieme il messaggio che la liturgia di questo giorno dà circa il rapporto tra il mistero dell’incarnazione del Verbo e la vita dei credenti che celebrano tale mistero nell’azione liturgica.

Per la celebrazione “della notte” e la celebrazione “dell’aurora” il lezionario propone due brani della lettera a Tito, che svolgono un ruolo ben preciso all’interno della struttura della lettera stessa. Nella Lettera a Tito infatti i brani 2,11-14 e 3,4-7 costituiscono i punti cardine della struttura poiché rappresentano la giustificazione dottrinale del comportamento morale che la lettera indica al suo destinatario. Per la celebrazione “del giorno” invece la liturgia propone la solenne e splendida apertura della Epistola agli Ebrei (1,1-6). Testo estremamente forte, che, con espressioni molto dense, mette davanti agli occhi dei credenti tutta la storia della salvezza e in essa colloca la novità del Figlio.

Sono letture attraversate da una profonda emozione, che traspare anche dalla loro forma letteraria che le avvicina a dei “canti”, contemplazione degli autori sacri che si sentono come coinvolti e partecipi della presenza-potenza di Dio che si manifesta nella storia:

– Tt 2,11-14 (notte): Si è manifestata la grazia di Dio apportatrice di salvezza…

– Tt 3,4-7 (aurora): Quando si sono manifestati la bontà di Dio salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini…

– Eb 1,1-6 (giorno): Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio…

Tre testi nei quali si percepisce lo stupore per l’auto-comunicazione di Dio che in Gesù giunge al suo compimento. È un po’ come nel prologo del Vangelo di Giovanni (brano di Vangelo del giorno di Natale) dove con emozione l’autore afferma che il Verbo di Dio, colui che eternamente è rivolto (in relazione con) verso il Padre, «si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi» (Gv 1, 14), compimento di un “progetto di vita”… perché da sempre nel pensiero di Dio c’era la vita.

Questa auto-comunicazione di Dio viene descritta come una manifestazione, una epifania che porta salvezza e che è motivata unicamente dall’amore di Dio per gli uomini; viene descritta come “parola” che attraversa la storia e che giunge al suo compimento. Ma davanti a questa manifestazione e davanti a questa parola l’uomo non è un estraneo spettatore, ma è profondamente coinvolto. Da qui la profonda emozione di questi testi: il progetto di Dio in cui era vita (Gv 1,4) giunge a compimento e la vita diviene “luce” per gli uomini (cf. J. Mateos - J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 306-309), perdono e salvezza.

Nella mia carne…

I testi biblici e liturgici che abbiamo brevemente preso in considerazione ci salvano dal rischio di rinchiudere la celebrazione del tempo di Natale nei confini troppo stretti di un “presepe”, e ci donano uno sguardo contemplativo sulla storia, uno sguardo che sa riconoscere nell’oggi di ogni tempo e di ogni uomo e donna l’incarnazione del Verbo. Sarà semmai il “presepe” a lasciarsi attrarre verso orizzonti più ampi e più ricchi.

Certamente nulla sarebbe possibile senza la nascita di Gesù a Betlemme duemila anni fa, ma la celebrazione liturgica del Natale non può essere ridotta a un nostalgico ricordo di un fatto commovente e toccante del passato. Quel fatto ha trasfigurato la storia, ha fatto nascere un mondo nuovo, una nuova creazione. Celebrando il Natale “oggi”, noi celebriamo il nostro essere “resi figli” in colui che è il “primogenito” e il “pioniere” (cf. Eb 2,10) che ci guida al compimento della nostra “vocazione celeste”. I padri della chiesa d’oriente, parlando del senso dell’incarnazione, dicevano che «Dio si è fatto uomo, perché l’uomo diventi Dio». Qui sta il senso della nostra celebrazione del Natale “oggi”, è in noi che il Cristo oggi deve nascere, nella sua Chiesa. Noi non attendiamo più una nascita del Cristo nella carne… ma attendiamo il compimento quando tutto e in tutti sarà Cristo (cf. Col 3,11).

Si domanda Origene in una delle sue omelie sulla Genesi: A che serve… dire che Gesù è venuto soltanto nella carne che ha preso da Maria e non mostrare che è venuto anche nella mia carne? (Omelie sulla Genesi 3,7 in: Maria. Testi teologici e spirituali, Milano 2000, 67-68). Egli elenca gli aspetti della vita degli uomini e delle donne nei quali la venuta di Cristo nella nostra carne può manifestarsi. Secondo il grande “biblista-teologo” del II-III secolo io potrò dire che Cristo è nato nella mia carne se avrò fatto morire le mia membra che sono sulla terra… se porto in ogni momento nel mio corpo la morte di Cristo (cf. 2Cor 4,10)… se sono divenuto una cosa sola con lui con una morte simile alla sua (Rm 6,5)… In fondo Origene afferma che l’incarnazione di Cristo in noi, il suo prendere carne nella nostra carne, non è altro che la nostra vita trasfigurata e rinnovata dalla sua Pasqua; la nostra esistenza raggiunta e toccata dal mistero pasquale. Così la celebrazione del Natale si rivela profondamente legata alla Pasqua e orientata verso di essa che è il culmine di tutto l’anno liturgico. Possiamo concludere queste brevi riflessioni sul tempo di Natale citando ancora una volta Origene: Il Signore ci accordi di credere con il cuore, di confessare con la bocca (Rm 10,9-10) e di confermare con le opere che l’alleanza di Dio è nella nostra carne affinché gli uomini, vedendo le nostre opere buone, diano gloria al Padre nostro che è nei cieli (Mt 5,16) in Gesù Cristo nostro Signore.

 

Matteo Ferrari,

monaco di Camaldoli

 


I PRIMI TRE VOLUMI PER GLI ANNI A B C

I NUOVI LEZIONARI

 

L’uscita del Lezionario è un’occasione per riflettere sul valore di questo libro liturgico e della parola di Dio nelle nostre celebrazioni. La nuova edizione, inoltre, presenta delle particolarità che non sono da trascurare.

 

Nella prima domenica di Avvento (2 dicembre) la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) ha consegnato nelle mani delle comunità cristiane la nuova edizione del Lezionario domenicale e festivo (tre volumi per gli anni A, B e C). È il primo passo dell’uscita del nuovo Lezionario liturgico in lingua italiana che si è resa necessaria dopo l’approvazione della nuova traduzione ufficiale della Bibbia.

 

UN FRUTTO

DEL CONCILIO

 

Innanzitutto non dobbiamo dimen­ticare che il Lezionario attualmente in uso, la scelta e la quantità delle letture che leggiamo ogni domenica e ogni giorno nella liturgia, è frutto del concilio Vaticano II e della riforma liturgica promossa dal concilio stesso. Senza il Vaticano II noi non avremmo questo Lezionario, né le nostre liturgie sarebbero così ricche, non solo da un punto di vista quantitativo, di lettura delle Scritture sante. Infatti è stata la costituzione conciliare sulla di­vina liturgia Sacrosanctum concilium (SC) a indicare la via della riforma dell’ordinamento delle letture per la celebrazione eucaristica. Innanzitutto SC ha richiamato la Chiesa all’importanza da dare alle sacre Scritture nella celebrazione liturgica. Il concilio ritiene che «per promuovere la riforma, il progresso e l’adattamento della sacra liturgia, è necessario che venga favorito quel gusto saporoso e vivo della sacra Scrittura, che è attestato dalla venerabile tradizione dei riti sia orientali che occidentali» (SC 24) e al n. 35 aggiunge: «Nelle sacre celebrazioni si restaurerà una lettura della sacra Scrittura più abbondante, più varia e meglio scelta». Quando poi passa a parlare del “mistero eucaristico” SC richiama nuovamente ed esplicitamente all’esigenza di una “maggiore abbondanza” di testi biblici nella liturgia, scendendo maggiormente nel dettaglio: «Affinché la mensa della parola di Dio sia preparata ai fedeli con maggiore abbondanza, vengano aperti più largamente i tesori della Bibbia in modo che, in un determinato numero di anni, si legga al popolo la maggior parte della sacra Scrittura» (SC 51).

Anche in un altro documento del concilio si parla del rapporto tra liturgia e sacra Scrittura. Si tratta della costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum (DV). Anche questo è un documento fondamentale del Vaticano II. DV ricorda che «la Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (n. 21).

I documenti del post-concilio da citare riguardo all’importanza e al valore della proclamazione delle Scritture nella celebrazione liturgica sarebbero molti (OLM; OGMR…). Ricordiamo solamente il documento più recente: l’esortazione post-sinodale Sacramentum caritatis di Benedetto XVI. In essa il papa afferma: «Insieme al Sinodo, chiedo che la liturgia della Parola sia sempre debitamente preparata e vissuta. Pertanto, raccomando vivamente che nelle liturgie si ponga grande attenzione alla proclamazione della Parola di Dio da parte di lettori ben preparati.[…] Infatti, la Parola che annunciamo ed ascoltiamo è il Verbo fatto carne (cf. Gv 1,14) e ha un intrinseco riferimento alla persona di Cristo e alla modalità sacramentale della sua permanenza» (45).

 

LA RIFORMA

DEL LEZIONARIO

 

A partire dalle indicazioni conciliari – maggiore abbondanza e completezza nella scelta delle letture (SC 35 e 51) – la riforma liturgica ha realizzato, negli anni successivi al Vaticano II, il Lezionario che è stato in uso fino ad oggi. Non dobbiamo sottovalutare l’importanza di questo grande lavoro che ha rappresentato una vera e propria “rivoluzione” nel rapporto tra i cattolici e la Bibbia. A questo lavoro hanno contribuito dal 1966 al 1971 «nove gruppi di esperti in varie discipline: esegeti, liturgisti, storici, catecheti, pastoralisti e altri» (R. De Zan). Il Lezionario uscito dalla riforma liturgica ed entrato definitivamente in vigore nel 1974 ha seguito – soprattutto per le domeniche e per le feste – due criteri generali nella scelta dei testi biblici: «la concordanza tematica e la lettura semicontinua. Nell’applicare questi due principi, si ricorre ora all’uno ora all’altro, secondo i diversi tempi dell’anno e le caratteristiche particolari di ogni tempo liturgico» (Ordo lectionum missae OLM 66,3). Gli altri criteri seguiti nella formazione del Lezionario sono illustrati e commentati nell’OLM (II ed. 1981).

Per comprendere l’importanza della riforma liturgica del Lezionario, che costituisce indubbiamente uno degli aspetti più significativi per la vita della Chiesa nel post-concilio, basta fare un veloce confronto con le letture bibliche – non esisteva un Lezionario – presenti nel Missale Romanum plenario di San Pio V. In un recente documento dei vescovi USA si sottolinea, in modo molto efficace e suggestivo, che mentre nel messale di Pio V si leggeva unicamente l’1% del Primo Testamento e il 17% del Nuovo, nel Lezionario uscito dalla riforma liturgica del Vaticano II si trova il 14% del Primo e ben il 71% del Nuovo. Non si può certamente dire che questa sia una “differenza” irrilevante per la frequentazione delle sacre Scritture da parte di pastori e fedeli. Inoltre il Primo Testamento non veniva mai letto nelle domeniche e nelle feste e il Vangelo di Marco era quasi del tutto assente. Nel Lezionario del 1974 invece, come abbiamo visto, il Primo Testamento è molto presente e, tranne per il tempo di Pasqua e poche altre eccezioni, viene letto ogni domenica e ogni festa. Nel messale di Pio V inoltre per i tempi di Pasqua e dopo Pentecoste non esisteva un Lezionario feriale e si era costretti a leggere ogni giorno la pericope della domenica precedente. Oggi invece disponiamo di un Lezionario che permette letture proprie per ogni giorno feriale (su due anni per il Tempo ordinario). Si è inoltre recuperato il criterio della lettura semi-continua che permette un accostamento quasi integrale di molti libri del Primo e del Nuovo Testamento a cominciare dai quattro vangeli.

Un ultimo aspetto, non secondario, che contraddistingue il Lezionario riformato riguarda il fatto di essere passati da un unico libro liturgico, il messale plenario, che conteneva sia le parti eucologiche (preghiera) riservate al presidente, sia le letture, a una _pluralità di libri liturgici. Non si tratta di un aspetto puramente “editoriale”, ma tocca la dimensione “ministeriale” dell’azione liturgica. Infatti mentre nell’antichità c’era una molteplicità di libri liturgici in base ai diversi ministeri, nel Messale Romano di Pio V (e negli altri messali plenari) tutto era riportato in un solo libro, poiché unico era il ministro. Le altre forme ministeriali erano pressoché scomparse. Il Vaticano II ha voluto recuperare la dimensione ministeriale delle celebrazioni liturgiche nelle sue diverse forme ed espressioni, e per questo ha riproposto la distinzione del Messale dal Lezionario, recuperando così la figura dei lettori che hanno oggi un compito assai significativo e importante nella liturgia.

Da queste brevi e incomplete osservazioni risulta evidente la grande ricchezza del Lezionario del 1974 rispetto al messale di Pio V nel quale molte pagine delle Scritture e anche dei vangeli non venivano mai proclamate nelle assemblee liturgiche e quindi rimanevano pressoché sconosciute alla maggior parte dei cattolici.

 

IL NUOVO LEZIONARIO

PREVISTI NOVE VOLUMI

 

Sulla scia della riforma del Lezionario post-conciliare e in continuità con essa si innesta la nuova edizione del Lezionario che è stato consegnato dalla CEI alle nostre comunità per essere utilizzato nelle assemblee liturgiche a partire dalla prima domenica di Avvento 2007 (anno A). Il nuovo Lezionario è stato presentato in una conferenza stampa il 12 novembre da mons. Giuseppe Betori, segretario generale della CEI; mons. Felice Di Molfetta, presidente della Commissione episcopale per la liturgia; mons. Crispino Valenziano, liturgista del pontificio Istituto Sant’Anselmo; don Angelo Lameri, dell’Ufficio liturgico nazionale della CEI.

La preparazione di un nuovo Lezionario si era resa necessaria da quando la CEI aveva approvato la nuova traduzione della Bibbia (maggio 2002). La revisione del testo biblico è stata curata da diversi studiosi (32 per il Primo Testamento e 17 per il Nuovo) ed è stata la prima volta che una conferenza episcopale ha messo mano a una rinnovata traduzione della Bibbia dopo la pubblicazione dell’istruzione Liturgiam authenticam che indica i criteri di traduzione dei testi liturgici nelle lingue moderne. In tale documento si chiede inoltre che nella traduzione dei testi biblici per la liturgia, a partire dai testi originali, si tenga conto, soprattutto per i problemi di canonicità, del testo della Neo-vulgata. La nuova traduzione è stata anche l’occasione per eliminare errori e per predisporre un testo anche più adatto per la proclamazione liturgica e di più facile ascolto.

L’opera prevede nel complesso l’uscita di nove volumi. I primi tre, già disponibili dalla prima domenica di Avvento, riguardano i tre cicli del Lezionario festivo (A, B, C). Nei mesi successivi è prevista l’uscita di altri sei volumi: tre per il ciclo feriale (un volume per Avvento, Natale, Quaresima, Pasqua; uno per il Tempo ordinario anni pari; uno per il Tempo ordinario anni dispari), uno per le memorie e le feste dei santi; uno per la celebrazione dei sacramenti (messe rituali); infine, un volume per le messe ad diversa e votive. L’insieme dei volumi del nuovo Lezionario dovrebbe uscire nell’arco del 2008 e il suo utilizzo liturgico sarà obbligatorio a partire dall’Avvento del 2010.

Per quanto riguarda la scelta delle letture si è seguita la distribuzione indicata dalla seconda edizione dell’OLM (1981) senza apportarvi nessuna modifica.

Un aspetto non secondario del nuovo Lezionario riguarda il coinvolgimento di numerosi artisti italiani contemporanei nella realizzazione dei vari volumi. Anche questa è una novità assoluta nel panorama della Chiesa cattolica. Sono state realizzate, da parte di trentun artisti, ottantasette opere inedite, create appositamente per il Lezionario. Si tratta di illustrazioni, dal figurativo all’astratto, che rappresentano i brani principali delle Scritture proclamati nell’arco dell’anno liturgico. Nella presentazione mons. Betori ha sottolineato che «il Lezionario si pone in continuità con gli antichi libri liturgici per la proclamazione della parola di Dio. Di essi eredita la preoccupazione di presentarsi in una forma nobile, ben curata, dignitosa, arricchita dalle opere del genio umano». È significativo questo coinvolgimento del mondo dell’arte nella realizzazione del Lezionario. Anche questo corrisponde, oltre che alla sensibilità della Chiesa di ogni tempo, alle indicazioni del Vaticano II (SC 122-130). Rivolgendosi agli artisti nella Lettera del 1999 Giovanni Paolo II affermava: «Nessuno meglio di voi artisti, geniali costruttori di bellezza, può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all’alba della creazione, guardò all’opera delle sue mani» (1). E, a proposito del rapporto tra Parola e arte – come è il caso del Lezionario – dice: «Dalla Natività al Golgota, dalla Trasfigurazione alla Risurrezione, dai miracoli agli insegnamenti di Cristo, fino agli eventi narrati negli Atti degli Apostoli o prospettati dall’Apocalisse in chiave escatologica, innumerevoli volte la parola biblica si è fatta immagine, musica, poesia, evocando con il linguaggio dell’arte il mistero del “Verbo fatto carne”» (n. 5).

