“CHIEDETE PACE PER GERUSALEMME ….”

QUALE NATALE IN TERRA SANTA?

 

La condizione per i cristiani in Israele diventa sempre più difficile. Le nuove restrizioni d’ingresso imposte dal governo colpiscono direttamente anche religiosi, sacerdoti e seminaristi, limitando o impedendo loro il libero movimento. Le previsioni per il futuro sono molto oscure.

 

Il pellegrinaggio in Terra Santa, al di là dei suoi obiettivi religiosi, è anche l’occasione per rendersi conto di come evolve la situazione in questa terra di cruciale importanza nello scacchiere politico mondiale. E se il pellegrinaggio si svolge, come nel mio caso, a scadenza annuale, è ancora più facile misurare le variazioni della «temperatura» politica locale. Certo prima di tutto un pellegrinaggio è l’occasione per conoscere e amare quella terra e le sue popolazioni, siano esse ebraica o palestinese, cristiana o musulmana.

 

UNA “TREGUA”

NEL CONFLITTO, MA …

 

Il momento politico attuale è caratterizzato da quello che gli osservatori chiamano una “tregua” nelle ostilità. Questa parola l’abbiamo sentita a più riprese nel corso del pellegrinaggio (11-24 novembre 2007). Ciò non significa affatto che i problemi siano finiti. Magari lo fossero! Il fatto è che tutti sono stanchi di questo conflitto infinito. La guerra dell’estate 2006 ai confini del Libano ha indebolito la credibilità del governo israeliano di Ehud Olmert, compromesso non solo dall’insuccesso di quella guerra, che gli Hezbollah libanesi dichiarano di aver vinto, ma anche dagli scandali morali che hanno coinvolto figure istituzionali di primo piano, come il presidente della Repubblica e il ministro della guerra. Dall’altra parte tutto questo non ha risollevato le sorti del popolo palestinese, oggi diviso al suo interno fra le fazioni di Hamas e di Al Fatah e incapace quindi di trarre profitto dall’attuale congiuntura politica. Nei giorni in cui eravamo in Israele, l’attenzione del mondo intero era rivolta all’imminente Conferenza per il Medio Oriente di Annapolis (Maryland) in USA, dove il presidente George W. Bush, impantanato ormai nella sua guerra dell’Irak, vorrebbe riscattare la sua immagine politica internazionale prima della fine del suo mandato, giungendo a una risoluzione che ponga fine al conflitto israelo-palestinese. Purtroppo molti osservatori temono una ripetizione dell’incontro di Camp David del luglio 2000, quando il presidente Bill Clinton, in analoghe circostanze, aveva fatto di tutto per portare Ehud Barak e Yasser Arafat a un accordo di pace, svanito per l’intransigenza di quest’ultimo.

La tregua, ovviamente, non significa la pace, eppure durante il pellegrinaggio abbiamo visto autentiche folle di pellegrini, di gran lunga più numerosi dello scorso anno, segno che c’è più fiducia. Ma sempre nel corso del pellegrinaggio ci siamo resi conto che i palestinesi sono ancora soggetti alle solite ingiuste restrizioni, che prosegue la costruzione del “muro della vergogna” che li rinchiude nei «territori» come in una prigione, che i militari israeliani entrano ancora, a loro piacimento, nella terra dei palestinesi, che si continua a costruire, sul territorio palestinese nuovi insediamenti ebraici (gli addumin) e tutto questo in spregio delle risoluzioni dell’ONU e delle promesse di Israele. Tutto ciò per la sicurezza nazionale, obiettivo unico della politica di Israele. Certo oggi la sicurezza è minacciata dalle proposte insensate del presidente iraniano, Mahamoud Ahmadinejad, che vuol colpire Israele con le armi nucleari. Anche se questa minaccia, verosimilmente, non sarà messa in atto, offre pur sempre un valido pretesto a Israele per indurire le sue posizioni bellicose. E chi ne fa le spese è la popolazione palestinese. Ancora una volta si comprende che la pace nella terra di Gesù non è vicina e che da essa dipende la pacificazione di tutta la regione mediorientale.

