CRISTOCENTRISMO NELLA VITA BENEDETTINA

“NULLA ANTEPONGANO A CRISTO”

 

Mentre la vita consacrata, soprattutto attiva, sente il bisogno di un recupero di spiritualità, la Regola di san Benedetto può offrire importanti punti di riferimento, poiché va all’essenza stessa delle sue radici evangeliche. È da queste infatti che bisogna ripartire, se si vuole ritrovare vitalità e slancio.

 

La Regola di san Benedetto è sempre stata fin dall’inizio e lungo i secoli una inestimabile fonte di ispirazione e di spiritualità non solo per i monaci, ma anche per ogni cristiano e soprattutto per chiunque si è posto alla sequela di Cristo. I valori portanti di questa Regola sono i cardini su cui poggia l’intera vita consacrata, compresa quella attiva. Tali valori sono: la ricerca incessante di Dio, la centralità di Cristo a cui nulla deve essere preferito, la preghiera liturgica, in particolare l’Opus Dei, ossia l’Ufficio Divino, destinata a reggere l’intero edificio spirituale, la lectio divina,

per ascoltare Dio che parla e per parlare a Dio, il silenzio e la solitudine, la pratica dell’umiltà, l’imitazione di Cristo obbediente, la presenza costante di Dio e l’unione con lui…

In un momento, come il nostro, in cui la vita consacrata, soprattutto attiva, forse presa dalle troppe cosa da fare, sente il bisogno, se vuole rigenerarsi, di un forte recupero di spiritualità, è forse opportuno tornare a dissetarci a questa sorgente che è la Regola di san Benedetto per un recupero di valori che un certo andazzo, e forse l’adeguamento a una società secolarizzata e segnata dall’individualismo e dall’attivismo, ci hanno fatto un po’ dimenticare, o mettere in secondo piano.

Durante l’ultimo capitolo generale che i domenicani hanno tenuto la scorsa estate (17 luglio all’8 agosto) a Bogotà (Colombia), il maestro generale, fr. Carlos Alfonso Azpiroz, nella sua relazione sulla situazione dell’Ordine poneva ai capitolari il seguente interrogativo: “Velocità imprenditoriale o ritmo contemplativo?”. Oggi, ha sottolineato, “viviamo in un mondo che sembra muoversi a grande velocità, privilegia il ritmo imprenditoriale e l’efficacia”, per cui “è importante tornare sul valore della contemplazione nella vita dell’Ordine”.

Questo recupero della contemplazione è essenziale qualunque sia la missione che si è chiamati a compiere nella Chiesa. Il commento alla Regola di san Benedetto, che qui proponiamo, ci offre delle linee sicure con cui confrontarsi, per fare della contemplazione una dimensione cardine di ogni forma di vita consacrata. La seguente riflessione è dell’abate dom Roberto Lopes OSB, del monastero di San Benedetto di Rio de Janeiro ed è stata pubblicata sulla rivista brasiliana di spiritualità Grande Sinal (luglio-agosto 2007). Si tratta di un commento molto preciso e pieno di ispirazione.

 

Il monachesimo benedettino, gettando profonde radici nel vangelo di Gesù, mira a esprimere questo vangelo in tutta la sua integrità. La santità religiosa del monaco benedettino è la pienezza della sua adozione divina in Gesù, la consegna assoluta di sé stessi, di tutto il proprio essere, per amore, alla chiamata della volontà dell’alto. Tutto ciò che Dio gli impone ed esige, tutto ciò che Cristo consiglia ha come unico obiettivo che egli sia un degno figlio di Dio e fratello di Gesù.

La perfezione, di conseguenza, può essere riassunta in questa intima disposizione del monaco che si sforza di piacere al Padre celeste vivendo in conformità con la grazia dell’adozione soprannaturale.

Pertanto, è necessario rimanere in Cristo, anzitutto mediante la fede, poiché attraverso di essa Cristo abita nei nostri cuori, e in secondo luogo mediante l’amore, consegnandosi interamente al servizio di Cristo e all’osservanza dei suoi precetti: “Chi mi ama osserva i miei comandamenti” (Gv 14,21).

Il monaco benedettino si spoglia, si distacca da tutto, allontana tutti gli ostacoli che possono ritardare il cammino verso Dio. In lui è più ardente la fede, più grande e generoso l’amore. In questo stato felice l’anima può unirsi più pienamente a Dio, al punto da non essere più lei che vive, ma Cristo che vive in lei.