 

OCCASIONE

PER UN RINNOVATO IMPEGNO

 

L’uscita del nuovo Lezionario, che si pone in continuità con la riforma liturgica e ne valorizza alcuni aspetti, è un’occasione preziosa per riprendere in mano, come singoli e come comunità, una delle dimensioni più importanti della celebrazione liturgica e della vita cristiana in generale: il rapporto con la parola di Dio. Se il Vaticano II e la riforma liturgica hanno ricollocato nel cuore della liturgia nella Chiesa cattolica la proclamazione delle Scritture sia del Primo che del Nuovo Testamento, d’altra parte non sono mancate delle difficoltà da parte di pastori e fedeli nel cogliere questa grande “novità”. Il nuovo Lezionario, con le sue non trascurabili novità, potrebbe essere l’occasione per “recepire” ciò che del concilio non è stato ancora pienamente valorizzato nella vita delle nostre comunità. Questo significa un rinnovato impegno da parte di tutti per fare in modo che la parola di Dio abbia in ogni celebrazione liturgica lo spazio e l’importanza che merita. Anche Benedetto XVI nella sua recente esortazione post-sinodale Sacramentum caritatis richiamava a tale esigenza: «È necessario che i fedeli siano aiutati ad apprezzare i tesori della sacra Scrittura presenti nel Lezionario attraverso iniziative pastorali, celebrazioni della Parola e la lettura orante (lectio divina). Inoltre, non si dimentichi di promuovere le forme di preghiera confermate dalla tradizione: la Liturgia delle Ore, soprattutto le Lodi, i Vespri, la Compieta e anche le celebrazioni vigiliari. La preghiera dei Salmi, le letture bibliche e quelle della grande tradizione presentate nell’Ufficio divino possono condurre a un’approfondita esperienza dell’avvenimento di Cristo e dell’economia della salvezza, che a sua volta può arricchire la comprensione e la partecipazione alla celebrazione eucaristica» (45). Per la Chiesa è una rinnovata esperienza di “sequela” del suo Signore, perché «quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura, Dio stesso parla al suo popolo e Cristo, presente nella sua parola, annunzia il Vangelo» (OGMR 29).

 

Matteo Ferrari

monaco di Camaldoli

 


ASSEMBLEA SEMESTRALE DEI SUPERIORI GENERALI

CONVOCATI DALLA PAROLA

 

Il tema del prossimo sinodo dei vescovi al centro dei lavori. Anche i consacrati non possono non sentirsi “afferrati”, “convocati” e “inviati” dalla Parola. Una comprensione della Bibbia a partire dai poveri. Una prima “risonanza” dopo la lettura del documento preparatorio del sinodo. Il tema della prossima assemblea USG.

 

Con largo anticipo l’unione dei superiori generali (USG) ha voluto affrontare il tema del prossimo sinodo dei vescovi – che si svolgerà a Roma nell’ottobre 2008, su “La Parola nella vita e nella missione della Chiesa” – dedicandovi interamente, dal 21 al 23 novembre, la sua 70ª assemblea generale semestrale. Lo ha fatto non solo mettendosi in ascolto di alcuni esperti (p. Innocenzo Gargano, sr. Dolores Aleixandre, p. Ludger Feldkämper, fr. Enzo Bianchi), ma anche prevedendo intenzionalmente, nelle prime due giornate di lavori, ampi spazi di approfondimento personale e di confronto con la Parola nei diversi gruppi linguistici.

Nel breve saluto iniziale, il presidente dell’USG, don Pascual Chavez, ha ricordato come il tema del prossimo sinodo fosse stato esplicitamente suggerito dai delegati dei superiori generali al termine dei lavori del sinodo sull’Eucaristia (ottobre 2005). «Per noi, ha detto, come d’altronde per tutti i cristiani, si tratta di un tema vitale, nel senso che la Parola è all’origine della nostra vocazione». La testimonianza e la predicazione dei consacrati saranno “attendibili” solo nella misura in cui il Vangelo predicato sarà alla base della loro stessa vita. Anche nella loro vita c’è un pericolo tutt’altro che “immaginario”, quello di tralasciare la cosa più importante, che non si può delegare ad altri, la preghiera e il ministero della Parola. Anticipando la “trilogia” che sarebbe poi stata sviluppata dai diversi relatori, don Chavez ha invitato i consacrati a sentirsi anch’essi “afferrati”, “convocati” e “inviati” da quella Parola che, come leggiamo in Vita consecrata, «è la prima sorgente di ogni spiritualità cristiana» (94).

 

L’UNITÀ

DEI DUE TESTAMENTI

 

Il primo dei tre “mistagoghi” – come li ha chiamati don Chavez – ascoltati in assemblea, è stato il camaldolese Innocenzo Gargano. Più che una relazione vera e propria, gli era stata chiesta una lectio divina sul tema Afferrati dalla Parola. «Il primato dell’ascolto–lectio, che caratterizzerà la comunità dei discepoli di Gesù di Nazareth in tutte le generazioni future, ha esordito, si fonda in realtà tutto sulla misteriosa e indispensabile reciprocità fra l’incontro con Gesù risorto e l’incontro con le Scritture ebraiche». Anzi, non si può accedere in nessun caso né alla comprensione dell’identità di Gesù Cristo Signore, senza la mediazione delle Scritture, né alla comprensione delle Scritture, senza la mediazione di Gesù Cristo Signore. Essere afferrati da Cristo ed essere afferrati dalle Scritture sono allora l’unica e medesima cosa.

Applicando questi semplicissimi principi ermeneutici ad un passo del vangelo di Giovanni (1, 35-39), Gargano ha voluto dimostrare come anche solo da questo brano sia possibile intravedere l’itinerario interiore compiuto dai primi discepoli. Solo dopo essere stati “preparati” da Giovanni il Battista, si sono potuti incontrare con Gesù di Nazaret, entrando nella massima intimità possibile con lui. L’unità dei due Testamenti, ha precisato, «significa che la Parola ci ha raggiunto pienamente nel Figlio». Una volta “afferrati” dalla Parola profetica, i discepoli non possono fare a meno di seguire Gesù. La strada maestra per essere “afferrati” dalla Parola identificata con il Signore risorto, secondo Gargano è una sola: quella di lasciarsi “prendere per mano” dalle pagine della Scrittura ispirata.

È quanto ha cercato di fare, con estrema immediatezza, anche sr. Dolores Aleixandre. Molti dei 120 superiori generali presenti la ricordavano molto bene per la sua suggestiva e originale interpretazione delle due icone bibliche della samaritana e del buon samaritano in occasione del congresso internazionale sulla vita consacrata del 2004: Passione per Cristo. Passione per l’umanità.

Questa volta ha focalizzato la sua attenzione su alcuni personaggi solo tratteggiati da Gesù, frutto del suo “potente immaginario”. Si tratta di personaggi, ha detto, che sono arrivati ad esistere «solo perché convocati e creati dalla sua parola». Ne ha evocati cinque: il portiere (Mc 12,37), il seminatore tranquillo (Mc 4, 27-29), l’amministratore scaltro (Lc 16, 1-8), gli operai dell’ultima ora (Mt 20, 1-32), i bambini che giocavano in piazza (Lc 7, 31-35). Da ognuno di loro «possiamo imparare come essere e come vivere oggi nella vita consacrata». La parabola, ad esempio, del seminatore – ribattezzata dalla relatrice Il seminatore tranquillo – ha qualcosa di importante da dire proprio alla nostra cultura dell’efficienza, della pianificazione, del rendimento immediato. Oggi si vuole misurare e controllare tutto. «Siamo soliti essere persone serie, disciplinate e responsabili nel lavoro e facciamo fatica a trovare la giusta alternanza tra azione e riposo, sforzo e abbandono».

La maggior parte dei religiosi è stata formata secondo una certa logica dell’errore e una sopravvalutazione del lavoro e dell’impegno pastorale. Molto spesso sono in preda ad una specie di ansia apostolica. «Non abbiamo ancora imparato quando la situazione richiede di essere vigili e intervenire, e quando l’unica cosa che possiamo fare è andare a dormire». La straordinaria capacità di Dolores Aleixandre di dar voce, di far parlare anche i personaggi meno importanti del Vangelo, nasce con ogni probabilità non solo dalla sua ben nota preparazione biblica, ma anche dall’esperienza che lei stessa sta attualmente conducendo a Madrid, insieme a religiose di altri istituti, nell’assistenza di immigrati di religioni e culture diverse.

 

LA BIBBIA

IN MANO ALLA GENTE

 

Anche il terzo “mistagogo”, il verbita Ludger Feldkämper, ha fatto capire quanto sia importante la comprensione della Parola proprio a partire spesso dagli “ultimi”. Ha esordito con una serie di interrogativi: chi è inviato? Solo Gesù o non anche la Chiesa, le comunità dei consacrati, i singoli individui? Come dev’essere intesa la Parola? Quale il suo reale contenuto? Inviati solo dalla Parola o anche dallo Spirito? Inviati dalla Parola o anche per la Parola? L’invio dalla Parola che cosa significa concretamente per la grande varietà dei nostri ordini e istituti religiosi? E non solo per gli ordini nella loro struttura complessiva, ma anche per le singole comunità di consacrati, anzi, si potrebbe dire, per ogni singolo consacrato?

Non è facile comprendere il discorso di Feldkämper senza tener conto della sua ferma convinzione che se il 50% della sua formazione biblica risale agli studi fatti presso il pontificio istituto biblico di Roma, l’altro 50%, però, l’ha maturato nel suo impatto concreto e immediato con la gente comune con cui si è sempre trovato a condividere il pane della Parola.

Dopo aver parlato di Gesù, il Verbo incarnato, inviato dal Padre (prima parte), della sacra Scrittura come parola ispirata (seconda parte), il relatore, nella terza parte, ha affrontato in maniera più diretta il fatto di essere “inviati” dalla Parola. Grazie al concilio, «tutti i membri della Chiesa hanno assunto un ruolo interpretativo della Scrittura». La Bibbia in mano alla gente anche di più bassa estrazione, in mano ai poveri, è stato un grande evento. Se si tiene presente tutta la storia della Bibbia nella Chiesa cattolica, è fin troppo facile comprendere come con il concilio si sia verificato qualcosa di rivoluzionario al riguardo.

I superiori generali si attendevano, forse, un più diretto ed esplicito riferimento alla vita consacrata. Feldkämper, invece, ha preferito sviluppare il tema della comunità della Parola per la Parola in stretto riferimento a tutti i membri della Chiesa, dal momento che questo non è solo “il tempo della Parola”, ma anche “il tempo dei laici”. Ha significativamente concluso il suo intervento, però, evocando brevemente alcune persone (consacrate), quasi tutte da lui stesso conosciute, che hanno dedicato la loro intera esistenza nel campo dell’apostolato e del ministero biblico-pastorale. È il caso del carmelitano brasiliano Carlos Mesters (che, fra l’altro, aveva tenuto una sua magistrale relazione proprio nell’ultima assemblea USG a Sacrofano nel maggio scorso), dell’italiano Gabriele Allegra, ofm (che ha trascorso quasi tutta la sua vita in Cina, non risparmiandosi la fatica di tradurre in cinese tutta la Bibbia), della religiosa salesiana Maria Ko Ha Fong (nata a Macau e vissuta ad Hong Kong, dopo aver fatto i suoi studi in teologia, scrittura e patristica in Europa), della religiosa benedettina Henrietta Sebastian (che dopo aver abbandonato la professione di dentista, ha dedicato, nelle Filippine, tutta la sua vita all’apostolato biblico), di un’altra religiosa filippina, Tomasa Saberon (impegnata nell’introdurre alla comprensione della Bibbia migliaia di lavoratori domestici emigrati dalle Filippine ad Hong Kong), e, infine, della religiosa coreana, Maria Cho (considerata da Feldkämper se non proprio un pioniere, sicuramente uno dei pionieri dell’apostolato-biblico in Corea). Su sei nomi evocati, ha fatto notare un superiore generale, quattro erano donne e tutte hanno svolto il loro apostolato nel continente asiatico.

 

LA TESTIMONIANZA

DELLA COMUNITÀ DI BOSE

 

Una persuasiva testimonianza di quanto sia determinante l’ascolto della Parola all’interno di una comunità monastica è stata quella offerta da Enzo Bianchi, il fondatore della comunità di Bose. Fin dall’inizio ha tenuto a precisare che con il suo breve intervento intendeva rendere testimonianza alla Parola e non tanto alla sua comunità. Da sempre, nella comunità di Bose, l’importanza della parola si fonda su due certezze, anzitutto che la Scrittura non è direttamente parola di Dio ma la contiene, e poi che la Chiesa stessa è affidata alla parola del Signore, il quale la edifica, la plasma giorno dopo giorno.

Nella comunità di Bose, composta da una ottantina di monaci e di monache, ogni giorno tutti fanno la lectio, la meditatio e l’oratio sullo stesso testo prescritto dal lezionario. La lectio varia ovviamente a seconda delle persone, della preparazione intellettuale e dell’età. Non è mai, però, un approccio puramente intellettuale alla Parola, ma piuttosto una ricerca spirituale capace di rinnovare ogni giorno la fede e la vita di chi la pratica.

Attraverso l’assiduità alle Scritture è possibile cogliere nella parola di Dio, e soprattutto nel vangelo, “la regola” della comunità di Bose. A distanza di tempo, Enzo Bianchi sente di poter dire «che ciò che nella nostra vita è più fedele al Vangelo, è il frutto di questa prassi di lectio divina comunitaria». Per poter cogliere fino in fondo i frutti spirituali di questo farsi servi della parola è sicuramente necessario un particolare “carisma profetico”. «È la parola di Dio nella forza dello Spirito e nella comunione ecclesiale, ha concluso il fondatore della comunità di Bose, che ha permesso e forgiato tutta la nostra vita».

Tutti gli interventi ascoltati in assemblea, nelle intenzioni dell’USG, avevano lo specifico scopo di una preparazione, neanche troppo remota, al prossimo sinodo episcopale. Da tempo, nell’apposito sito internet del Vaticano, è disponibile il testo dei lineamenta il cui unico scopo è quello di avviare una prima riflessione sul tema del sinodo. Sulla base delle risposte sollecitate dalle numerose domande presenti in questo documento, verrà poi elaborato l’instrumentum laboris vero e proprio.

Durante i lavori dell’assemblea è stato possibile avere una prima risonanza ai contenuti dei lineamenta. È il frutto di un apposito incontro del consiglio generale dei verbiti che per carisma sono degli esperti nel campo della Parola nella vita e nella missione della Chiesa. Questi lineamenta, ha osservato il superiore generale p. Antonio Pernia, facendosi portavoce di tutto il suo consiglio, a una prima lettura danno l’impressione di ignorare gli sviluppi della riflessione biblica e del conseguente apostolato biblico di questi ultimi 40 anni dopo la Dei verbum. Sembra quasi che da allora in poi «non sia successo nulla». Tra le righe del documento è percepibile una certa riluttanza nel riconoscere le tante iniziative promosse nel campo dell’apostolato biblico da persone “normali”, quasi queste ultime non fossero considerate parte viva delle rispettive Chiese locali. Il documento si presenta eccessivamente “dottrinale e astratto”, non sufficientemente pastorale e concreto. Manca, in altre parole, una stretta connessione tra il mondo della parola di Dio e i problemi attuali dell’umanità. Alcuni aspetti sui quali, durante i lavori del sinodo, andrebbe posta una particolare attenzione, sono quelli relativi ai rapporti tra la parola di Dio da una parte e l’Eucaristia, la preghiera cristiana, l’omelia, la formazione sacerdotale, l’esegesi e la teologia, la vita dei credenti, gli altri metodi di condivisione della Bibbia, il dialogo interreligioso dall’altra. Se i poveri, osservano i verbiti in conclusione, «occupano il primo posto nella parola di Dio», allora dovrebbero essere sempre i poveri i destinatari di un messaggio di consolazione e di speranza da parte del sinodo.

I superiori generali si ritroveranno a fine maggio per la loro prossima assemblea semestrale. Anche se si incontreranno a pochi mesi di distanza dal sinodo dei vescovi, affronteranno un tema molto diverso e oggi tra i più problematici nella vita consacrata, quello del rapporto autorità-obbedienza. La scelta è imposta dal fatto della ormai imminente pubblicazione, da parte del dicastero vaticano sulla vita consacrata, di una sua istruzione su questo specifico argomento. I superiori generali, in occasione della loro assemblea, si confronteranno sul tema dell’autorità-obbedienza, per una giornata intera, anche con una rappresentanza di superiore generali. Sarà quella, sicuramente, una straordinaria occasione per mettere in pratica quanto ascoltato in questi giorni e verificare insieme quanto la Parola illumini la vita e la missione dei consacrati proprio a partire da un rinnovato rapporto tra autorità e obbedienza.

Angelo Arrighini

 


CAPITOLO GENERALE DEI SERVI DI MARIA

QUALE POVERTÀ OGGI?

 

Il Capitolo non si è limitato a trattare la povertà come elemento fondamentale per la vita religiosa dei Servi, ma ha allargato lo sguardo alle necessità del mondo di oggi, afflitto da varie forme di povertà ed ha impegnato tutto l’Ordine a operare per combatterle.

 

Servi di Maria hanno celebrato, nei giorni 8-30 ottobre 2007, ospiti nella casa Divin Maestro ad Ariccia, il 212° Capitolo generale sul tema Testimonianza di povertà evangelica. I 58 frati capitolari provenivano da paesi dei cinque continenti, dove da secoli o da pochi anni sussistono presenze dell’Ordine. Da oltre due anni era stata attiva una commissione preparatoria internazionale, che aveva predisposto una documentazione precapitolare elaborata mediante consultazione tra tutto l’Ordine. Il ritmo di lavoro, guidato dalla équipe di animazione, alternava appuntamenti in gruppi di dialogo, attività delle commissioni operative, sessioni assembleari lungo le traiettorie: ascolto della realtà - sognando il futuro - obiettivi e passi concreti.