 

NUOVE RESTRIZIONI

SUI VISTI D’INGRESSO

 

Quasi tutto ciò non bastasse, una nuova preoccupazione è venuta a complicare la vita delle comunità cristiane palestinesi, già molto provate dalla guerra e dall’emigrazione che ha assot­tigliato le loro fila, passate in questi ultimi tempi dal 10% al 2% della popolazione israeliana. Sempre per ragioni di sicurezza in questi ultimi mesi il ministero degli interni israeliano ha deciso di limitare l’entrata degli stranieri. Ufficialmente si tratta di un provvedimento volto a limitare l’ingresso in Israele agli stranieri in possesso di un visto «per una sola entrata» provenienti dai “paesi nemici”. Tuttavia esso è stato subito applicato anche ai cittadini della Giordania e dell’Egitto, due paesi arabi che hanno firmato un trattato di pace con Israele. Ora si dà il caso che, tra coloro che sono oggetto di tali restrizioni, ci siano molti sacerdoti, religiosi e religiose, seminaristi e altre persone della chiesa cattolica, sicché ciò che potrebbe sembrare una restrizione “normale” in un tempo di conflitto, finisce per colpire in modo molto grave la vita delle comunità cristiane in Terra Santa e, in particolare, il Patriarcato latino di Gerusalemme, che include Palestina, Israele e Giordania. Le stesse restrizioni sono applicate ai frati francescani della Custodia della Terra Santa, ai membri della Chiesa melchita (i cristiani greci in comunione con Roma), alle congregazioni religiose e ai seminaristi del seminario del Patriarcato latino di Beit Jala, la maggior parte dei quali sono di nazionalità giordana. A tutti questi non sarà più permesso di spostarsi all’interno delle loro comunità, dato che chi, per ragioni di ministero, di famiglia o per eventuali emergenze, deve uscire da Israele, perde il suo “visto di residenza” e richiederlo, mentre si trova fuori del paese, comporta un’attesa di 3-4 mesi senza, per altro, aver la certezza di riacquistarlo.

Già oggi i preti palestinesi per entrare in Israele o recarsi a Gerusalemme, devono avere un permesso delle autorità militari israeliane, che fissano loro il luogo di entrata e la durata del soggiorno, non possono usare la propria macchina per spostarsi e devono sottoporsi a umilianti controlli ai check-point, sempre con pericolo di trovarsi davanti ad arbitrarie e imprevedibili chiusure dei «territori». Queste nuove disposizioni impediscono al clero e ai religiosi di programmare qualsiasi normale lavoro pastorale e di partecipare alle cerimonie religiose nei Luoghi santi, come pure agli incontri mensili e ai ritiri organizzati dal Patriarcato latino. Le previsioni per il futuro sono purtroppo oscure e preoccupanti. Se, come si teme, Israele dovesse applicare con rigore le nuove restrizioni, entro giugno 2008 la Chiesa cattolica perderebbe molto del suo clero che proviene, in prevalenza, dalla Giordania, il seminario di Beit Jala, che dal 1852 forma tutto il clero per tutta la Terra Santa, dovrebbe chiudere e molte parrocchie rimarrebbero senza parroco. Un alto ecclesiastico del Patriarcato, nel corso della visita, ci faceva notare che purtroppo i ritardi e le complicazioni burocratiche per i visti del personale di cui la Chiesa ha bisogno, sono già una realtà. Per questo il patriarca Michael Sabbah si sta adoperando in ogni modo per scongiurare questa situazione e sta chiedendo l’aiuto politico di chi può influire in Israele, perché la soluzione di questi problemi non si trova in Vaticano, ma a Washington e nelle cancellerie europee.

 

I RAPPORTI

ISRAELE-SANTA SEDE

 

La libertà della Chiesa nella sua ­gestione ordinaria è stata fissata nel­l’«Accordo fondamentale fra la Santa Sede e lo stato di Israele» del 30 dicembre 1993. Tale «Accordo» comportava un altro «Accordo giuridico», firmato nel 1997 ma mai entrato in vigore, e un «Accordo economico» per la risoluzione di tre questioni delicate: le proprietà della Chiesa ingiustamente espropriate o sottoposte a ingiuste servitù; i servizi che la Chiesa rende alla popolazione israeliana, sia essa di origine ebraica o palestinese che, a parità di servizi, dovrebbero essere ricompensati allo stesso modo delle istituzioni statali; la questione delle tasse per le quali la Santa Sede chiede una cosa semplice e naturale: e cioè che quello che è avvenuto durante gli ultimi tre secoli, ciò che Israele ha promesso al momento della sua indipendenza nel 1948, ciò che è sottinteso con la firma dell’Accordo giuridico, ciò che di fatto avviene fino a questo momento in materia di esenzione di tasse per le istituzioni religiose cristiane, sia cristallizzato giuridicamente in un accordo di valore internazionale regolare.