Così ha vissuto san Benedetto e così ha insegnato: a trovare Dio per mezzo dell’unione con Gesù. «Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno, in modo che tu possa tornare attraverso la solerzia dell’obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato per l’ignavia della disobbedienza. Io mi rivolgo personalmente a te, chiunque tu sia, che, avendo deciso di rinunciare alla volontà propria, impugni le fortissime e valorose armi dell’obbedienza per militare sotto il vero re, Cristo Signore».

Per san Benedetto questa non è una semplice formula: questa idea impregna tutta la Regola (RB) e le conferisce un carattere eminentemente cristiano. Con queste parole che aprono la Regola, san Benedetto mostra che la sua intenzione è di assumere Cristo come esempio e sorgente della perfezione monastica. La sua Regola è cristocentrica. Per questo egli dice di non anteporre nulla all’amore di Cristo. Queste parole sono l’eco delle parole del Padre celeste nel mostrarci il proprio Figlio: “Ascoltatelo”. E san Benedetto insegna ancora: «Seguite Cristo in tutte le cose; non preferite niente a lui; non attaccatevi se non a lui, alla sua dottrina, ai suoi esempi, appoggiandovi unicamente ai suoi meriti; in lui incontrerete Dio; poiché Cristo è l’alfa e l’omega di tutta la perfezione».

 

GESÙ

IDEALE DEL MONACO

 

Tutta la regola è pervasa dal Verbo di Dio. San Benedetto fa di Cristo la pietra angolare dei suoi insegnamenti in modo particolare nel cap 4 in cui presenta gli strumenti delle buone opere: 74 precetti che vanno dai comandamenti dell’Antica Alleanza ai consigli evangelici della perfezione cristiana.

Nel capitolo che serve da epilogo e conclusione al codice monastico, san Benedetto torna ad affermare che in Gesù Cristo troveremo la via della salvezza eterna, che solo con la sua grazia il monaco potrà osservare la Regola tracciata e giungere così alla meta da lui proposta già nella prima pagina: cercare Dio.

Perciò, in tutta la sua vita, qualunque sia lo stato della sua anima, il monaco mai deve distogliere il suo sguardo da Gesù. San Benedetto descrive costantemente il divino modello: in ogni momento rinnegare se stesso per seguire Cristo; nelle tentazioni, infrangere immediatamente davanti a Cristo i cattivi pensieri che sorgono nel cuore; nelle sofferenze partecipare con pazienza alle sofferenze di Cristo.

 

Nel pensiero di san Benedetto Cristo deve essere tutto per il monaco. Richiede che il monaco, in ogni cosa, ricorra a Cristo, pensi a lui e in lui si appoggi. Vuole che il monaco veda Cristo in tutte le cose, nell’abate, nei fratelli, nei malati, negli ospiti, nei pellegrini, nei poveri. Perché tanta insistenza? La ragione è che san Benedetto vuole fare del monaco, mediante l’amore che ha verso Gesù Cristo, un perfetto figlio del Padre celeste. È stato l’amore a Cristo a condurre il postulante al monastero; è l’amore di Cristo lo tiene in esso e lo trasforma a immagine del suo fratello più anziano.

Per questa ragione san Benedetto dice a un eremita che si era legato nella sua grotta con catene di ferro: «Se sei servo di Dio, non legarti a una catena di ferro, ma alla catena di Cristo». In altre parole, sia l’amore a tenerti unito a Cristo.

Questa dottrina fa parte della tradizione benedettina: sia l’amore di Cristo a unirti a lui. Ed è essa a spiegare le esperienze dei mistici benedettini come, per esempio, le aspirazioni di sant’Anselmo verso il Verbo incarnato, le ineffabili intimità di santa Geltrude e santa Matilde con il divin Salvatore e le effusioni ardenti del ven. Luís Blósio verso l’umanità di Gesù. Queste grandi anime così pure, così elevate in santità avevano fatto la completa esperienza di questa norma di vita proposta da san Benedetto di cui essi erano fedeli discepoli. Mettere l’amore e la persona di Cristo al di sopra di tutte le cose.