Il tema, disegnato come cornice delle finalità capitolari, echeggiava Lc 5,11, ossia l’opzione dei discepoli di Gesù, i quali “lasciarono tutto e lo seguirono”. Quella sequela veniva resa visibile nella povertà evangelica, connotato irrinunciabile dell’identità di un Ordine religioso sin dalle origini di fatto collocato nella tipologia dei Mendicanti. L’attualità sfida con la domanda: quale povertà oggi. Il Capitolo generale ha cercato di non evadere quella istanza. L’assemblea è stata sollecitata, oltre che dalle relazioni di base in agenda e dal dialogo assembleare, anche ascoltando due lezioni di fra Giancarlo M. Bruni sulla icona di Abramo in Genesi 12,1-4a e sulla sequela “con il Cristo poveri con i poveri”.

 

AMBITI

DELLA POVERTÀ

 

L’introduzione ai documenti capitolari delinea le ispirazioni per pensare e testimoniare la povertà evangelica oggi interpretando i segni dei tempi e dei luoghi. La povertà, si afferma, è una modalità per la sequela di Cristo, resa visibile nella conversione, la quale «non può essere solo frutto di buona volontà ma dono e grazia da chiedere sempre e poi da ravvivare con la contemplazione, la familiarità con la parola di Dio, le scelte di vita». Le visibilità rimarcate sono la comunione dei beni nella fraternità conventuale, ma anche oltre le mura di essa, ossia la solidarietà verso i poveri, verso i «mille volti di una umanità ferita che reclama rispetto, diritto di vivere e di partecipare alla costruzione di una terra nuova, più giusta e fraterna». Il servizio impegna anche a favorire il superamento delle molteplici situazioni di povertà o impoverimento, come sono il degrado ecologico, le privazioni di giustizia e di pace, la ricerca affannosa di ricchezza.

Il Capitolo convoca alla testimonianza di povertà e al servizio generoso verso poveri e povertà l’intera Famiglia servitana. Questa espressione allude alla condivisione della medesima spiritualità, ossia fraternità servizio e ispirazione mariana, da parte dei frati e delle religiose, degli istituti e delle fraternità secolari. «La povertà evangelica e il servizio al povero sono uno stile e un segno che accomunano la Famiglia servitana. La comune ispirazione a Maria infonde un peculiare amore nel servizio al povero. Dalla partecipazione della Madre alla missione redentrice del Figlio, i Servi e le Serve di Maria sono indotti a comprendere le umane sofferenze; con lei sostano ai piedi delle infinite croci per recarvi conforto e cooperazione redentrice».

 

Il Capitolo generale non si è limitato a trattare la povertà come elemento fondamentale per la vita religiosa dei Servi, ma ha allargato lo sguardo alle necessità del mondo di oggi, afflitto da varie forme di povertà ed ha impegnato tutto l’Ordine a operare per combattere tutte le forme di povertà. Nella dichiarazione finale è stato detto:

«Abbiamo scelto la povertà per superare le molte barriere che ancora dividono l’uomo dall’uomo, feriti dall’ascolto dell’immenso pianto del mondo: senza passione per l’uomo non c’è povertà. Dalla comunità la nostra fraternità si espande guidata da un sogno di alleanza con tutto ciò che vive sotto il sole.

La comunità che include i poveri come eredità lasciatale dal Signore, che ordina concretamente i propri beni al loro aiuto (Cost. 62, 289/c) può dire al mondo, con la propria vita, che il bene non sta nel maggior profitto ma in una comunione che si estende; che la verità della storia non è la crescita economica ma la fine delle barriere. L’altro nome di povertà è solidarietà.

Cristo, da ricco che era si fece povero (2 Cor 8, 9). Il povero è il luogo teologico dove la storia sacra accade e ci raggiunge. L’umanità è il luogo dove Dio ancora si incarna, dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli (Cost. 319). Lui ha tracciato la strada, ma noi abbiamo seguito altre vie.

Il Capitolo è grato ai fratelli che, poveri con i poveri, mettono la vita al loro servizio, e li benedice. Ma sente anche che l’impegno di alcuni non gli basta; sente, con tristezza, di aver mancato al suo voto. Sente che ora è il tempo per il cambiamento del cuore.

Per questo, a nome dell’Ordine intero, il Capitolo dei Servi chiede oggi perdono a Dio e ai poveri per aver ignorato le loro voci; per aver taciuto quando era necessario alzare la voce in loro difesa; per non averli neppure visti quando, come il povero Lazzaro, sedevano alle porte delle nostre case, della casa grande che è il mondo, a mendicare pane e fraternità; chiede perdono ai poveri per la carità senza amore e senza giustizia».

 

LANCIATI

DUE TIPI DI ALLEANZA

 

E, dopo aver chiesto perdono, il Capitolo ha lanciato due tipi di alleanza, perché la vita religiosa sia un impegno a favore degli uomini del nostro tempo.

«Il Capitolo – si afferma nel documento finale – ha fatto spesso riferimento al fenomeno mondiale della povertà economica e ai meccanismi di ingiustizia che producono una sempre maggiore separazione tra ricchi e poveri. Dichiariamo inaccettabile questo crescente divario.

Le parole di papa Paolo VI 40 anni fa nella Populorum progressio (26 marzo 1967) rimangono tuttora valide: costruiamo una comunità umana dove le persone possano godere una vita veramente umana… dove Lazzaro possa sedersi a tavola al medesimo banchetto del ricco (n. 47). Le sofferenze dei nostri fratelli e sorelle attraverso il mondo ci raggiungono.

Sono volti di popoli in guerra; volti di bambini, vittime di violenza, fame, abusi, abbandono; volti di donne, violate, comprate e vendute; volti di popoli indigeni, espropriati per secoli di terra, cultura e fede; volti di esiliati e di migranti, alla ricerca di sopravvivenza e dignità; volti di carcerati, che affollano le infinite carceri del mondo; volti di ammalati, manifesto della nostra precarietà, ma vittime spesso di interessi ciechi, di epidemie, della tremenda piaga dell’AIDS. Volti di lavoratori precari e senza garanzia, privati della speranza di futuro. Volti di bambini non nati.

E mille altri volti di una umanità ferita che reclama rispetto, diritto di vivere e di partecipare alla costruzione di una terra nuova, più giusta e fraterna. A questi volti e al loro grido dobbiamo in qualche modo rispondere».

 

E infine, riflettendo sulla povertà, si è capito che la vita religiosa deve oggi trovare anche una “alleanza con il creato”. Per questo i capitolari si sono chiesti: «Come dobbiamo rispondere alla gravissima aggressione che la terra stessa subisce attraverso lo sfruttamento selvaggio delle risorse del pianeta, e che rischia di compromettere l’esistenza stessa dell’umanità? Una ricerca affannosa di ricchezza sta generando un rischio di morte per l’intero pianeta. Esempio doloroso di questo squilibrio sono il riscaldamento globale, l’inquinamento, la privatizzazione dell’acqua, lo spreco, la distruzione della Foresta Amazzonica.

I nostri primi Padri, nella solitudine del Senario, coltivavano rispetto per la natura e devozione verso il creato come dono di Dio (cf. L.O. 41). Anche oggi alcuni Servi promuovono la responsabilità ecologica, altri difendono attivamente le risorse della terra, ma insieme a loro tutte le comunità devono crescere nell’amore e nel rispetto del creato, ponendo particolare attenzione alla sobrietà dello stile di vita, all’uso consapevole di acqua e di energia, alla testimonianza contro il consumismo».

 

IL NUOVO

GOVERNO GENERALE

 

I vari altri argomenti in agenda sono stati delineati nella cornice della povertà. «L’organizzazione dell’Ordine non è un mero strumento giuridico, ma un mezzo per favorire il bene comune, facilitare la comunione fra tutti e prestare una attenzione particolare ai fratelli che vivono nelle strettezze del bisogno». Anche il campo della amministrazione finanziaria è solcato da intendimenti di servizio: «siamo chiamati a usare nel modo più proficuo i nostri beni aiutandoci gli uni gli altri a rispondere alle esigenze ministeriali e ai bisogni umani del nostro mondo e a provvedere prudentemente per il futuro». La povertà evangelica e le visibilità peculiari secondo tradizione e incarnazioni nella attualità con l’ottica dei segni dei tempi e dei luoghi, si configurano come uno stile che diviene mentalità tramite una solida formazione, a cominciare da quella iniziale, «nell’intento di confermare o suscitare nell’Ordine valori e decisioni che nascano dal necessario confronto tra la povertà evangelica e le sfide concrete che la Chiesa e il mondo contemporaneo indicano e sollecitano per viverla autenticamente».

Un’incombenza primaria erano le elezioni del governo centrale. È stato confermato nel servizio di priore generale fra Angel M. Ruiz Garnica, messicano cinquantenne. Il consiglio generalizio, del tutto rinnovato, è composto dai frati Eugene M. Smith statunitense, Reth M Sarabia filippino, Gino M. Leonardi modenese, Charlie M. Leitao De Souza brasiliano.

La “salita dei Sette Santi Fondatori a Monte Senario”, affresco dell’Annigoni, era il logo iconografico del Capitolo. Il priore generale ha sovente invitato a tornare “alle fonti della nostra vocazione, per riprendere energia, gioia e speranza”, a camminare “insieme per la vita, al servizio di quanti il Signore porrà sul nostro cammino quotidiano, con cuore grande e compassionevole, assieme a santa Maria e ai nostri Sette Santi Fondatori”.

Lino M. Pacchin _e Umberto Omnibus

 


MARIANNA NASI E IL COTTOLENGO

IL PROFUMO DELLA CARITÀ

 

Nel suo carisma sono fuse le due anime cottolenghine: quella contemplativa e quella attiva. È doveroso riconoscere Marianna Nasi quale “cofondatrice” delle Suore di san Giuseppe Cottolengo. Una figura che comincia ora a uscire dall’ombra.

 

Marianna Nasi è stata definita “prima suora e prima delle suore della Piccola Casa” del Cottolengo di Torino. Sono trascorsi 175 anni dalla sua morte, avvenuta il 15 novembre 1832 a soli 41 anni. Si spense tra le braccia del Cottolengo, il quale, come risulta da una testimonianza, affranto dal dolore, esclamò: «Povero me! una famiglia all’abbandono, tante figlie senza Madre! Ma fu un momento e sull’istante riavutosi, soggiunse: Il Signore tanto buono provvederà».1

Ora la sua figura ha cominciato a uscire dall’ombra in cui è rimasta avvolta per tanto tempo, per iniziativa soprattutto delle suore di san Giuseppe Benedetto Cottolengo, di cui era stata la prima Madre.

 

L’INCONTRO

CON IL COTTOLENGO

 

Marianna Nasi, di famiglia, si chiamava in realtà Anna Maria Pullino. Solo dopo il matrimonio prese il cognome del marito, Carlo Nasi. Era nata a Torino il 6 luglio 1791, figlia unica dei coniugi Antonio Pullino e Francesca Demateis. Di ceto medio-borghese, riceve un’educazione consona alla sua posizione sociale: sa leggere, scrivere, computare, è brava nel ricamo e nel cucito ma soprattutto è una giovane di profonda religiosità. Desidera consacrarsi a Dio ma i suoi genitori le consigliano il matrimonio e il 4 luglio 1812 sposa Carlo Nasi, un’ottima persona, onesta e religiosa, capace di dedicare il suo tempo libero alla cura dei malati negli ospedali di Torino.

Carlo e Marianna aprono un negozio di chincaglieria. La loro vita scorre serena. Dal loro amore nascono due figli maschi, ma il primo morì appena battezzato; l’altro, Giovanni, aveva appena due anni quando il 25 febbraio 1817 Carlo muore a soli 25 anni, di tifo. Da questo momento, Marianna si divide tra il negozio, la cura del figlio e dei genitori, la preghiera, le opere di carità.

Nel suo cuore è però vivo il desiderio di consacrarsi al Signore. Nel 1818 conosce Giuseppe Cottolengo che nominato canonico del Corpus Domini, vi si trasferisce da Bra, sua città natale e diviene sua penitente, figlia spirituale, amica, anche di famiglia.

Nel 1827 Giuseppe Cottolengo inizia la sua avventura di carità verso i poveri più bisognosi, aprendo nel distretto della parrocchia un piccolo ospedale chiamato popolarmente “Deposito della Volta rossa”, dal nome del cortile in cui le stanze si trovano. Si tratta di pochi locali dove ospita i bisognosi rifiutati dagli altri ospedali.

Marianna è la prima e più coinvolta Dama della Carità. Ben presto le Dame, gruppo di laiche impegnate, non bastano più per soddisfare i bisogni dei poveri.

Nel 1830 viene abbozzata quella che sarà la famiglia religiosa delle suore, che nel suo primo sorgere sarà denominata: “Figlie della Carità sotto gli auspici di San Vincenzo de’ Paoli”. Il Cottolengo ha infatti come suo modello e patrono il noto santo francese.

Il gruppo delle ragazze è guidato e diretto da Marianna Nasi, che ne diventa la Madre.

 

Che tipo di donna è Marianna? A descriverla con poche pennellate è lo stesso figlio Giovanni. «La mia madre era dolce, pacifica, non conosceva parole pungenti; essa era sempre tranquilla, essa era di un’aria sempre composta».2

Questo suo equilibrio, questo suo restare uguale a se stessa, sarà un atteggiamento di tutta la vita, a cui unisce l’amore alla vita nascosta: «Non era amante del comparire, non dei divertimenti e delle compagnie chiassose».

Non è però una persona introversa; riservata sì, ma cordiale e amabile, disinvolta: è una donna che sa stare da sola, che cerca il raccoglimento, ma è anche una persona che sa stare in compagnia anche se tende a selezionare molto le sue amicizie, circondandosi di persone con una sensibilità religiosa simile alla sua.

 

DOPPIAMENTE

“MADRE”

 

Negli anni dopo la morte di Carlo, Marianna è soprattutto mamma attentissima che circonda il piccolo Giovanni delle cure più tenere, lo educa con profonda finezza pedagogica. Più volte egli sottolinea come la mamma non lo obbligasse mai a entrare in una chiesa o a pregare contro la sua volontà, perché voleva che la sua preghiera fosse sincera. È Marianna stessa a prepararlo alla prima comunione e alla cresima. Gli insegna a non domandare mai nella preghiera grazie per cose temporali: per questo basta un Padre nostro; piuttosto lo invita caldamente a chiedere la grazia di farsi buono e santo.

Non lo punisce se non è veramente necessario. Giovanni ricorda due episodi in cui dimenticò di spegnere la fiamma della candela. Fortuna che sua madre aveva la stanza a fianco della sua e l’abitudine di andare a vederlo prima di coricarsi! Giovanni rischiava di morire, e non lui solo; Marianna riesce a estinguere la fiamma senza nemmeno svegliarlo. Non si spazientisce, benché in questi casi ne avrebbe avuto tutte le ragioni. L’unica cosa che si sente di dirgli la mattina è di ringraziare il Signore. «Al mattino mi disse in tono dolce: vedi Giovanni che bella grazia hai ricevuto dal Signore; e più non mi disse. Io non ho mai visto mia madre a essere in collera o con me o con altri».

Negli anni in cui è vedova, Marianna vive il suo martirio del cuore. Riaffiora sempre più forte il desiderio di consacrarsi a Dio. Il Signore mette sulla sua strada il canonico Cottolengo. Inizia un cammino da lui accompagnata e scopre il dono di Dio: essere madre dei poveri. Con delicata attenzione chiede a Giovanni il permesso di dedicarsi interamente alle opere di carità, disposta anche a rinunciarvi davanti a un suo rifiuto. Giovanni acconsente.

Nel 1830 la vita di Marianna subisce la svolta decisiva: si consacra a Dio nel servizio dei poveri e diviene Madre delle prime Figlie della Carità che andranno a vivere nella sua casa.

 

MODELLO

DI CARITÀ

 

La signora Nasi, si trasferisce nelle vicinanze del “Deposito”, proprio per prendersi cura delle Figlie; è l’estate del 1830.3 Queste giovani sono poste sotto la sua direzione e Marianna è da loro chiamata comunemente la Madre. La sua responsabilità nei confronti delle Figlie ha le caratte­ristiche di una “autorità” reale, da tutte riconosciuta. Affiancata dal Cottolengo, non sarà però sua mera controfigura.

Il Cottolengo ha grande fiducia in lei, apprezza il suo fine intuito, in modo particolare per quel che riguarda il discernimento delle vocazioni. Non accetta infatti nessuna giovane senza aver avuto prima il suo giudizio a riguardo.

È soprattutto la formatrice delle Figlie; possiamo tentare di delineare quale genere di formazione Madre Nasi desse loro?

Condivide prima di tutto la loro vita quotidiana. «Non era possibile vedere in lei il contegno da superiora, ricorda Giovanni. Era una figlia tra le figlie, una sorella fra gli ammalati e le ammalate… faceva, come io la vedeva a fare, i più bassi servigi, essa scopava, preparava la tavola».

Sr Arcangela ci informa che le Figlie venivano da lei istruite: «nei lavori donneschi (femminili), nel leggere, nel catechismo, e sul modo di assistere i malati».

La sua formazione comprendeva quindi l’aspetto pratico: assistenza ai malati e lavori femminili, ma anche la formazione culturale di base: il leggere, e quella religiosa: il catechismo.

La Madre era per le giovani soprattutto un modello nell’esercizio della carità verso i poveri, come ci dice suor Pia che tante volte lo aveva sentito raccontare dalle prime figlie. «Mi ricordo d’aver sentito tante volte quelle prime figlie (che furono poi suore Vincenzine) a parlare della somma carità che aveva la si­gnora Nasi».

Formazione pratica, culturale, religiosa, esempio di vita… ma non è tutto: altro aspetto fondamentale è la formazione spirituale. «Lo spirito poi, con cui questa pietosa cercava informarle […] era questo: consacrazione del loro cuore a Gesù Cristo, specialmente Sacramentato; esercizio di preghiera in casa, e pratiche di carità d’ogni maniera intorno agli infermi».