Mons. Pietro Sambi, ora nunzio a Washington, che è stato delegato apostolico e nunzio in Israele dal 1998 fino al 2005, in una intervista rilasciata il 16 novembre 2007 a Giuseppe Caffulli, ha denunciato il verificarsi in Israele di una “strana situazione: gli accordi già firmati, quello Fondamentale e quello Giuridico, sono validi internazionalmente, ma non sono validi in Israele, perché la legge israeliana rende obbligatoria l’approvazione della Knesset (il Parlamento israeliano) perché un accordo valido internazionalmente diventi valido sul territorio israeliano. E l’approvazione della Knesset nessuno ha avuto la preoccupazione di chiederla. L’Accordo economico, dopo quasi dieci anni di trattative rese inutili da rinvii degli incontri da parte della delegazione israeliana, da mancanza di poteri della medesima nelle trattative, in una parola per assenza di volontà politica, non è stato ancora firmato. È sotto gli occhi di tutti quale fiducia si possa accordare alle promesse d’Israele! Il problema dei visti per il personale religioso cattolico era di più facile soluzione quando non esistevano i rapporti diplomatici tra la Santa Sede e Israele”. Interrogato poi su come egli vedesse la situazione dei rapporti di Israele con la Chiesa cattolica, il nunzio Sambi, con la franchezza tutta romagnola che lo caratterizza, ha risposto: «Se devo essere franco, le relazioni tra la Chiesa cattolica e lo stato d’Israele erano migliori quando non c’erano i rapporti diplomatici».

L’avvicinarsi delle feste natalizie ci porta tutti idealmente in Terra Santa presso la grotta di Betlemme e ci invita a pregare per la pace in quel paese e affinché Israele comprenda che la sicurezza, cui la sua popolazione ha certamente diritto, non si raggiunge costruendo muri invalicabili, ma ponti di comunicazione, non aumentando il numero dei paesi nemici, ma allargando la base di quelli amici. L’arcivescovo Sambi, nella stessa intervista, ha citato a memoria un detto rabbinico che afferma che «il generale più valoroso non è quello che travolge il nemico, ma quello che sa trasformare il nemico in amico».1

 

Gabriele Ferrari s.x.

Tavernerio 26 novembre 2007

 

1 La conferenza che si è tenuta ad Annapolis (Maryland) negli Stati Uniti per iniziativa del presidente americano Bush l’ultima settimana di novembre e che ha riunito insieme i rappresentanti del governo dello stato d’Israele e del Movimento per la liberazione della Palestina, nelle persone del primo ministro israeliano Ehud Olmert e del presidente Mahamoud Abbas, alias Abu Mazen, chairman del comitato esecutivo e dell’Autorità palestinese, potrebbe segnare una svolta, speriamo definitiva, nel conflitto israeliano-palestinese, dopo decenni di conflitti e di violenze. Le due parti infatti hanno firmato una dichiarazione congiunta (Joint Understanding) in cui esprimono la determinazione di voler giungere a creare due stati indipendenti e di avviare immediatamente, a questo scopo, negoziati bilaterali che portino a concludere un trattato di pace che risolva le questioni pendenti. D’ora in poi, essi si impegnano a incontrarsi ogni due settimane, mentre una commissione congiunta si riunirà regolarmente a partire dal 12 dicembre prossimo. I due leader, inoltre, si propongono di giungere a un accordo prima della fine del 2008, rispettando la Road Map del 2003, messa a punto dal cosiddetto “quartetto” (Usa, Russia, UE e ONU) che prevedeva un percorso a tappe per giungere a una pace stabile e alla creazione di uno stato palestinese indipendente e democratico.

C’è da augurarsi che questo piano abbia successo e segni anche per i cristiani di queste terre l’inizio di un’epoca nuova.