Questo modo, così caratteristico di san Benedetto, di riferire tutto a Cristo, è estremamente fecondo per l’anima. Rende la vita forte, attraente poiché la concentra nell’unità. Niente di meglio per avvincere lo spirito o più facilmente chiedere al cuore gli sforzi necessari per aver davanti allo sguardo la persona adorabile di Cristo Gesù. Per il monaco, la sua presenza deve essere continua e sensibile.

 

IMITANDO

CRISTO OBBEDIENTE

 

Cristo nello spirito, Cristo nel cuore, Cristo nelle mani, pensiero costante rivolto a Cristo, amore perpetuo di Cristo, imitazione consapevole e costante di Cristo: qui sta ciò che assicura l’unione dell’anima a Dio e fa del suo servizio un’opera di amore. Ed ecco perché, fra tutti i mezzi proposti da san Benedetto ai suoi discepoli per alimentare la fiamma della vera spiritualità, quello in cui insiste e con maggior chiarezza è lo sguardo intimo dell’anima al divin Maestro e l’imitazione dei suoi esempi.

Come scrive il santo abate di Liessies, Luís Blósio, «Niente di più vantaggioso che imitare Cristo, ora la sua incomprensibile divinità, ora la sua nobile umanità, innalzarsi alla prima attraverso la seconda, per poi ritornare a quest’ultima.

In questo modo l’asceta è come un albero “piantato lungo corsi d’acqua”, meravigliosamente bagnato dal torrente della grazia celestiale; e in questo modo più felice “entrerà e uscirà”, e nell’umanità e divinità del Signore “troverà i prati più deliziosi”. In questo modo raggiungerà lo scopo di tutti gli esercizi interiori, che consiste nell’unirsi con l’amore solo a Dio mediante la rinuncia universale, al centro intimo e indescrivibile dell’anima interamente liberata, perdersi totalmente nell’ammirabile umanità di Cristo e diventare simile a lui».

 Cercare Dio seguendo le orme di Cristo: ecco in breve la sublime vocazione che san Benedetto propone ai suoi monaci. Per lui, Cristo è il Pantocrator, il Signore onnipotente. Cristo è il Signore da servire, il Re sotto il quale militare.

Il vero monaco realizza la sua “sequela di Cristo” nell’obbedienza; un’obbedienza attenta, piena di entusiasmo, giovane e gioviale, nella lealtà e fedeltà alla parola data. “Una obbedienza senza indugio (...) è peculiare a coloro che ritengono che non ci sia niente di più caro di Cristo, a causa del santo servizio che hanno professato (...) non sanno che cosa vuol dire indugiare nell’esecuzione di qualche cosa appena è stata ordinata dal superiore, come fosse ordinata da Dio”.

San Benedetto insiste molto sull’idea che l’obbedienza è la forma più perfetta dell’imitazione di Cristo. Lo ripete nel secondo e terzo grado di umiltà: «Il secondo grado dell’umiltà consiste nel fatto che il fratello, non amando la propria volontà, non dilettandosi nell’accontentare i propri desideri, ma imita nelle azioni quella parola del Signore: “ Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di Colui che mi ha inviato”. Il terzo grado sta nel sottomettersi, per amore del Signore, con piena obbedienza al superiore, imitando il Signore, di cui l’Apostolo ha detto: Si è fatto obbediente fino alla morte».

 

NEL MONASTERO L’ABATE

TIENE LE VECI DI CRISTO

 

All’interno di questa obbedienza, un altro punto fondamentale che appare nella dottrina cristocentrica di san Benedetto è la figura dell’abate. La parola “abate” deriva dall’aramaico “abba” usata da Gesù per parlare al Padre suo. Così come gli apostoli si riunivano attorno a Gesù, e, in seguito, la comunità cristiana attorno al vescovo, allo stesso modo i monaci si riuniscono attorno all’abate.

Il vescovo è il successore degli Apostoli, il suo ruolo è di “rappresentare Cristo” nella comunità cristiana. Attribuendo questo ruolo all’abate, san Benedetto lascia intendere che il monastero è una specie di chiesa in cui l’insegnamento di un successore degli Apostoli continua a generare una comunità fraterna, come nei primi giorni dopo la Pentecoste. In questo modo, si può affermare che la comunità benedettina si rifà alle fonti del cristianesimo, al tronco della Chiesa, vale a dire, agli Apostoli e alle prime comunità cristiane, in cui il fervore dello Spirito di Dio era più intenso che in qualsiasi altra epoca.