Quindi, consacrazione del loro cuore, della loro persona a Gesù Cristo, come vere spose. Consacrazione che trova la sua massima espressione nel duplice precetto dell’amore. Amore a Dio, a Gesù nella preghiera, soprattutto con l’adorazione e le pratiche di pietà tipiche del tempo.

Amore al prossimo, particolarmente nel servizio di carità verso i poveri più abbandonati, nei quali, come insegnava il Cottolengo, le Figlie dovevano vedere Gesù stesso.

Si trattava perciò di una formazione completa, che teneva conto di tutte le dimensioni della persona umana: quella spirituale, profondamente radicata nell’amore per Cristo, e quella delle opere, in cui questo amore per Cristo, coltivato nella preghiera, si faceva servizio al prossimo nella carità, coinvolgendo ed educando tutta la costellazione delle virtù umane che rendono la persona accogliente e affettuosa, segno dell’attenzione sollecita di Dio sotto forma di quell’amore materno che deve plasmare il cuore e gli atteggiamenti di una donna consacrata. Di tutto questo Madre Nasi si offriva come modello visibile e quotidiano davanti agli occhi delle sue figlie: madre per loro e per i poveri. È donna discreta e prudente, la sua condotta non suscita pettegolezzi. «Era donna di molta orazione, di soda pietà e di esemplarissima condotta».

 

GRANDE AMORE

ALL’EUCARISITIA

 

C’è un aspetto rilevante della vita spirituale di Marianna Nasi che merita di essere messo particolamente in risalto: il suo amore all’Eucaristia.

Normalmente assiste alla messa, assorta in profonda meditazione. Giovanni racconta: «Riguardo al SS. Sacramento essa nutriva profonda divozione e grande amore. Sentendo la santa messa, la vidi, essendo con lei, raccolta, anzi assorta, facendo spesso meditazione piuttostoché lettura su un libro di divozione».

Il suo amore per l’Eucaristia, il suo profondo raccoglimento durante la messa erano una catechesi esperienziale per il piccolo Giovanni. Marianna non si limitava però all’esempio, educava il figlio a ricevere con amore Gesù nell’Eucaristia. «Mi ricordo che per tutte le volte che mi accostava alla Santa Mensa, essa si infiammava nel parlarmi dell’Eucaristia e nell’eccitarmi a ricevere Gesù nel mio cuore».

Questo stesso fervore lo comunicava anche alle prime Figlie della carità di cui era formatrice. «In ogni occasione che le si offrisse la faceva da missionaria per infiammar nella divozione al ss. Sacramento tutte quante le persone che l’avvicinavano, e specialmente le dilette sue figlie spirituali, le suore».

«Per quanto poteva – dice Giovanni – essa faceva visite al SS. mo Sacramento». Egli ricorda le lunghe passeggiate in campagna insieme alla mamma dopo la benedizione festiva nella chiesa del Corpus Domini, durante le quali, passando accanto ad alcune chiese, vi entravano facendovi una breve preghiera.

Marianna Nasi, soprattutto dopo la morte del marito «vedevasi in chiesa ad adorarvi il suo sacramentato Signore, …se non era adoratrice di nome lo era di fatto in spirito e verità».

Durante la solenne esposizione nelle Quarantore «era per tutti i tre giorni sempre in chiesa, tolto il tempo del mangiare. Questo vidi io stesso – conferma il figlio accompagnandola qualche volta».

Marianna Nasi è un’innamorata dell’Eucaristia, questo suo amore al sacramento dell’altare altro non è che una delle più alte espressioni della sua profonda vita di preghiera e di unione con il Signore.

Scrive a ragione la teologa Adele Colombo: «Marianna Nasi emerge come colei che ha vissuto una vita pienamente evangelica, fondata sulla relazione di amore con il Signore che, in tal modo, ha motivato e sostenuto il suo amore per il prossimo più emarginato. Il suo carisma è stato quello di sintetizzare le due anime cottolenghine: quella contemplativa e quella attiva. Pertanto è doveroso riconoscere Marianna Nasi quale “cofondatrice”». Due anime che oggi si incarnano nelle due famiglie del nostro Istituto, quella di vita apostolica e quella di vita contemplativa che in lei trovano la radice da cui continuano ad attingere linfa per incarnare nell’oggi il carisma cottolenghino.

 

Maria Lara Broggi

 

1L. Anglesio, PO, Sessione CCCCXCV, vol. 9, int. 17, p. 463.

2Deposizione del cav. Giovanni Nasi…, in Antonio Pellegrino (a cura di), Madre Marianna Nasi, memorie storiche edificanti, Pinerolo 1964, p. 150.

3Cf. L. Piano, San Giuseppe Benedetto Cottolengo…, p. 214. Le prime ragazze, secondo la versione di suor Clara (cf. p. 62), furono accolte il 25 novembre di quello stesso anno. È plausibile pensare, come spiega L. Piano, che non si tratti di due versioni divergenti riguardo la data di fondazione del gruppo delle Figlie, ma che il Cottolengo abbia voluto premettere alcuni mesi di prova prima di dare avvio formale alla comunità. Cf. Ibid., p. 215.


ATEISMO DI RITORNO (3)

RAGIONI PER CREDERE

 

Rimaniamo dell’opinione che un ateismo vero e proprio non esiste, che l’ateo non è che un panteista, il quale attribuisce alla materia tutti quanti gli attributi di Dio. Una convinzione, questa, fatta propria da non pochi scienziati e filosofi.

 

Quanto è stato detto in precedenza1 va completato con una trattazione diretta dell’esistenza di Dio, anche se rimane vero che il problema dell’esistenza è preceduto dal problema della natura. Molte volte si nega un Dio che non ha riscontro nella realtà. Noi, nelle nostre riflessioni, dobbiamo tendere a presentare, come ci è possibile, il Dio di Gesù Cristo: una fede che ci distanzia dalle altre credenze, in qualche modo anche dalle credenze del Primo Testamento.

Per non ripeterci, prendiamo in esame a questo proposito le due ultime opere che abbiamo citato all’inizio. Il libro di Richard Dawkins, che porta come sottotitolo la dizione Le ragioni per non credere, discute abbastanza seriamente gli argomenti a favore dell’esistenza di Dio. Si passano in rassegna le cinque vie di san Tommaso, l’argomento ontologico (che tanto inchiostro ha fatto versare nel corso dei secoli), altri argomenti fra cui anche quello dell’esperienza personale e, per finire, la famosa scommessa di Pascal (in fin dei conti, afferma il pensatore francese, se Dio non esiste non ci rimetti niente). Evidentemente nessuno di questi argomenti è accettato come valido, secondo le premesse e le promesse, dall’autore. Con una certa sorpresa però il capitolo susseguente, quello formalmente dedicato alla non esistenza di Dio, è intitolato Perché è quasi certo che Dio non esiste. Un capitolo condotto soprattutto secondo gli schemi dell’evoluzionismo di tipo darwiniano, con il richiamo della selezione naturale e delle stesse leggi del caso.

 

ANDANDO

A TENTONI

 

Significativo l’esempio discusso all’inizio: quello del Super-Boeing 747. Un argomento forte dei teisti, che non riescono a spiegare come un simile mostro, tanto complesso e tanto sofisticato in certe sue parti, sia venuto fuori a caso. Ragionamenti, quelli dell’autore, che non riescono a convincere il lettore minimamente informato: «Una profonda comprensione del darwinismo ci insegna a non presumere con troppa faciloneria che il progetto sia l’unica alternativa al caso, e a cercare rampe graduali di complessità crescente. Prima di Darwin, filosofi come Hume capirono che l’improbabilità della vita non implicava necessariamente un progetto preliminare, ma non riuscivano a immaginare l’alternativa. Dopo Darwin, tutti dovremmo sentire un’istintiva diffidenza per l’idea stessa di progetto. È una trappola in cui siamo già cascati in passato e Darwin dovrebbe averci immunizzato, risvegliando la coscienza. Peccato che non sia riuscito a risvegliarla a tutti».

Gli intrappolati continuano imperterriti a pensare che solo un evoluzionismo teistico e finalistico è possibile e che l’evoluzionismo ateo, senza direzione e senza scopo, pecca insieme contro i principi della ragione e contro gli stessi dati dell’esperienza. Un occhio vivente, un semplice occhio, è moto, infinitamente più complesso di un Boeing più o meno grande. In più si dà il caso che l’occhio vede, una capacità che oltrepassa la pur complessa composizione di questa piccola parte dell’organismo umano.

Andando più avanti, la questione si complica sempre di più. Senza colpo ferire, il caso è capace di produrre l’armonia dell’universo e delle sue parti, dove fin da principio sono iscritte e reperibili leggi ferree, chiare impronte di una ragione creante e preveniente? Ma poi questa materia iniziale, amorfa e senza qualità, in cosa esattamente consiste se è capace di produrre spontaneamente, in progressione, la vita vegetativa, quella sensitiva e, soprattutto, quella razionale? Il meno può produrre da solo il più? È inutile che lo scienziato ci ripeta che la soluzione di Dio è troppo semplice per quietare la sua insaziabile fame di ricerca. Dio non è l’oggetto della ricerca scientifica e lo scienziato fa bene a prescindere dalla sua esistenza per ricercare fino in fondo la soluzione naturale dei suoi problemi. Ma lo scienziato è anche uomo, è anche “filosofo”, è anche essere razionale, e per questo può essere chiamato a divenire anche credente. La ragione non esaurisce la sua funzione nella scienza, ma la oltrepassa essendo capace di contemplare l’essere in tutta la sua estensione. Tutto sommato, si capisce perché il nostro autore intitoli il capitolo in questione con una affermazione insieme umile e incerta: Perché è quasi certo che Dio non esiste.

 

OLTRE IL TEISMO:

IL MATERIALISMO PANTEISTA

 

Alla resa dei conti, l’alternativa al teismo è il materialismo panteistico, tipo quello espresso da Baruch Spinoza con la nota espressione Deus sive natura, una identificazione che sposta semplicemente gli elementi del problema. Rimaniamo dell’opinione che un ateismo vero e proprio non esiste, che l’ateo non è che un panteista, il quale attribuisce alla materia tutti quanti gli attributi di Dio. Una convinzione, questa, fatta propria da non pochi scienziati e filosofi. Anche Albert Einstein, che pure affermava che Dio non gioca a dadi, apparteneva a questa categoria.

Nel libro prima ricordato, André Compte-Sponville afferma: quello che Spinoza chiama Dio, non è il buon Dio, «non è che la Natura… che non è un soggetto e non persegue alcuno scopo. A che pro rivolgerle preghiere, visto che lei non ci ascolta? Come obbedirle, se lei non ci chiede nulla? Perché affidarci a lei, che non si interessa per nulla di noi? E cosa resta allora della fede?». Gli idoli al posto di Dio, gli idoli che per il salmista hanno occhi ma non vedono, orecchi ma non ascoltano, mani ma non palpano. Il rischio già previsto dal Salmo è che coloro che li hanno fabbricati diventino simili a loro.

Se anche il credente è, almeno in certe circostanze, attraversato da dubbi e incertezze, il non credente non sta affatto meglio. Le sue convinzioni devono essere continuamente sottoposte allo sforzo di una tenace volontà perché non vengano meno. È quanto affermava lo scrittore cattolico François Mauriac dopo aver ascoltato o letto i ragionamenti del grande fautore del caso che risponde al nome di Jacques Monod (il quale riporta la frase nel suo libro fondamentale Il caso e la necessità): “Quanto dice questo professore è ancora più incredibile di quel che crediamo noi poveri cristiani” (p. 185).

Più volte, parlando a questi autori, ho detto loro di andarci piano coi loro argomenti, di procedere con molta cautela e molta circospezione, di usare comprensione e delicatezza nel proporre le loro conclusioni. Nel caso che essi riescano a convincere qualche credente e a portarlo alle loro posizioni, non hanno il diritto di cantare vittoria. In realtà, più che vincere, essi hanno aumentato il numero dei disperati, come ha detto chiaramente il citato J. Monod, il quale afferma senza mezzi termini che chi ascolta e fa proprio il suo messaggio, “come uno zingaro, si trova ai margini dell’universo in cui deve vivere. Universo sordo alla sua musica, indifferente alle sue speranze, alle sue sofferenze, ai suoi crimini” (p. 185). Veramente una ben magra consolazione. Parole forse più sincere, senz’altro più forti, di quelle prima ricordate di Camus. È impossibile immaginarci Sisifo felice.

 

PERCHÉ L’ESSERE

E NON IL NULLA?

 

Una domanda che più volte è risuonata nel corso della storia del pensiero. L’occasione di riprenderla in considerazione ce l’ha data un altro laico non credente, ma onesto e sincero, Norberto Bobbio, il grande politologo torinese, morto da pochi anni. Così egli scriveva nella rivista Micromega 2/ 2000, un numero sostanzialmente dedicato ai problemi religiosi: «Cos’è il cosmo? Cosa sappiamo del cosmo? Come e perché il passaggio dal nulla all’essere? È una domanda tradizionale, ma io non ho la risposta: perché l’essere e non piuttosto il nulla? Io non mi sono mai nascosto di non avere una risposta, e non so chi sappia darla a questa domanda ultima, se non la fede. Secondo Severino l’essere è infinito, l’essere c’è. Ma non è che così siamo in grado di capire cosa c’era prima. È impossibile. E di fronte alle domande cui è impossibile dare una risposta – perché di questo sono certo: non posso dare una risposta, benché appartenga ad una umanità che ha realizzato progressi enormi – mi sento un piccolo granello di sabbia in questo universo. E negare che la domanda abbia senso, come potrebbe fare una certa filosofia analitica, mi pare un gioco di parole» (p. 8).

Una rassegnazione nobile, ma forse non giustificata. Possiamo aiutare il vecchio professore anche riandando con la mente almeno alla prima formulazione della domanda. Essa appartiene a Leibniz, uno dei grandi filosofi dell’illuminismo europeo, il tenace assertore del principio di ragion sufficiente. La risposta alla domanda da lui considerata fondamentale e così formulata: «Perché è in generale l’ente e non piuttosto il niente», è già implicita nell’affermazione del suddetto principio: la ragione ultima della realtà è l’Essere assoluto, cioè Dio. Se esiste qualcosa, e di fatto esiste, la spiegazione non può che rimandare a Colui che ha potuto trarre le cose dal nulla. L’essere postula l’Essere.

Anche Schelling e Heidegger, da un punto di vista diverso, si porranno la stessa domanda, naturalmente variando anche la risposta. Ma c’è un autore contemporaneo che in un’opera originalissima, ma sostanzialmente seria (anche se non dovesse rispecchiare, come sembra, almeno del tutto il suo pensiero), che riprende l’antica questione con linguaggio fresco e attuale. È l’accademico francese Jean d’Ormesson, recentissimo autore del libro La creazione del mondo (Spirali, 2007), presentato nell’estate scorsa dal Corriere della sera col titolo più accattivante E Dio creò il big bang. A p. 81 c’è registrato questo dialogo (il libro è di per sé un racconto, un romanzo vero e proprio): «Mentre formulavo questa risposta che traduceva abbastanza bene ciò che provavo e in cui mi ritrovavo interamente, mi tornava piano piano in mente una domanda che avevo letto da qualche parte e che mi era molto piaciuta. Parlai a voce altissima: – Signore, perché c’è qualcosa piuttosto che niente? – Ah! Ecco l’ombra di Heidegger e l’ombra di Leibniz: Cur aliquid potius nihil? Benvenuta nel club! – mormorò André. Finsi di non avere sentito e continuai la lettura che andava verso la fine. Ci fu un gran silenzio. Poi la voce risuonò: - Perché l’est e l’ovest e il nord e il sud, perché l’immenso e il minuscolo, il delizioso e l’atroce, l’inizio e la fine e tutto il divenire tra loro celebrino la gloria di Dio».

Perché, perché? La domanda che assillava Bobbio è la domanda fondamentale della vita. Anche Comte-Sponville avverte la stessa urgenza: «Che un essere ci sia, è fuori discussio­ne. E che questo essere sia necessario, sono portato a pensarlo anch’io. È il lato spinoziano. Il mondo avrebbe potuto non essere? Certamente, ma solo nella nostra immaginazione” (p. 75). Dinanzi alla concreta realtà, dinanzi alla forza dell’evidenza, la domanda è destinata a rinascere, a inquietare, a turbare i sonni della notte e i pensieri del giorno. Oppure si preferisce la soluzione di Giosuè Carducci: «Meglio oprando obliar senza indagarlo/ questo enorme mister dell’universo»? La rinuncia al perché fondamentale della vita è la rinuncia alla ragione.

 

SE DIO C’È

DA DOVE VIENE IL MALE?

 

Si Deus est, unde malum? Il problema del male sembra diventato oggi la causa fondamentale dell’ateismo, la sua “roccia”, è stato detto. Non ci torneremmo sopra se non ci fosse un richiamo suggestivo nell’ultimo libro da noi considerato. Se Dio esiste, perché c’è il male? Il male in tutta la sua profondità e in tutta la sua estensione: il male fisico e il male morale, il male personale e il male sociale, il male oggetto di constatazione e il cosiddetto male metafisico, che è l’imperfezione congenita di tutti gli esseri creati, compreso l’uomo.

Il terribile dilemma formulato da Epicuro (o Dio può eliminare il male e non vuole, e allora non è buono; o Dio vuole ma non può, e allora non è onnipotente) ha interrotto i sonni di molte persone, non esclusi i cristiani. La nuova concezione di Dio inclina verso questa seconda soluzione, contro una malintesa onnipotenza divina. Intanto si ricorda che la parola “onnipotente” non è presente nella Bibbia; lo stesso aggettivo attribuito nel Credo al Padre non riporta esattamente il senso della parola originale: pantocrator, il cui significato originale è quello di signore.

C’è intanto una limitazione dell’onnipotenza divina che nasce dalla libertà dell’uomo, origine dei mali morali che hanno punteggiato la storia lungo tutti i millenni fino ai nostri giorni. La libertà dell’uomo è un concetto forte da rispettare e salvaguardare sempre. Contro di essa non può niente nemmeno Dio. L’esistenza dell’inferno è esattamente la riprova della intangibile libertà dell’uomo. Nemmeno Dio può costringere l’uomo a volergli bene, ad accettare la sua offerta di salvezza. Anche Auschwitz, simbolo estremo della degradazione morale a cui può arrivare l’uomo, non mette in causa la bontà di Dio, ma semplicemente la libertà dell’uomo. Creando l’uomo, Dio si è come ritirato, lasciando uno spazio che ora appartiene soltanto alla sua immagine. Così aveva già affermato la Cabala ebraica con la suggestiva teoria dello tsimtsum.

Altrettanto, anche se con maggiore difficoltà, si tende a pensare per il male fisico. Se l’universo è in evoluzione e non è ancora arrivato alla sua perfezione finale, rimane abbastanza comprensibile che esso incontri nel suo percorso stasi, lacune, imperfezioni, vuoti, fallimenti, sconfitte. Un pensiero che fa proprio anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, che al n. 311 afferma: «Insieme con il bene fisico esiste anche il male fisico, finché la creazione non avrà raggiunto la sua perfezione». All’avvento di questa perfezione è chiamato a collaborare l’uomo, capace con la sua intelligenza di dominare e possedere la terra, secondo il comando divino all’inizio della creazione, di compiere quei miracoli che troppo spesso chiede al suo Creatore.

Comte-Sponville ha qualcosa da obiettare a questa impostazione. «Alcuni credenti – egli afferma –, davanti all’evidenza e all’ampiezza del male si battono oggi in direzione opposta, invocando ormai non più l’onnipotenza, ma l’impotenza o la debolezza di Dio. Questa variante della kenosi o del tsimtsum, che troviamo per esempio nel Concetto di Dio dopo Auschwitz di Hans Jonas… La Shoah rende insopportabile l’idea stessa di un Dio onnipotente. Bisognerebbe allora rinunciare a quell’idea e rassegnarsi ad accettare, andando contro la tradizione, la tragica debolezza di un Dio in divenire e sofferente, di un Dio che “si è spogliato della propria divinità”, come dice Hans Jonas (in ciò molto vicino a Simeone Weil, che peraltro non cita), di un Dio disarmato, che non ha potuto creare il mondo e l’uomo se non rinunciando all’onnipotenza» (p. 100s.).

Il tema della debolezza di Dio è oggi all’ordine del giorno anche in campo teologico; per questo le parole del nostro autore non sono da rifiutare in toto. Il CCC difende ancora l’onnipotenza di Dio. Il che rimane certamente possibile, dal momento che, nelle attuali circostanze, l’eliminazione del male morale e anche del male fisico possono considerarsi come due assurdità. Ora l’onnipotenza divina non è messa in questione dall’assurdità, perché l’assurdo rappresenta semplicemente l’impossibile. E l’impossibile, come un circolo quadrato, non ha la minima possibilità di essere realizzato.

Considerazioni forse troppo astratte, che vanno per questo completate con una delle altre idee che hanno fatto irruzione ai nostri giorni nella riflessione teologica: Dio soffre con noi, è sempre vicino alle sue creature, specialmente nel momento del dolore e della solitudine. Il problema dell’esistenza di Dio va commisurato con questi ultimi pensieri, che nascono dalla lettura attenta della Bibbia, decisamente diversa dalla concezione del Dio greco, di cui abbiamo nel tempo mutuato le caratteristiche della immutabilità e della impassibilità.

Al Dio di Gesù Cristo dobbiamo puntare la nostra attenzione. Un Dio nuovo, un Dio diverso, un Dio paterno e materno, come il padre della parabola del padre buono e misericordioso, erroneamente passata alla storia come la parabola del figliol prodigo. Una vera e propria conversione. Come afferma Jürgen Moltmann ne Il Dio crocifisso, «cogliere Dio nel Crocifisso abbandonato esige una rivoluzione dell’idea di Dio».

È forse questo il problema teologico fondamentale del nostro tempo. Almeno in buona parte, gli altri sono dei derivati.

Giordano Frosini

1Cf. Testimoni nn. 19 e 20.


 

È VENUTO A INSEGNARCI COME VIVERE …

 

A Natale Gesù appare tra noi per mostrarci quale è l’essere pienamente umano, quell’uomo ideale che ogni mamma sogna quando in lei sboccia la vita e che ciascuno porta nascosto nel cuore, come la forza che lo proietta verso la piena realizzazione di sé

 

Tutti, grandi e piccoli, attendiamo con i nostri desideri il Natale e il tempo d’Avvento ci è offerto proprio per identificarli. Ma Dio ha per noi un dono che ad ogni Natale si rinnova nel mistero della liturgia cristiana. È il dono del Figlio di Dio che si fa uomo per noi. Il bambino che Maria mette al mondo nella grotta di Betlemme non è solo il Figlio unigenito del Padre, ma è anche l’uomo nuovo, quello che Dio da sempre ha pensato e in vista del quale ha creato l’universo. A Natale egli appare tra di noi per mostrarci quale è l’essere pienamente umano, quell’uomo ideale che ogni mamma sogna quando in lei sboccia la vita e che ciascuno porta nascosto nel cuore, come la forza che lo proietta verso la piena realizzazione di sé: «Il Figlio di Dio si è fatto uomo perché noi possiamo diventare figli di Dio».

Nel Bambino di Betlemme e nella sua vicenda umana emerge, passo dopo passo, quella persona ricca di umanità e di amore gratuito che tutti vorremmo essere, una persona aperta a tutti, che di tutti si prende cura, soprattutto dei deboli, dei poveri, degli umili, di coloro che non contano agli occhi del mondo; una persona che non ha nulla da spartire con il male, che s’indigna per il male che incontra, ma che vuol salvare coloro che lo commettono, che condanna il peccato, ma salva il peccatore, che tollera pazientemente le cose che non vanno come dovrebbero per dare tempo a tutti di ritrovare se stessi. L’uomo nuovo apparso in Gesù è uno che dialoga con tutti e non esclude nessuno, che lega amicizia con gli altri, ma che cerca di allargare la cerchia dei propri amici per costruire una comunità di fratelli e di sorelle; una persona che ama con amore sconfinato, fino a sacrificarsi per gli altri, per togliere le croci dalle loro spalle, che porta la propria senza farla pesare sugli altri fino a cadere sotto il suo peso, ma che non perde mai la speranza di rialzarsi e di continuare; che riesce a sopportare il silenzio di un Dio che sembra assente nel momento della grande prova, eppure continua a invocarlo con la fiducia del figlio.

Quest’uomo nuovo è Gesù, il dono del Natale, un dono prezioso per noi oggi in un tempo in cui rischiamo di imbarbarirci nello scontro con gli altri e nel rifiuto di parlare con chi non la pensa come noi, e di smarrire i valori autenticamente umani nella corsa al profitto e al successo. Oggi, troppo spesso e per troppa gente l’uomo ideale è quello che chiamiamo la persona “vincente”, colui o colei che supera, senza badare a spese e senza farsi troppi scrupoli, ogni ostacolo che incontra sul suo cammino, colui o colei che può vantarsi di essersi fatto da solo (ma sarà poi vero?), che riesce in ogni impresa e non conosce sconfitta di alcun genere. Questo è – lo sappiamo – un mito tanto diffuso quanto falso e, in più, una pericolosa illusione. La sapienza divina ci ricorda che l’uomo è fragile e debole, come un soffio o come l’erba del campo, che solo appoggiandosi alla parola di Dio trova la sua consistenza. Anche il Figlio fatto uomo, dono di Dio per ogni Natale, è “carne” come noi, fragile come noi, con le nostre stesse debolezze, escluso il peccato, che conosce, come noi, la fatica di essere uomo, ma è capace di amare “fino alla fine”. Proprio così ci mostrerà il volto del Padre suo che ama tutti senza condizione e su tutti fa cadere la pioggia e brillare il sole. Per rivelarcelo, Gesù ha accettato di morire sulla croce per amore, un amore così grande che lo ha fatto risorgere alla Vita piena ed eterna di Dio, che egli condivide con coloro che credono in Lui. Questa vita dei figli di Dio è garanzia e speranza (non consolazione a buon mercato!) per i poveri e gli oppressi, i miti e i misericordiosi, per quelli che piangono e che cercano la giustizia e la pace.

A Natale ci appare la Grazia di Dio, che porta la salvezza per tutti gli uomini e che “ci insegna a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo” (Tito 2,11). Questo è ciò di cui abbiamo bisogno per non cedere alla tentazione del potere e dell’avere e alle distrazioni del consumismo natalizio, per accogliere invece il dono di Dio. Buon Natale!

 

Gabriele Ferrari s.x.

 

 


PADRE ARRUPE A CENT’ANNI DALLA NASCITA

UN INTERPRETE AUDACE DEL CONCILIO

 

È stato un ottimista pieno di realismo perché fiducioso nell’azione dello Spirito. Per questo ha invitato a guardare avanti senza nostalgie per il passato. Se non si può chiedere a tutti lo stesso grado di ottimismo, diceva, a tutti si richiede almeno di non ammettere mai il pessimismo, poiché la novità del concilio è un dono di Dio che merita la nostra totale fedeltà.

 

Il 14 novembre scorso si sono compiuti cento anni dalla nascita di padre Pedro Arrupe. Sono trascorsi anche 16 anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 5 febbraio 1991, ma la sua figura è ancora molto viva in molti che l’hanno conosciuto direttamente o indirettamente, soprattutto per la grande saggezza con cui ha saputo interpretare e attuare le novità del concilio Vaticano II, in mezzo a tante spinte contrastanti, sia nella Compagnia di Gesù sia nella stessa Chiesa. Alcuni lo chiamarono “l’uomo dell’utopia”, altri “un mistico e un profeta del nostro secolo”, altri, ancora, lo riconoscevano come uno che ha fatto cose nuove, nel nome del Signore. In un’epoca di tensioni nella Chiesa postconciliare e all’interno stesso della Compagnia ha saputo procedere con raro equilibrio e con illuminato discernimento, sostenuto da una fede incrollabile e da una fiducia incondizionata nell’azione dello Spirito il quale, come diceva, non induce mai a tornare indietro né a fermarsi al presente, ma invita, anzi spinge a guardare _al futuro e a intraprendere con coraggio vie nuove. Per questo ha avuto anche molto da soffrire a causa di incomprensioni che a volte hanno contagiato i vertici stessi della Chiesa.

Ripercorrere oggi la vita di padre Arrupe vuol dire rileggere un periodo esaltante e insieme inquieto della storia recente della Chiesa e della stessa vita consacrata; ma soprattutto vuol dire riconoscere tutta la validità dei criteri di comportamento da lui adottati e che continuano a essere quanto mai validi anche per noi oggi. Il concilio infatti ha tutt’altro che esaurito la sua spinta ed è ancora in gran parte da attuare.

Pubblichiamo qui, con solo un piccolissimo taglio iniziale, il ricco profilo che di padre Arrupe ha tracciato l’attuale Preposito generale della Compagnia di Gesù, p. Peter-Hans  Kolvenbach, il 13 novembre scorso nell’aula magna  dell’università di Deusto, a Bilbao, città natale di p. Arrupe.

Padre Pedro Arrupe fu eletto Preposito generale della Compagnia di Gesù il 22 maggio 1965. Prima di allora si era trovato a dover far fronte a molte sorprese, a grandi cambiamenti e profonde novità nella sua vita. Un “colpo di grazia” a Lourdes cambiò la sua promettente carriera di medico in quella di gesuita, lasciandosi guidare nel suo cammino verso Dio dal suo compatriota basco Ignazio di Loyola. Le vicissitudini della politica nazionale lo trasformano in un esiliato, condannato a un’esperienza internazionale nella sfida di imparare nuove lingue e far fronte a diversi cambiamenti culturali in Europa e negli Stati Uniti.

Tutti questi sradicamenti non estinguono in lui il desiderio di seguire le orme dell’altro suo compatriota, Francesco Saverio. Queste separazioni non esauriscono il suo desiderio di annunciare la buona notizia del Signore in Giappone, un paese dotato di una cultura religiosa perfetta, che sembra non avere bisogno di nessuna buona notizia che venga da fuori. In “questo Giappone incredibile”, sperimenterà la novità dell’isolamento durante un mese in una cella della prigione di Yamaguchi, accusato di spionaggio. Giungerà a dire che questa esperienza insperata fu un colpo di grazia, poiché in solitudine con l’unico Signore visse, come ebbe a dire, «il mese più istruttivo della mia vita».

Un’altra novità vissuta in Giappone sarà quella della moderna invenzione dell’orrore umano che si chiama la bomba atomica di Hiroshima. Celebrando l’Eucaristia il giorno dopo il cataclisma, davanti a tanti corpi stesi al suolo, p. Arrupe rimane come paralizzato nel momento in cui deve dire davanti a tanta sofferenza “Dominus vobiscum”. Ma, contro una tale apparenza, il Signore è con voi.

 

L’ESPERIENZA

IN GIAPPONE

 

Una trentina di anni dopo, quando p. Arrupe visitò il Libano e io gli feci vedere le rovine del centro della città di Beirut, gli dissi che dopo una notte di terribili bombardamenti distruttivi, il mattino seguente gli uccelli cantavano sugli alberi. Egli mi rispose che anche a Hiroshima il Signore della vita non permise che l’incredibile potenza della morte dicesse l’ultima parola. Come dice il Cantico dei Cantici: “forte come la morte è l’amore, le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo” (Ct 8,6-7).

Ancora in Giappone vive un’altra novità quando è nominato responsabile di un gruppo importante di gesuiti, di origine internazionale. Padre Arrupe incoraggia questi apostoli ad abbandonare generosamente le maniere occidentali di pregare, di vivere e di lavorare per farsi, a imitazione dell’apostolo Paolo, tutto a tutti. In questo modo voleva far sì che i giapponesi riconoscessero nel volto di Cristo e della sua Chiesa, i tratti giapponesi del loro ancestrale desiderio religioso. Una tale fedeltà a questo modo di approccio nuovo dell’apostolo Paolo suscitava in alcuni l’entusiasmo apostolico, ma risvegliava in altri una resistenza di principio.

Questo è il modo con cui il Signore era andato preparando p. Arrupe a guidare la Compagnia nella novità che lo Spirito aveva ispirato nella Chiesa del Vaticano II, nel mondo e per il mondo. Rivolgendosi ai gesuiti di Roma l’11 marzo 1967, p. Arrupe sottolinea che la Congregazione Generale 31a – che lo elesse generale – è come un seme e un’esigenza di vita nuova che impegna la nostra responsabilità davanti a Dio e alla storia. Terribile responsabilità davanti alla storia, ma soprattutto responsabilità ancora più grave davanti a Gesù Cristo. Egli non ci ha scelti per i nostri meriti, né a motivo dei nostri gusti, ma secondo il beneplacito della sua volontà. In questo modo la nostra missione nella Chiesa, per quanto limitata e modesta, è affidata alla nostra responsabilità personale e comunitaria affinché vivificati e riuniti nel suo Spirito, ci incamminiamo verso la consumazione della storia umana in piena conformità con il suo disegno di amore.

Questa conclusione che assume pienamente in Dio la realtà di una Chiesa che cambia e l’esigenza di scoprire nuovi approcci per rispondere ai bisogni nascenti della Chiesa e del mondo, non elimina gli sforzi, gli sconvolgimenti e i sacrifici che comportano tutti questi cambiamenti e adattamenti.

Il padre Arrupe è realista: a noi sarà chiesto di più che non ai gesuiti del tempo di sant’Ignazio. Appena terminato il concilio chiede di non lasciarsi impressionare da dichiarazioni quali “è cambiata la Compagnia” o quell’altra più crudele per il riferimento personale, “quello che Ignazio, un basco, ha costruito, un altro basco lo sta distruggendo”. Prevedendo reazioni di questo genere, p. Arrupe, al termine della Congregazione, confessa il suo desiderio di impegnarsi in una fedeltà piena e totale al concilio Vaticano II. È un “ottimismo realista pieno di fiducia nello Spirito Santo che guida la Chiesa e la Compagnia. Non si tratta di conservare un ricordo nostalgico del tempo passato, né di un risentimento o malcontento per i cambiamenti difficili che incontriamo all’interno della Compagnia o al di fuori di essa. Sempre rispettoso della reazione dell’altro ai principi e alle attuazioni dell’ “aggiornamento”, p. Arrupe afferma che “anche se non si può esigere da tutti lo stesso grado di ottimismo, si impone almeno a tutti l’esigenza di non ammettere mai il pessimismo, poiché la novità del concilio è un dono di Dio che merita la nostra totale fedeltà.

 

DALLE OSSERVANZE

ALL’APERTURA ALLO SPIRITO

 

Questo spirito e questo messaggio del padre Arrupe si facevano sentire nei dettagli concreti della vita dei gesuiti, e dato il grado di nervosismo di questo tempo post-conciliare, qualsiasi fatto banale poteva scatenare autentiche tempeste. Così avvenne, per esempio, durante la sua prima visita ai gesuiti di Parigi, appena un anno dopo il concilio. In quell’epoca, io ero studente di linguistica alla Sorbona ed era la prima occasione in cui potei vederlo veramente così come i primi gesuiti volevano che fosse il “superiore generale”. Vale a dire “uno di noi”: accogliente e uomo di dialogo, senza formalità di protocollo, senza ricerca di un culto della personalità. Il provinciale di Parigi, desiderando fare bella figura, aveva imposto ai suoi compagni l’abito talare, o per lo meno l’abito clericale con la camicia e il colletto romano. Questa era la disciplina di quel tempo. Soltanto due giovani gesuiti, che venivano dal nord Europa, ruppero l’uniformità del gruppo, indossando un abito civile e la cravatta. Il provinciale cercò invano di allontanarli e di nasconderli dietro gli altri gesuiti che erano vestiti “come Dio comanda”. A maggiore imbarazzo del provinciale, per caso, furono tra i primi a salutare il loro superiore generale il quale si intrattenne piacevolmente con loro a parlare della Compagnia di Gesù nel nord Europa, che egli conosceva molto bene per gli anni del suo esilio. L’incidente, come si può immaginare, non passò inosservato e suscitò commenti ben diversi.