L’abate, come un’autentica icona di Cristo, riveste il ruolo di signore, pastore, maestro, padre e medico dei fratelli della comunità monastica. Egli è il rappresentante di Cristo nel monastero, il padre spirituale a cui Gesù affida il suo “gregge”; non è un superiore qualsiasi, ma la stessa immagine sacramentale del Salvatore.

 

I SACRAMENTI

DELLA PRESENZA DI DIO

 

Credere nella presenza di Dio, fondamento della vita spirituale

La vita monastica ha degli elementi che la identificano: l’abito, la clausura, l’Ufficio divino e la vita comunitaria. Quanto alla clausura, oltre all’abito monastico, essa definisce lo stato della vita monastica.

È la clausura che mantiene il monaco separato dalla vita secolare, custodendolo nel silenzio adatto perché la sua anima si mantenga libera da ogni dissipazione. Il monaco è colui che vive solo. Ma per quale ragione? Vivere solo non vuol dire isolarsi. Rimanendo il monaco nel vuoto, lontano dalle distrazioni terrene gli è consentito di aprire il suo cuore e il suo intelletto al mondo soprannaturale, che sebbene invisibile, realmente lo avvolge.

“Mentre, man mano che si avanza nella vita monastica e nella fede, si corre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall’indicibile sovranità dell’amore” (RB Prologo). In questo avanzare, san Benedetto afferma che è imperativo affrettarsi, è necessario affrettarsi nella vera ricerca di Dio e andare al suo incontro. Ma dove possiamo trovarlo?

Per la spiritualità benedettina la percezione della presenza di Dio è un atto di fede che costituisce né più né meno il fondamento della vita spirituale. “Sappiamo per fede che Dio è presente dappertutto e che “gli occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi” (RB 19,1).

La consapevolezza che tutte le nostre azioni si compino alla presenza di Dio ci induce a sforzarci affinché tutte le nostre azioni siano rivolte ad essa, così come ogni nostra energia. Credere nella presenza di Dio vuol dire credere fermamente che i suoi occhi sono posati sulla nostra anima e scrutano il nostro cuore. San Benedetto è appassionato della dilatazione del cuore.

Dio non è un’astrazione ai margini della vita umana e il monaco deve esercitarsi nel ricordare questa verità di enormi conseguenze affinché il senso della presenza di Dio diventi abituale, familiare e intimo.

Dio è il vero Signore del monastero e tutto ciò che si trova in esso è suo. “Tratti gli oggetti e i beni del monastero con la riverenza dovuta ai vasi sacri dell’altare» (RB 31,10). San Benedetto attribuisce a questa sacralità un significato particolare. Per lui gli oggetti del monastero non sono solo consacrati a Dio e impiegati per il suo servizio, ma sono anche al servizio dell’Opus Dei (Liturgia delle Ore) in modo immediato come lo sono in modo immediato gli oggetti consacrati dell’altare. È insito in essi un carattere penumatico-liturgico, poiché tutti i beni del monastero servono all’altare. Di qui si capisce il buon zelo presente nel pensiero di san Benedetto (RB 72). Per lui, il buon zelo appartiene solo a chi ha un cuore dilatato, ossia, un cuore aperto a Dio.

La discretio prepara il monaco ad ascoltare

La perseveranza nel monastero implica una conversione ed essa può avvenire solo quando il monaco diventa una cosa sola con Dio. L’opera è di Dio ma il lavoro è del monaco. La presenza di Dio avviene solo quando il monaco entra in equilibrio con se stesso, con il prossimo e con Dio stesso. Questo equilibrio è la discretio.

San Benedetto va più lontano. Nel monastero, Dio, Cristo si rende in qualche modo visibile al monaco attraverso diversi sacramenti. I monaci vedranno Cristo, per esempio, nella figura dell’abate: «L’abate poi sia chiamato “signore” e “abate”, non perché si sia arrogato da sé un tale titolo, ma in onore e per amore di Cristo del quale sappiamo per fede che egli fa le veci» (RB 63,13).