Avvenne qualcosa di simile il giorno dopo. Dati i miei doveri all’università, io non potei partecipare all’incontro dei gesuiti di Parigi con il padre Arrupe, ma alla sera in comunità si poterono udire chiaramente le diverse reazioni. Mentre alcuni si mostravano entusiasti, altri pronunciarono parole indignate poiché padre Arrupe aveva infranto santi costumi, aveva scosso posizioni acquisite da molti anni, mettendo ciascuno dei suoi uditori, personalmente, davanti alla novità dello Spirito che in maniera nuova aveva fatto irruzione nella nostra storia. Di conseguenza, per essere un autentico compagno di Gesù, non è sufficiente una condotta impeccabile, una fedeltà minuziosa e formale al regolamento e all’orario (nemmeno al più tradizionale e sacro), né basta un’osservanza perfetta a qualsiasi punto di vista. Prima di tutto è necessaria un’adesione senza riserve a questa novità cristiana a cui lo Spirito invita la Chiesa attraverso una disponibilità apostolica a tutta prova, illuminata da un discernimento orante nell’ascolto dei “segni dei tempi”.

Questo è ciò che voleva dire padre Arrupe ai gesuiti di Parigi, come lo farà in seguito per tutto il mondo, provocando di conseguenza un autentico sconvolgimento nella spiritualità e nella missione della Compagnia, senza risparmiare nessun dettaglio della vita di tutti i giorni.

 

FEDE INCROLLABILE

NELlA GRAZIA DEL CONCILIO

 

Quando dieci anni più tardi p. Arrupe traccia il bilancio di questa situazione, comincia anzitutto col ribadire la sua fede nella grazia del concilio. Conservava un ottimismo realistico, attribuito da qualcuno a una ingenuità personale che gli impediva di vedere la realtà disastrosa della Chiesa postconciliare. I numerosi contatti e la copiosa corrispondenza che teneva gli parlavano di continuo di dimissioni e di uscite, di situazioni conflittuali all’interno della Chiesa e della Compagnia, di pericolosi malintesi circa il rinnovamento in atto e di divergenze circa l’essenziale della nostra fede, mettendo in questione quasi tutto ciò che era stato così caro alla Chiesa prima del concilio. Padre Arrupe, da parte sua, non negava questa realtà ma si rifiutava di riconoscere in essa tutta la verità.

In effetti, applicando la ben nota legge di Zipf secondo cui una buona notizia non è una notizia e che solo una cattiva notizia merita questo nome, tutto il materiale negativo che si riferiva al postconcilio riscuoteva un’ampia risonanza nei periodici, riviste e servizi televisivi, alimentando in questo modo un pessimismo che raggiungeva persino le più alte sfere del Vaticano. Nonostante questo quadro così oscuro, padre Arrupe non proferiva mai una parola che non fosse di fiducia e di speranza, di incoraggiamento e di fede nell’impulso dello Spirito di Dio che rinnova la faccia di questo mondo attraverso la sua Chiesa e coloro che sono stati inviati ad annunciare la buona novella. Questa speranza che non cade in alcun modo nella notte oscura della nostra storia, era come sintetizzata in un proverbio che padre Arrupe ripeteva di frequente, e che il papa Benedetto XVI ha citato l’estate scorsa parlando a un gruppo di sacerdoti circa il tempo postconciliare: «Se cade un albero, fa molto rumore, ma se mille fiori si schiudono, ciò avviene nel più grande silenzio».

 

NOVITÀ CHE ESIGONO

UNA CONVERSIONE

 

Tutta questa pubblicità unilaterale e tendenziosa circa la novità del concilio era un male minore rispetto a una difficoltà più di fondo. Padre Arrupe ci ricordava di frequente che riguardo alle grazie e ai risultati del concilio Vaticano II ci comportiamo volentieri come dei forestieri, dei nuovi ricchi che ostentano la ricchezza ricevuta per farsi vedere e ammirare, dimenticando che tutti questi nuovi tesori ricevuti implicano nuove responsabilità verso gli altri. Corriamo il grave pericolo di nutrire dei sospetti circa le conquiste del concilio quali l’ “aggiornamento” e la nuova presenza della Chiesa nel mondo, la libertà religiosa di coscienza e la responsabilità dei fedeli nella Chiesa, il dialogo interreligioso e l’opzione preferenziale per i poveri, l’impegno per lo sviluppo umano e la riscoperta della Scrittura e della liturgia. Questi sono valori innegabili del concilio, ma, perché siano frutti dello Spirito, suppongono una vera conversione del cuore. In caso contrario, queste conquiste non produrranno altro che accomodamenti superficiali o si trasformeranno in concessioni all’opportunismo, cedendo alle pressioni della moda e alle correnti cosiddette moderne.

Un’irruzione dello Spirito nella vita della Chiesa può essere facilmente deformata o impedita dall’uomo. Come diceva padre Arrupe «siamo straordinariamente inventivi quando si tratta di trovare dei modi per tagliare la strada all’azione dello Spirito e, di conseguenza, il vangelo diventa lettera morta. Sono profondamente convinto di una cosa: senza una profonda conversione personale, non saremo in grado di rispondere alle sfide che l’oggi ci lancia. Al contrario, se riusciamo ad abbattere le barriere che si innalzano in noi stessi, sperimenteremo di nuovo l’irruzione di Dio e impareremo cosa significa essere cristiani oggi».

L’atteggiamento di padre Arrupe nei riguardi della novità del concilio presenta altri tratti. Mentre nel periodo post-conciliare tutti dovevano essere fatalmente classificati come conservatori o progressisti, sono molti coloro che hanno affermato che padre Arrupe non si lasciava classificare, poiché si trovava in un’altra situazione. E questa situazione non è, in alcun modo, una specie di compromesso tra la posizione degli integristi fanatici della purezza del sistema, da mantenere a qualsiasi prezzo, e l’atteggiamento di coloro che si schieravano per un’apertura incondizionata, col rischio di innovare con un radicalismo tale da non lasciare che vuoti e rovine. Per padre Arrupe, la novità non era né di destra né di sinistra; non si trovava nel mantenimento del passato né nell’ossessione del presente, ma nell’avvenire secondo la fede professata da sant’Ireneo di Lione: “Sapete che (Cristo) portò con sé tutta la novità che era stata annunciata. Questo è esattamente ciò che tempo fa era stato annunciato: che la novità doveva venire per rinnovare e dare vita all’essere umano” (Adv, Haer. IV, 34,1).

 

NECESSITÀ

DELLA PREGHIERA

 

Alla luce di Colui che deve venire come nostro futuro, Giovanni XXIII, convocando il concilio, vedeva in esso non solamente una specie di “saggia modernizzazione della Chiesa”, ma il suo rinnovamento nella novità di Cristo. Così, in seguito, padre Arrupe, cercando di essere fedele a questo orientamento, stimolava i suoi compagni a “fare un colloquio”, un incontro da persona a persona con Colui che deve venire, il Cristo “modello mai passato di moda e fonte di ogni nuova ispirazione”. Lui, che è la novità, fa nuove tutte le componenti del nostro essere e della nostra azione apostolica, sia di oggi che di ieri. Fa rivivere la nostra fedeltà e la nostra audacia, la nostra spiritualità in azione e la nostra presenza nel mondo.

Da questa preghiera che guarda a Cristo come nostro futuro, padre Arrupe tirava la conclusione pratica che ci saranno cambiamenti che non sono né capitolazioni né sconfitte, ma una necessità e un vero progresso. In questa ricerca di forme nuove si possono commettere degli errori, in parte dovute al fatto che i cambiamenti a volte devono effettuarsi secondo punti di riferimento che a loro volta sono in movimento; e in parte perché sono in gioco valori di segno diverso di cui bisogna tener conto con equilibrio. Ma sarebbe un errore ancora più grande non tentare questa ricerca. Tutto questo rinnovamento è molto delicato perché l’uniformità che in altri tempi era accessibile e si poteva imporre a priori, oggi risulta impraticabile in un mondo caratterizzato in gran parte dall’entrata in campo di nuovi paesi, il rapporto con nuove culture e la scristianizzazione crescente di paesi che erano stati tradizionalmente evangelizzatori.

In questo cammino di rinnovamento, padre Arrupe ha potuto aiutare tante persone, tanta gente, dal momento che egli stesso ha dovuto percorrere questa strada che gli si presentava come un vero esodo. Si tratta, secondo le sue stesse parole quando fu eletto superiore generale della Compagnia, di un esodo radicale pieno di incertezze e di responsabilità; un esodo che implicava l’abbandono di tutto un insieme di atteggiamenti, di concezioni, di priorità. Da tutto questo, secondo lo spirito del concilio, era necessario prendere le distanze per adottare altri atteggiamenti da precisare, chiarire e definire. Si trattava di uscire da un mondo pieno di sicurezze affermate, ereditate dalla tradizione secolare della Chiesa e della Compagnia, per entrare in un mondo ancora in fieri, da noi sconosciuto, ma a cui Dio ci chiamava attraverso la voce del concilio, del santo Padre, delle congregazioni generali.

 

L’ESEMPIO

DI SANT’IGNAZIO

 

Questo cammino comportava numerosi tunnel e nuove sfide, ma anche innumerevoli speranze e possibilità poiché era, e lo è sempre per noi, il cammino di Dio “che ha fatto nuove tutte le cose nel suo Figlio Gesù, che è la novità”. Si tratta della testimonianza dello stesso padre Arrupe, il 15 gennaio del 1977, in occasione dei 50 anni della sua entrata nella Compagnia.

Questa omelia, pronunciata presso la tomba di sant’Ignazio, ci ricorda anche che questo basco del secolo decimosesto fu un inventore che ha aperto tante nuove strade, ha dato impulso a un nuovo spirito missionario nel mondo e ha iniziato una nuova forma di vita consacrata a immagine degli apostoli. Inoltre, negli Esercizi spirituali sant’Ignazio ha aperto la contemplazione dei misteri della vita di Cristo alle scelte che il Signore ha fatto in nostro favore perché in questo modo la nostra vita giunga a conformarsi alla sua. Di conseguenza, difficilmente uno può dirsi ignaziano se non percorre questa via di novità.

Come vedete, non c’è nulla di strano che padre Arrupe, fedele allo spirito del Vaticano II, avanzasse su questa linea già tracciata da sant’Ignazio, consapevole che si trattava di una linea elevata, nel cui percorso possono avvenire cadute e incidenti di percorso. Camminare su questa linea alta per costruire il nuovo in nome del Signore richiede coraggio e prudenza. In questo sforzo per introdurre la novità del concilio, padre Arrupe faceva suo ciò che Giovanni Paolo II sollecitava dai professori dell’università Gregoriana di Roma: «Sappiate essere giorno per giorno creativi, senza accontentarvi facilmente di ciò che è stato utile in passato. Abbiate il coraggio di esplorare nuove strade, anche se con prudenza». Questa consegna del papa era quanto mai opportuna, poiché il post-concilio comportava per la Chiesa, e in particolare per la Compagnia di Gesù, dei pericoli non illusori. Ossia, una specie di compiacenza di non vedere, non tornare a dire le meravigliose novità del concilio, di non metterle in pratica per una specie di paura a impegnarsi in un cammino nuovo senza sapere in anticipo dove ci porta e conduce. In diverse occasioni padre Arrupe si lamenta che anche i gesuiti vengano meno nell’intento: i più anziani, perché tentati di fuggire dalla novità; i più giovani, perché portati da una precipitazione incosciente.

Tuttavia questa resistenza passiva, che trova tra i suoi fratelli gesuiti, al desiderio dei vicari di Cristo in terra di “mettere in pratica le novità del concilio” non scoraggia in nessun modo padre Arrupe nel suo progetto di indicare le porte che lo Spirito Santo ha aperto e che nessuno potrà chiudere. Su impulso del concilio e alla sua luce, restavano molti compiti da attuare, spesso in terreni dove non erano tracciate le strade, senza fare affidamento su mappe in cui fossero indicate chiaramente le vie da seguire. Come ripeteva Giovanni Paolo II, era necessario andare avanti, ma con prudenza.

 

UN DISCERNIMENTO

ORANTE

 

I pareri circa l’interpretazione di questo consiglio papale non concordavano e nemmeno la portata di questa prudenza ottiene l’unanimità. Sarà forse necessario in questa linea elevata misurare i passi, rallentare o addirittura fare marcia indietro? Sulla scorta dell’esperienza di sant’Ignazio, padre Arrupe affida la prudenza al discernimento orante: davanti a Dio, nel Signore, la verità tutta intera è scrutata per leggere ciò che egli vuole compiere per mezzo nostro. Si tratta, di un vero approccio “olistico” che non si limita ad aspetti parziali o particolari della realtà e che nemmeno si lascia ipnotizzare dalle ideologie o correnti di moda. Non segue idee fisse e pietrificate, ma seleziona dalla lunga storia di Dio con noi, dal vecchio e dal nuovo, il necessario per costruire la città di Dio con gli uomini, una terra nuova e un cielo nuovo.

Questa apertura orante è ciò che caratterizza la prudenza di padre Arrupe. Nel suo modo di mettere in pratica la novità del concilio riconosce che lo Spirito mai ci costringe a tornare indietro, ma, al contrario, ci incoraggia a un’incessante ricerca della via di Cristo. Così poi, animati dallo Spirito, dobbiamo soppesare ciò che facciamo per vedere se, con il Signore, è quanto si potrebbe o dovrebbe fare. Padre Arrupe afferma che è essenziale raccogliere e interpretare i fatti, come anche analizzare le tendenze, ma non si tratta ancora di un vero discernimento. L’autentico discernimento sta nello scrutare i segni dei tempi e nell’interpretarli alla luce del vangelo, per mezzo della preghiera, sulla realtà umana.

È contento di vedere che questo compito delicato e arduo richiede una costante trasformazione interiore, una vera metanoia o conversione a Cristo crocifisso e, d’altra parte, implica per noi una liberazione da tutto ciò che può turbare il nostro giudizio o occupare inutilmente il nostro cuore. In questo modo si potrà rimanere costantemente alla scuola e a disposizione dello Spirito.

Grazie a questo discernimento orante, praticato nella Chiesa, con la Chiesa e per la Chiesa, padre Arrupe vive l’ “aggiornamento” del concilio con intensità. Al di là della lettera dei numerosi documenti conciliari, riconosce il manifestarsi dello Spirito che fa nuova ogni cosa. Nelle formule ed espressioni della lettera coglie la nuova fede, espressione della tradizione viva e della passione per l’unità di tutta l’umanità nel suo Signore. Anche se il cambiamento che si attua dopo il concilio è stato a volte troppo precipitoso e sconcertante, e tende a fermarsi, p. Arrupe desidera che l’ “aggiornamento” continui, anche solo per il semplice fatto che il nostro mondo cambia e si evolve, obbligando la Chiesa a offrire nuove risposte alle nuove necessità. Se queste risposte portano oggi nomi ben noti come dialogo e inculturazione, spiritualità e chiesa dei laici, sviluppo e pace, promozione della giustizia nel mondo attraverso una precisa e chiara opzione preferenziale per i poveri, possiamo dire che tutte queste risposte, secondo padre Arrupe, hanno avuto un luogo privilegiato nell’ “aggiornamento”.

Anche qui si è manifestata la resistenza contro l’attuazione del concilio, nonostante tutta la prudenza sollecitata dal compianto Giovanni Paolo II. Se desideriamo lavorare per la giustizia in forma seria e fino alle sue ultime conseguenze, la croce apparirà immediatamente al nostro orizzonte. Se siamo fedeli al nostro carisma sacerdotale e religioso, anche quando agiamo con prudenza, vedremo levarsi contro di noi coloro che nella società industriale di oggi praticano l’ingiustizia, coloro che per un altro verso sono considerati eccellenti cristiani e che forse hanno potuto essere nostri benefattori, amici, e persino membri delle nostre famiglie: ci accuseranno di marxismo e di sovversione. Ci toglieranno la loro amicizia e insieme ritireranno la loro vecchia fiducia e il loro sostegno economico. Siamo disposti ad assumere questa responsabilità di entrare nella via di una croce più pesante, a sopportare le incomprensioni delle autorità civili ed ecclesiastiche e dei nostri migliori amici? Siamo noi stessi disposti a offrire una vera testimonianza nella nostra vita, nelle nostre attività, nel nostro stile di vita?

 

LA LEGGE FONDAMENTALE

DELL’AMORE

 

Per padre Arrupe, questa impostazione era una conseguenza logica della novità che comporta per la Chiesa la sua legge fondamentale, il comandamento nuovo dell’amore, “amatevi gli uni gli altri; come io vi ho amato, da questo tutti sapranno che siete miei discepoli” (Gv 13,34). Era prevedibile, e in certo senso un atteggiamento di routine, l’indignazione suscitata da questa impostazione? Il comandamento nuovo dell’amore ci invita sempre a fare il primo passo per la riconciliazione, a salutare fraternamente coloro che non ci salutano, ad amare non solo coloro che ci sono vicini, ma anche quanti si allontanano da noi – amici e nemici. Più ancora, nella nostra carità cristiana non dobbiamo accontentarci di dare nostre cose, ma noi stessi, la nostra vita ed essere così a immagine del Signore persone a servizio degli altri.