 

Il termine signore esprime rispetto, riflette la divinità di Cristo trasfigurato in cielo e l’abate indica l’amore a Cristo, manifestando l’amore del Salvatore per mezzo dello Spirito Santo. La ragione di ciò non è altro che la Sacra Scrittura sulla cui base san Benedetto vuole diffondere, sia tra i fratelli del suo monastero sia tra quelli che vengono a lui, il clima fraterno e nobile, familiare e benefico che deve emanare da una comunità al servizio del supremo Re e Signore.

 

Questa mistica in cui san Benedetto inserisce il suo discepolo è veramente soprannaturale. Tuttavia, partendo sempre dalla discretio, non c’è bisogno di giochi di prestigio ascetici per avvicinarsi al Signore. La vita spirituale proposta da san Benedetto è semplice. L’unica cosa da fare è di evitare la distrazione e che l’attenzione del cuore non si allontani da Dio.

«Rimanendo sempre nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione» (RB 7,10). Al discepolo di san Benedetto si richiede sempre un atteggiamento di ascolto: «Ascolta, figlio, i precetti del maestro» (RB Prologo), ma questo ascolto non è solo attenzione esteriore, indica un atteggiamento caratteristico di chi ha un’apertura di cuore, indica un atteggiamento che riguarda il proprio futuro una volta che Dio stando presente rivolge un invito in cerca della santità dell’uomo.

Leggere Dio per ascoltarlo

La struttura del monastero pensata da san Benedetto è senza dubbio un luogo propizio per il monaco per stare con Dio. Tanto favorevole è l’ambiente che lo stare solo si sviluppa e produce frutto in maniera spontanea e naturale. L’uomo vale ciò che cerca, vale in relazione con ciò che cerca. Pertanto cercare Dio per il monaco equivale a tenersi unito a lui mediante la fede come suo oggetto di amore.

Questo spirito di abbandono che pone come fine della vita del monaco l’incessante ricerca di Dio, lo porta necessariamente ad avere con lui un continuo dialogo. San Gerolamo dice a Eustochia: “Se preghi, parli col tuo Sposo. Se leggi, egli parla a te”.

San Benedetto non evita questo insegnamento. Quando si prega, si dialoga con Dio e, quando si legge la Sacra Scrittura, è Dio che si rivolge in maniera particolare a ciascuna anima. «Alziamoci, dunque, una buona volta, dietro l’incitamento della Scrittura che esclama: È ora di scuotersi dal sonno!» (Prologo).

In effetti, sia nell’Ufficio Divino sia nelle letture del refettorio o in qualsiasi altra situazione, la lettura della Sacra Scrittura o di qualche Padre della Chiesa penetra poco alla volta nel cuore del monaco.

Questa ricerca e questo incontro con Dio avvengono nel dialogo. Pertanto san Benedetto considera importante non solo la lettura comunitaria, ma anche quella personale della Sacra Scrittura, ossia la lectio divina. Questa “ lettura divina” non è evidentemente una semplice lettura della Sacra Scrittura, in cui percorrendo superficialmente le sue pagine il monaco le legge per curiosità o a semplice scopo di studio; lectio divina vuol dire leggere, ascoltare, ritenere, approfondire e soprattutto vivere la parola di Dio con tenuta nella Scrittura, immergendosi in essa con fede e amore.

Essa costituisce per il monaco un ascoltare e un assaporare la Sacra Scrittura come stando seduti, come Maria, ai piedi di Gesù per non perdere neanche una sola parola uscita dalle sue labbra. Il monaco legge Dio semplicemente per stare con lui, per ascoltare la sua voce, ossia, la lectio divina è un incontro personale con Dio, è un’esperienza di Dio, poiché in essa avviene una comunione di vita, una partecipazione, una comunione.

Secondo san Gregorio Magno, la preghiera dei Salmi, uno dei modi per praticare la lectio divina, è un luogo di incontro intimo tra noi che andiamo verso Dio, e Dio che viene verso di noi. Infatti, dove si rivolgono le parole di Dio se non al cuore dell’uomo? Non è forse la Sacra Scrittura una lettera di Dio onnipotente alla sua creatura? Bisogna in primo luogo pregare, afferma san Basilio, perché solo lo Spirito Santo ci permette di riscoprire il significato delle parole della Scrittura.

In verità, quando la lectio divina si pratica come insegna la Tradizione, ossia, quando la lectio divina è veramente lectio divina e non semplice lettura spirituale, né è dominata da preoccupazioni intellettuali o utilitaristiche.