È evidente che il nostro egoismo reagisce con forza a questo comandamento nuovo, anche quando non abbiamo parlato per niente dell’ingiustizia del mondo, dell’oppressione e della schiavitù, piaghe anche del nostro tempo cosiddetto moderno, che mantiene in quelle condizioni intollerabili che i mezzi di comunicazione pongono davanti ai nostri occhi e che il mondo dei poveri deve sopportare senza speranza e sostegno.

Nel suo sforzo per imprimere un nuovo impulso e portarlo fino alle ultime conseguenze, padre Arrupe si riconosceva in stretta continuità con il concilio e i sinodi, con le dichiarazioni dei pontefici e dei vescovi, anche se per tradizione e prudenza le loro esigenze pratiche non raggiungevano la linea elevata che padre Arrupe desidera seguire. Qualunque conversione al sociale potrebbe allontanare il cristiano dalla spiritualità, anche quando tale allontanamento non è in alcun modo indispensabile. Ogni opzione e lotta per la liberazione degli oppressi, ogni difesa dei poveri e ogni testimonianza per la giustizia può condurre all’ingiustizia della violenza e dell’odio, anche se questo cambiamento di valori non si impone in modo fatalistico. Mentre Giovanni Paolo II afferma che non è sufficiente la lotta per la giustizia contro le strutture ingiuste e che è necessario che questa lotta sia a servizio della carità e da essa condizionata, padre Arrupe, con una posizione che mi permetto di definire più sfumata, sottolinea in primo luogo che non tutta la carità è di per sé autentica. Questa carità può essere falsa e solo apparente, vale a dire, può essere una ingiustizia camuffata quando al di là della legge si concede a una persona per benevolenza ciò che le è dovuto per giustizia. In concreto, l’elemosina non può essere una specie di ultimo sotterfugio per non rispettare nei riguardi di una persona la giustizia di cui ha diritto.

D’altra parte, padre Arrupe si mostra meno reticente nei riguardi della giustizia poiché mai si è parlato tanto di questa e a sua volta mai è stata disprezzata in modo così flagrante. Egli concorda con Giovanni Paolo II nella convinzione che la carità, come amore al prossimo, e la promozione della giustizia sono inseparabilmente unite nel nuovo comandamento dell’amore. La lettura che il concilio fa del vangelo conferma che non si ama se non si fa giustizia e che la giustizia si degrada e diventa ingiustizia se a sua volta non si attua con amore.

Per dirlo ancor più chiaramente, la sua fiducia nella giustizia vissuta alla luce del Vangelo ha questa espressione e caratteristica nuova: la giustizia vissuta come sequela del vangelo è in se stessa il sacramento dell’amore e della misericordia di Dio. In questo modo, padre Arrupe desidera riaffermare, in linea con la più pura tradizione ignaziana, che l’amore non sta nelle parole ma deve essere tradotto in azioni concrete di giustizia.

Si tratta della novità del concilio che porta fino alle ultime conseguenze il comandamento nuovo dell’amore, anche col rischio di presentarlo come un’utopia e di suscitare la sfiducia e il sospetto scoprendo, in questa prospettiva, la dimensione sociale del vangelo. Quando in seguito si profilò il problema del dialogo con il mondo, non solo a livello di religioni e di credenti, ma anche nel contesto delle grandi ideologie, padre Arrupe, anziché chiudere a priori e di colpo la porta del dialogo, stimola la Compagnia a studiare gli elementi positivi di queste ideologie. Nel caso concreto del marxismo, sostiene con fermezza che la Compagnia di Gesù non potrà mai accettare un’ideologia che abbia come fondamento essenziale l’ateismo. Ma, a sua volta, afferma con chiarezza che si deve studiare con serietà e coscienza ciò che essa ha di vero. E questa posizione fondamentale la ritiene una necessità nel dialogo con il marxismo, con altre ideologie e religioni.

 

I SEMINA VERBI

PRESENTI OVUNQUE

 

Non dobbiamo forse riconoscere come una novità del concilio che crede nella presenza dei semina Verbi, gli elementi validi presenti nell’induismo, nell’Islam, nel buddismo, in altre religioni? Non dobbiamo riconoscere questi semina Verbi come un punto di partenza per un dialogo costruttivo con l’altro? Una volta di più, padre Arrupe si è mosso su questa linea avanzata, proclamando la novità dello spirito del concilio fino alle esigenze di apertura e di dialogo. Il suo linguaggio, nel contenuto e nell’espressione, è del tutto fedele alla richiesta del Signore il quale ci dice che “il nostro sì sia sì, e il nostro no sia no”, senza ambiguità di linguaggio, senza abile diplomazia. In questo modo di parlare franco e chiaro, il punto di partenza è indicato sempre dalla situazione attuale: egli non si perde in paragoni col passato quando è tempo di accogliere la novità sempre presente nelle prospettive del domani. Di fatto, tali prospettive le ha spiegate Colui che deve venire per fare nuove tutte le cose. È esattamente nella ricerca di forme nuove dove si manifesta il cambiamento che viene dallo Spirito nel contesto attuale. Tenuto presente che Colui che fa nuova la nostra storia è l’alfa e l’omega, colui che era, che è e sarà. Padre Arrupe non può immaginarsi un cambiamento che sia di rottura radicale con il passato, o di discontinuità, tale da supporre l’abbandono di una sana tradizione, poiché se così fosse si tratterebbe di un vuoto che nulla potrebbe colmare.

In questo senso, dobbiamo riconoscere che l’introduzione della dimensione sociale nel corpo della Chiesa debba essere fatta in continuità con il contenuto del comandamento nuovo del Vangelo. Per quanto si riferisce alla Compagnia di Gesù, l’apostolato sociale, senza dubbio, era già in germe nell’azione sociale di sant’Ignazio. Continuità, certamente, ma anche cambiamento e novità. È opportuno ricordare, a questo punto, che Benedetto XVI ha riconosciuto sant’Ignazio come un santo sociale, permettetemi che citi solamente lui fra le tante testimonianze della storia che così lo presentano. Di conseguenza, vedere in tutto questo processo unicamente una specie di capitolazione di fronte alle ideologie marxiste o socialiste sarebbe semplicemente una falsa interpretazione.

Tutto ciò che padre Arrupe ha compiuto è stato una risposta all’invito di Giovanni Paolo II il quale diceva che la Chiesa si attendeva oggi dalla Compagnia che contribuisse efficacemente all’attuazione del concilio Vaticano II, che in questo modo avrebbe fatto avanzare tutta la Chiesa sulla via tracciata dal concilio, e convincesse coloro che disgraziatamente si sentivano tentati sulle vie del progressismo o dell’integrismo (27.02.1982). In antecedenza, data la sua fiducia nella forza spirituale della Compagnia, che ha il suo fondamento nell’esperienza di Dio attraverso sant’Ignazio, Paolo VI (1974) aveva indicato la Compagnia di Gesù come il luogo in cui la novità del concilio avrebbe dovuto prendere forma. La vostra Compagnia, per così dire, non è forse un test della vitalità della Chiesa attraverso i secoli, non costituisce forse una specie di incrocio in cui confluiscono in maniera molto significativa le difficoltà, le tentazioni, gli sforzi e le realizzazioni, la perpetuità e la riuscita della Chiesa intera?

Su questa linea avanzata troviamo padre Arrupe che cammina stando avanti. Egli cerca di accogliere la novità del Concilio, nel cui seno si sviluppa l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento all’interno della continuità con una Chiesa viva, poiché è il Signore colui che dà la vita. Applicando questa terminologia introdotta da Benedetto XVI, questa ermeneutica della riforma si distingue chiaramente da una ermeneutica di rottura e di discontinuità, in cui il cambiamento è cercato solo per il cambiamento, come se la Chiesa dovesse ri-fondarsi e non ri-formarsi (22.12.2005).

 

NON METTERE

OSTACOLI ALLO SPIRITO

 

Questi riferimenti pontifici appena menzionati, applicati all’azione rinnovatrice di padre Arrupe, potrebbero far sembrare a colui che legge questo capitolo della storia postconciliare come un conflitto della Compagnia con il papato. La documentazione di lettere e discorsi dei papi che ho ricordato non contraddice in alcun modo i nuovi orientamenti difesi con rigore e fervore da padre Arrupe. Allo stesso tempo, bisogna riconoscerlo, questa documentazione contiene segni di precauzione, di preoccupazione e di riserve riguardo a questo cammino in avanti su una linea avanzata. All’interno della Compagnia le preoccupazioni dei pontefici furono utilizzate da diverse parti per fomentare una resistenza contro il rinnovamento lanciato da padre Arrupe. A loro volta, alcune espressioni di padre Arrupe furono interpretate alla leggera come una giustificazione di iniziative e condotte estranee alla missione della Compagnia, attribuendo un peso quasi dominante alla promozione umana e unicamente al progresso sociale.

Sia le decisioni del concilio, sia l’attuazione che padre Arrupe desiderava promuovere, esigevano l’irruzione dello Spirito di Dio nel concreto della nostra storia e non una semplice riorganizzazione. Come ho ricordato all’inizio, lo stesso padre Arrupe costatava che gli uomini hanno una straordinaria capacità di inventiva nel porre ostacoli all’azione dello Spirito. Per questo il vangelo diventa lettera morta e non siamo più capaci di comprendere il radicalismo del messaggio evangelico. Lo minimizziamo per il nostro sfrenato egoismo e non portiamo a capo le riforme personali e sociali necessarie, poiché abbiamo paura delle conseguenze che ne deriverebbero per le nostre persone.

Il padre Arrupe era profondamente convinto di una cosa: senza una conversione personale profonda non saremo in grado di rispondere alle sfide che oggi ci vengono lanciate. E così, cercando di vivere perfino con sofferenza questo valore conciliare che è il rispetto per l’altro nella sua libertà di scelta, rifugge dal ricorrere ad argomenti di autorità e di potere per imporre ciò che egli sapeva venire dallo Spirito. Il suo atteggiamento sarà quello di proporre con tutta la sua fede, non quello di imporre, anche a rischio di essere accusato di debolezza o di seconde intenzioni. Come evitare le ambiguità di una parola di Dio espressa con parole umane? È il prezzo da pagare per andare avanti e aprire strade su una linea avanzata.

 

UN INNOVATORE

FINO ALLA FINE

 

Le due ultime omelie di padre Arrupe riflettono questa immagine che sto delineando: non quella di un audace, ma quella di un innovatore totale. A Manila pronuncia una omelia che contiene questa prima testimonianza: «Mi riferisco alla ri-formulazione del fine della Compagnia, a partire dalla difesa e propagazione della fede a servizio della fede e della promozione della giustizia. La nuova formula non è, in alcun modo, riduttiva, de-viazionista o dis-unitiva: al contrario esplicita elementi contenuti in germe nella vecchia formulazione, grazie a un riferimento più esplicito alle necessità attuali della Chiesa e dell’umanità al cui servizio siamo impegnati per vocazione». Tutta la figura e tutto il messaggio di padre Arrupe sono espressi in questa densa sintesi.

L’altra omelia è degli inizi di settembre del 1983, pronunciata a La Storta, luogo ignaziano per eccellenza, dove Ignazio sperimenta il compiersi della sua preghiera di essere posto con Cristo come suo compagno, servo della missione del Signore. Padre Arrupe non era in condizioni di poter pronunciare questa omelia che aveva redatto personalmente: «Chiedo al Signore che questa celebrazione, che per me è un addio e una conclusione, sia per voi e per tutta la Compagnia qui rappresentata, l’inizio, con rinnovato entusiasmo, di una nuova tappa di servizio».

Nei nove anni che seguirono a queste parole, in uno stato di apparente inutilità, non più capace di comunicare e in grado unicamente di soffrire una lenta agonia, padre Arrupe si sente più che mai nelle mani del Signore. Sono sue parole. Considera la sua figura sofferente come il compiersi di ciò che ha desiderato per tutta la vita: la profonda esperienza che oggi è il Signore stesso ad avere in mano tutta l’iniziativa.

Questo sarà anche un luminoso messaggio per tutti i compagni che si trovano nel pieno della vita attiva: che non si esauriscano nel lavoro, che il centro di gravità della loro vita non sta nelle cose da fare, ma in Dio (cf. 03.09.1983). Il messaggio che vi rivolgo oggi è un messaggio di piena disponibilità al Signore. Cerchiamo senza stancarci ciò che abbiamo da fare per il suo maggior servizio e mettiamolo in pratica nel modo migliore possibile, con amore, spogliati di tutto. Abbiamo un senso molto personale di Dio.

Hans-Peter Kolvenbach

 


DATI BIOGRAFICI DI P. ARRUPE

 

Pedro Arrupe nasce il 14 novembre del 1907 a Bilbao, città dei paesi baschi, da cui proveniva anche sant’Ignazio di Loyola. Il giorno dopo la nascita riceve il battesimo nella basilica di Santiago, attualmente cattedrale.

Il primo di ottobre 1914 entra nel collegio degli Scolopi di Bilbao, dove frequenta il corso di bacellierato fino al 1922. Nel 1923 lo troviamo a Madrid per iniziare il primo corso di medicina nella facoltà di San Carlos.

Nel 1926 muore suo padre. Poco dopo decide di compiere un viaggio a Lourdes con le sue sorelle. Qui assiste ad alcune guarigioni miracolose che può verificare in qualità di studente di medicina. Dirà: «Ho sentito Dio così vicino nei suoi miracoli, da trascinarmi violentemente dietro di sé».

Il 25 gennaio 1927 entra nella Compagnia di Gesù, nel noviziato di Loyola. Dopo aver iniziato gli studi di filosofia nel monastero di Oña (Burgos), giunge il decreto di scioglimento della Compagnia in Spagna (1932): Arrupe parte per l’esilio con i suoi compagni e professori e continua gli studi a Merneffe (Belgio). Per frequentare la teologia lo mandano a Valkenburg (Olanda). Intanto nella vicina Germania sorgeva la fatidica ombra di Hitler e del nazismo. «Per me, dirà in seguito, l’incontro con la mentalità nazista fu un tremendo shock culturale».

Il 30 luglio 1936 riceve l’ordinazione sacerdotale a Merneffe. In settembre si trasferisce negli Stati Uniti per compiere studi di morale medica.

Il 6 giugno 1938 riceve una lettera del padre generale che lo destinava alla missione in Giappone, missione che egli stesso aveva chiesto molte volte ai suoi superiori. Il 30 settembre s’imbarca da Seattle verso Yokohama.

Dopo vari mesi di apprendimento della lingua e dei costumi giapponesi, nel giugno del 1940 è destinato alla parrocchia di Yamaguchi, ricca di ricordi di san Francesco Saverio.

L’8 dicembre 1941 il Giappone entra in guerra. Il giorno dopo, padre Arrupe, viene messo in prigione, accusato di essere una spia. Lo rinchiudono in un bugigattolo di due metri per due. Dopo un mese è rimesso in libertà, per l’ammirazione che aveva suscitato con il suo buon comportamento e le sue conversazioni con i carcerieri e i giudici.

Pochi mesi più tardi viene nominato maestro dei novizi. Parte per il noviziato di Nagatsuka, una collina nella periferia di Hiroshima. Qui, il 6 agosto 1945, alle 8 di mattina, è testimone dell’esplosione della bomba atomica su Hiroshima. Immediatamente trasforma il noviziato in un ospedale di emergenza. Più di 150 persone, colpite dalle radiazioni, sono attese da una comunità che ha a disposizione solo pochi mezzi per sé. In seguito Arrupe scriverà un libro su questa esperienza intitolato: Io ho vissuto la bomba atomica.

Il 24 marzo 1954 è nominato superiore di tutti i gesuiti del Giappone, con l’incarico di vice provinciale e gira un po’ il mondo per tenere conferenze allo scopo di raccogliere fondi per la Chiesa del Giappone.

Il 22 maggio 1965 è eletto generale della Compagnia di Gesù. In questa veste, seppe tracciare itinerari, indelebili per la Compagnia di Gesù, ma che non mancarono di influire anche su altri settori della società.

Il 2 dicembre 1974 convoca la Congregazione generale 32ª, evento che rimarrà una pietra miliare nella storia dei gesuiti, soprattutto perché viene affermato che la fede in Dio deve inevitabilmente andare unita alla lotta instancabile contro le ingiustizie che gravano sull’umanità.

Il 7 agosto 1981, di ritorno dall’oriente, dove si era recato a visitare i gesuiti di quella parte del mondo, nel taxi che lo portava dall’aeroporto in città, a Roma, viene colpito da una trombosi cerebrale che lo lascia paralizzato nel lato destro. Il giorno seguente gli viene amministrato il sacramento degli infermi.

Il 26 agosto nomina un delegato personale per accudire al governo della Compagnia nella persona del gesuita p. Dezza. Il 3 settembre 1983, riunita la Congregazione generale, p. Arrupe presenta la sua rinuncia all’incarico davanti a tutti i padri presenti. Pochi giorni dopo, p. Peter-Hans Kolvenbach è eletto generale. Il suo primo gesto è di abbracciare p. Arrupe dicendogli: «Ora non la chiamerò più padre generale, ma continuerò a chiamarla padre».

Dopo quasi dieci anni di dolorosa inattività e di offerta di sé per la Compagnia, la Chiesa e l’umanità, il 5 febbraio 1991 consegna la sua anima a Dio nella casa generalizia dei gesuiti a Roma. Alcuni giorni prima, già in agonia, era stato visitato da Giovanni Paolo II.

 


Indice TESTIMONI 2007

 

La prima cifra rimanda al numero della rivista, la seconda alla pagina. I titoli in neretto corsivo si riferiscono allo «speciale Testimoni».

 

ATTUALITÀ: Il messaggio di Benedetto XVI. La grammatica della pace 1,1; Viaggio in Terra Santa. Pellegrini sulle tracce di Gesù 1,4; Cosa si è fatto? 3,20; In merito all’attuale dibattito. Unioni di fatto 4,1; In Africa il VII World social forum. La sfida di Nairobi 4,4; Sviluppi del progetto culturale. In dialogo con le culture 6,1; A 50 anni dai trattati di Roma. Rilancio dell’Europa. 7,1; Esortazione apostolica “Sacramentum caritatis”. Mistero da credere, celebrare, vivere 7,4; I rapporti Cina-Vaticano. Quali ancora gli ostacoli? 8,23; Grido di allarme di mons. Sako. Un Iraq senza cristiani? 9,1; Grandi laghi, quali prospettive? Tacciono le armi ma non è pace 9,20; Il Papa in Brasile ad Aparecida. Aperti i lavori del Celam 10,1; Udienza del Papa all’Uisg. Coltivate la dimensione “mistica” 10,10; La fede del papa teologo. Un bel libro da leggere 12,18; La situazione in Palestina e Libano. Non si vede una via d’uscita 16,19; Dopo la marcia dei monaci. La Birmania non resti sola 18,1; Quale Natale in Terra Santa? 21,1.

ATTUALITÀ (in Italia): Settimana sociale cattolici italiani. Bene comune ma senza trincee 19,1.

ATTUALITÀ (nel mondo): Ucciso p. Ragheed. Altri martiri nel tormentato Iraq 12,6; Assemblea della Caritas internationalis. Un grido d’allarme 13,1.

CHIESA NEL MONDO: Ultimi sviluppi. La Chiesa guarda alla Cina 3,1; Il Papa ai religiosi. Ardete di questa fiamma 4,11; V Assemblea del Celam. Nuovo slancio alla missione 8,1; 80º genetliaco di Benedetto XVI 8,10; Aumentano le conversioni. Essere cristiani in Cina 8,21; Ripercorrendo le precedenti conferenze. Il cammino fino ad Aparecida 10,4; Dopo la conferenza del Celam. In cammino nel secolo XXI 12,1; La donna nella Chiesa locale. Al di là del “fare” 13,8; Annunciato dal Papa per il 2008-2009. Un anno giubilare paolino 14,4; Una lettera annunciata da mesi. Il Papa scrive alla Chiesa cinese. 14,7; Il parere del card. J. Zen 14,8; Il Papa all’Agorà dei giovani a Loreto. “Andate controcorrente” 15,1; Viaggio del papa in Austria. Ha parlato a tutta l’Europa 16,1; Nuove frontiere della missione della Chiesa. Ateismo di ritorno 19,4; Ateismo di ritorno (2). Etica e spiritualità senza Dio? 20,4; Rileggendo il documento di Aparecida. Alcune luci e diverse ombre 20,21; Ateismo di ritorno (3). Ragioni per credere 21,25.

CHIESA NEL MONDO (sinodi): A 40 anni dalla Populorum Progressio. Proposte ancora valide 3,19; Verso la V assemblea Celam. Da Rio de Janeiro ad Aparecida 7,17.

CHIESA IN ITALIA: Il sinodo dei vescovi. I religiosi e la Parola di Dio 12,4; Verso la 45ma settimana sociale. A tema il bene comune 17,1; I nuovi Lezionari  21,7.

DIALOGO CON I LETTORI: Scarsità e abbandoni 14,30; “Il carisma dei religiosi è solo dei religiosi?” 19,29.

ECUMENISMO-RELIGIONI: Il viaggio del Papa in Turchia. Dalla critica alla stima aperta 1,7; La gioia di chi era là 1,8; Settimana di preghiere per l’unità dei cristiani. Rompere insieme il silenzio 2,1; Visita di Christodoulos a Roma. Si apre una nuova tappa 2,7; Incontro di Chrisostomos con il papa. Messaggero di buone notizie 13,4; Terza assemblea ecumenica europea. A Sibiu per ripartire. 14,1; L’ecumenismo dopo l’assemblea di Sibiu. Realismo dopo l’utopia 16,23; 138 guide musulmane ai leader cristiani. Una parola comune tra noi e voi 19,7.

EDUCAZIONE-SCUOLA: Il Centro educativo ignaziano. Gesuiti e Ancelle. La “caduta del muro” 3,6.

INFORMAZIONE BIBLIOGRAFICA: La stessa acqua fa galleggiare o affondare 1,30; Crescita personale e comunità religiosa 2,30; Il grido dell’amore 3,30; Piegati ma non spezzati 4,30; Aiuto fraterno 5,30; Donna dell’unità 6,30; Formare per trasformare 7,30; Un monaco straordinario. Padre Benedetto Calati 8,30; Con occhi spalancati 9,30; Non più schiave 10,30; Lectio degli Atti degli apostoli 11,30; Per la catechesi e l’iniziazione cristiana 12,30; Una catechesi familiare e giovanile 13,38; San Benedetto e l’impresa moderna 15,30; Rinnovamento vc e famiglia francescana 16,30; Attenzioni “pastorali” nuove 17,30; Cristiani iracheni: stranieri in patria 18,30; Una vita affidata a Dio 19,30.

MOVIMENTI-ASSOCIAZIONI: II incontro europeo dei movimenti. Insieme per l’Europa 12,16.

MISSIONE “AD GENTES”: Chiamati per essere inviati. La missione richiede l’amore 9,9; Cinquant’anni di “Fidei donum”. Un ponte tra le Chiese. 10,18; Un nuovo sinodo speciale per l’Africa. Continente da riconciliare 11,7; I francescani tra i musulmani. Con lo stile di san Francesco 17,9; Interrogativi sulla missione. L’Ad gentes in transizione 17,20; Credere, vivere, donare. Missione: scambio di doni 18,4.

PASTORALE: Giornata mondiale del malato. Non solo curare ma prendersi cura 2,4; Messaggio consiglio permanente CEI. Amare e desiderare la vita 2,6; Convegno del centro nazionale vocazioni. Vocazioni crisi vera o presunta? 2,9; Un argomento da approfondire. Lettura liturgica delle scritture 2,15; V convegno Cism sull’annuncio ai giovani. Sulla strada di Emmaus 3,4; Il card. Tettamanzi agli ammalati. “Ascolta, impara ad ascoltare” 3,12; XXII Giornata mondiale della gioventù. È possibile amare? 5,7; Convegno medici cattolici ambrosiani. Pregare fa bene alla salute? 5,12; 48° convegno Opera della Regalità. Liturgia e mistero pasquale 5,17; Il papa ai seminaristi e sacerdoti. Siamo stati scelti dall’amore 6,16; Esperienza di una diocesi americana. Un perdono dato e ricevuto 7,20; Accompagnare il matrimonio nella cultura del provvisorio 8,19; I salesiani progettano l’oratorio. Con la porta sempre aperta 10,20; Il card. Tettamanzi sul ministero della salute. La medicina “ottavo comandamento” 13,11; Profilo del catechista. Testimone più che “insegnante” 14,14; Case per ferie in una pastorale integrata. Il ministero dell’accoglienza 14,17; Orientamenti morali e virtù cristiane. La strada scuola di formazione 14,22; Il Motu Proprio sulla messa tridentina. Tra timori e interrogativi 15,4; Un valore da riscoprire. Il silenzio nella liturgia 18,18; Altri momenti di silenzio 18,21; VII Forum del centro nazionale vocazioni. Quale animatore vocazionale? 19,17. Il cardinal Lercaro e la riforma liturgica. Lo spirito che ha animato la riforma 19,10.

PSICOLOGIA-VITA SPIRITUALE: Riflessioni psicologiche. Quando uno è in crisi 17,7.

QUESTIONI SOCIALI: VI Rapporto Caritas. Vite fragili presenza quadruplicata 2,19; Rapporto di Amnesty international. Politiche della paura 13,27; Seminario sulla “tratta” degli schiavi oggi. L’impegno delle religiose 20,19.

SPIRITUALITÀ: La beata Elisabetta della Trinità. Con il cielo dentro il cuore 1,15; Semplicità virtù da scoprire. Essere semplici non è così semplice 2,12; Forum internazionale dei giovani orionini. La speranza? Ascoltiamo i santi 3,14; Il digiuno nei testi liturgici della quaresima. Ancora possibile parlare di “digiuno”? 4,6; Un cardine di tutta la vita spirituale. Preghiera contemplativa 4,22; Alcuni suggerimenti pratici 4,29; Tempo di Quaresima. Aprire a Dio che bussa 5,1; Lectio divina quotidiana. Quando Dio parla al cuore 5,23; Dio e la sofferenza dell’uomo. Croce rivelazione dell’amore 6,22; 15 maggio: domenica della misericordia. Misericordia ma anche giustizia 7,6; Dalla Pasqua alla Pentecoste. Un unico ottavo giorno 7,9; Da una meditazione di p. R. Cantalamessa. Mitezza virtù dei forti 8,11; Meditando sulle quattro “note”. Uno sguardo d’amore sulla Chiesa 8,13; L’esperienza di M. Maddalena de’ Pazzi. Il tempo della prova 8,16; Assumere i sentimenti del Signore. Centralità di Cristo nella VC 8,25; Omelia di p. Raniero Cantalamessa. “C’erano anche alcune donne” 9,6; Spiritualità apostolica nel quotidiano. “Un giorno davanti a Te” 10,15; Meditazione biblica. Dov’è Dio? Domanda o grido? 13,14; Lettera del rettor maggiore dei salesiani. “Farsi eucaristia” 14,10; Il dono del timore di Dio. Umili davanti a Dio 14,12; All’origine del dono e del servizio. Vedere con il cuore 15,23; Il papa ai sacerdoti e ai religiosi. “Siate come lampade” 16,4; Il discernimento come esperienza di fede 16,9; Per una comprensione dei voti religiosi. Nella luce della redenzione 18,13; Per diventare persone spiritualmente adulte. Amicizia con Dio e maturità 19,13; Riflessione per il tempo liturgico. Avvento e “conversione” 20,7; Spiritualità del tempo di Natale 21,4.

TESTIMONIANZE: I “martiri” del 2006. Servi dell’amore 2,23; La scomparsa dell’abbé Pierre. Un gigante della misericordia 3,16; Ricordo di don Andrea Santoro. A Trabzon un anno dopo 5,5; Un santo alla nostra portata 6,15; Jean Therry Ebogo. Un fiore profumato del Camerun 6,19; Maria Rosa Pellesi. Come oro nel crogiolo 9,12; Un amico sufi ricorda p. Ragheed. Era l’innocenza fatta persona 15,8; Suor Maria degli Angeli Beretta. Un cuore assetato di verità 15,21; A dieci anni dalla scomparsa. Madre Teresa e il silenzio di Dio 17,16; Antonio Rosmini proclamato beato. Lontano precursore del Vaticano II 19,15; Scomparsa di don Oreste Benzi. Ha lasciato un’eredità d’amore 20,10; Marianna Nasi. Il profumo della carità 21,14; P. Arrupe. Un interprete audace del concilio 21,29.

TEOLOGIA: Linee di ricerca e riflessione. Gesù visto dall’Africa 13,25

VOCE DELLO SPIRITO: Una comunione oltre ogni frontiera 1,21; La parola sorgente di amore. 2,22; Sguardo a Colui che hanno trafitto 4,21; Al cuore della Chiesa c’è il Cuore di Gesù 5,22; Lo sguardo di Gesù su Pietro 6,21; Incontro con il Risorto. Una comunità che racconta 7,22; Il discepolo che Gesù amava disse: “È il Signore” 8,24; Con Maria nel cenacolo 9,23; I sette santi doni 10,22; Dio ci ama con cuore nuovo 11,21; L’amore calato nel quotidiano 12,21; Vedi la Trinità se vedi l’amore. 13,29; Maria assunta in cielo 14,21; Fa’ della tua vita un dono d’amore 15,22; Da’ tutto datti tutto 16,22; Con Maria doniamo a Dio la nostra umiltà 17,19; Siate santi! 18,22; Il senso cristiano della morte 19,20; Dio vuole trovare casa nel nostro cuore 20,23; È venuto a insegnarci come credere 21,28.

VITA CONSACRATA: Per vivere con gioia e frutto la vocazione 1,12; Seminario di studio. Vita consacrata e dottrina sociale 1,18; “Signore dove abiti?” 1,22; Messaggio Cei ai consacrati 2,18; Una domanda senza pregiudizi. Che cosa si è eclissato? 3,9; Un interrogativo inquietante. Cristo l’emarginato? 3,11; P. Nava ai membri delle curie generalize. C’era una volta la visita canonica 3,23; La profezia della VC nella Chiesa di oggi. Una vita samaritana 4,9; I vescovi e i religiosi tedeschi si interrogano. Come servire il vangelo 4,12; Prime risposte di alcuni generali. Vita consacrata. Un futuro “incerto” 5,9; Incontro alla dehoniana libri di Roma. Affettività cammino di crescita 5,14; Cooperazione religiosi-laici. Insieme per servire 5,19; Alcuni vescovi nella giornata per la VC. “Grazie perchè ci siete” 6,4; La comunità religiosa. Luogo di crescita 7,12; Dal documento finale del capitolo generale straordinario OFM. Il Signore parla lungo il cammino 7,23; In dialogo con mons. Gardin. Comunità luogo di crescita 8,5; 54 Assemblea nazionale Usmi. Una vocazinoe tra le vocazioni 9,4; Un libro della sociologa Patricia Witteberg. Verso nuovi campi di impegno 9,17; Il card. Rodé ai religiosi della Slovacchia. La VC oggi, sfide e missione 9,24; L’assemblea plenaria delle superiore generali. “Tessitrici” di nuove spiritualità 10,7; Convegno istituti vc conferenza umbra (1). Portatori di gioia e speranza 10,11; Il cambiamento nella vc. Promotori o destinatari? 10,13; Gli sviluppi nel cammino post-conciliare. Autorità e obbedienza 10,23; Assemblea unione superiori generali. Quale profezia? 11,1; Convegno istituti conferenza umbra (2). Da Verona uno stile di Chiesa 11,4; Convegno opera di Maria a Loppiano. Notte collettiva? 11,12; Giornata di studio presso l’Antonianum di Roma. Tra autorità e obbedienza 11,18; Fra J. R. Carballo ai giovani ofm. Una scelta radicale di vita 11,22; Nuove porte che si aprono. Fra tentazioni e nuove possibilità. 12,11; Alcuni timidi suggerimenti. In un mondo che è già cambiato 12,14; Assemblea USG. Comunità profetiche 12,22; Il “ministero profetico” dei consacrati. Tra realismo e utopia 13,30; La vita consacrata nella Chiesa locale. Una scuola dello Spirito 15,7; Interrogativi sulla vita consacrata. In ascolto dei giovani 15,11; VC oggi in Europa. Tra precarietà e segni di speranza 16,14; I laici nelle attività-aziende dei religiosi. Dipendenti ma non solo 16,16; La nota pastorale Cei dopo Verona. È l’ora anche dei religiosi 17,4; In ascolto dei giovani. Un futuro meno sterile 18,10; Primo convegno nuove forme e comunità di vita consacrata. Lo Spirito oltre la norma 18,23; Le suore in Cina: una storia poco conosciuta. Vitalità mai spenta 19,21; Assemblea Cism sul pluralismo in Italia. Sfide inedite 20,1; Prezioso strumento di lavoro di C. Maccise. “Cento temi” di vita consacrata 20,16; Convocati dalla Parola 21,9.

VC - FORMAZIONE: Fr. Alvaro Echeverrìa sulla formazione. Lasciare che Dio agisca in noi 4,15; Settimo incontro formatori cappuccini. Crescere nella fede e in umanità 4,18; Un argomento spesso trascurato. Le virtù umane nella formazione 6,9; Intervista a G. Crea. Disagi e stress in comunità 11,10; Una formazione permanente globale. Quando nella vita occorre una svolta 13,6; Un impegno di formazione permanente. Educarsi alla relazione 16,7; Riflessioni psicologiche 2. Quando uno ci ripensa 18,7.

VC - ISTITUTI SECOLARI: Simposio 60 anni dalla “Provvida Mater Ecclesia”. Questo è il tempo per noi 6,6.

VC - MONACHESIMO: Incontro monaci e monache vallombrosani. Un primo passo per camminare insieme 17,11; Cristocentrismo nella vita benedettina. “Nulla antepongano a Cristo” 20,24.

VC - VITA DEGLI ISTITUTI: I dati più recenti di 205 istituti religiosi maschili. Un calo inarrestabile? 12,9; Capitolo generale Servi di Maria. Quale povertà oggi? 21,12.

VC - VITA DEGLI ISTITUTI (maschili): I camilliani in vista del capitolo. A tema “giustizia e solidarietà” 1,10; Convegno internazionale dei mercedari. Schiavi di ieri e di oggi 1,13; Programma dei missionari della Consolata. Prima santi e poi missionari 6,12; I comboniani e il servizio dell’autorità. Il superiore parola-chiave 7,15; Lettera di Pasqua dell’abate Tiribilli. Terza età evento pasquale 8,7; Il fondatore dei dehoniani Leone Dehon. Un beato “in lista d’attesa” 9,14; Il 56º capitolo generale dei camilliani. Ricerca di strade nuove 11,15; Convegno internazionale salesiano. Dal cuore di Dio al cuore dell’uomo 14,19; Il XV capitolo generale dei saveriani. Perchè e come essere missionari 15,17; Convegno di studio degli assunzionisti. Ritorno a Oriente 17,14; Lettera del generale degli orionini. Le vocazioni priorità assoluta 18,16; Capitolo generale dell’ordine domenicano. Verso il futuro con gioia e speranza. 20,13; Centenario della “formula vitae”. Lettera dei superiori generali Oc-Ocd 20,14. Terzo capitolo delle stuoie. “Tornate ogni giorno al primo amore” 15,14.

VC - VITA DEGLI ISTITUTI (femminili): Le figlie di S. Paolo. Un capitolo per “andare oltre” 16,11.