Quando la lectio divina è attenzione a Dio e contatto personale e intimo con la sua Parola, la preghiera scaturisce spontanea e in maniera irresistibile, diventando un dialogo di amore, da cuore a cuore, nella più totale intimità personale. Certamente, tutte queste azioni richieste per la lectio costituiscono la vera posizione del discepolo, nel senso che corrispondono alla posizione di colui che è capace di ascoltare i disegni di Dio.

Pregare Dio per parlargli

Alla voce di Dio che parla nella lectio divina il monaco risponde con la preghiera. La preghiera sia essa pubblica, liturgica, comunitaria, privata, raccolta o silenziosa, queste forme sono tutte importanti per san Benedetto. Il monaco benedettino deve essere conscio che Dio è presente dappertutto e che in ogni momento può parlargli. «partecipiamo alla salmodia in modo tale che l’intima disposizione dell’animo si armonizzi con la nostra voce» (RB 19,7). Questa è la meta finale del monaco benedettino, l’unione con Dio che renderà grazie in questo contatto con il Verbo Divino, specialmente quando si cantano i salmi o gli innumerevoli testi della Scrittura che integrano la Liturgia delle Ore.

Il quotidiano del monaco deve essere un eterno pregare senza mai cessare, con la coscienza che Dio, una volta presente, desidera stabilire un dialogo di amore. La preghiera indubbiamente deve essere pura, ma san Benedetto non vuole solo una purezza, ma anche una donazione, una sottomissione piena, volontaria a Dio di chi si riconosce peccatore e bisognoso delle sue grazie.

Secondo la tradizione monastica, questo dialogare con Dio nella preghiera non deve essere lungo o elaborato, ma breve e intenso, semplice e umile, con compunzione e lacrime, in modo che, perseverando in essa, si ottenga l’ineffabile tranquillità dell’anima.

Per san Giovanni Cassiano, questa tranquillità o leggerezza dell’anima è paragonata alla piuma nel senso che si innalzerà alle altezze celesti o si attaccherà alle cose terrene, nel caso che segua la sua purezza naturale o i suoi viziosi desideri cattivi. Se quando prega, nessuna esitazione si intromette, nessuna mancanza di fiducia ritiene la sua supplica, ma al contrario sente che essa ottiene quello che ha chiesto, il monaco non ha alcun dubbio che le sue preghiere saliranno fino a Dio.

Questa fiducia che Lui lo ascolta, con la piena e indubitabile fiducia di essere ascoltato si ha quando la preghiera non ha in vista i propri interessi o aiuti temporali, ma al contrario, è in conformità con la volontà di Dio. La preghiera incessante si ha quando la volontà del monaco concorda con la volontà divina ed è in essa che si contempla la presenza di Dio.

Nostro Signore non ha bisogno che il monaco si apparti o sia in solitudine per giungere a lui. Tuttavia, egli è salito sul monte per pregare da solo. Solo di mente e di cuore. Il monaco in ogni momento cerca di giungere al ricordo costante di Dio pregando frequentemente, anche se in maniera breve.

Così, immune non solo da ogni tentazione ma anche purificato dal contagio di qualsiasi vizio, possa giungere alla contemplazione delle realtà invisibili e celesti e a quell’ineffabile ardore della preghiera che è di pochi esperimentati.

Indubbiamente, non è la sapienza del mondo né alcun vano desiderio di conoscenza che lo conduce all’incontro con Dio: Ciò che lo conduce è la povertà di spirito e l’esperienza attiva nella semplicità di cuore.

“Pregate incessantemente” (1Ts 517) poiché la preghiera frequente porta al Signore, facendo sì che l’orante conosca la Verità, crocifigga la carne con le sue passioni e desideri e illumini il suo cuore mediante la luce di Cristo, unendosi a lui nella Salvezza.

La perfezione della preghiera non dipende da noi (Rm 8,26), anche se la frequenza è stata lasciata in mano nostra come mezzo per attingere la purezza della preghiera. La purezza della preghiera è la madre di ogni bene spirituale. La pratica della preghiera porta alla pratica di tutte le virtù.

È l’amore di Dio che conduce il monaco al monastero ed è la virtù della carità che porta a umiliarsi, a obbedire, a irrobustirsi per mezzo delle austerità dell’ascesi monastica. È il desiderio di trovare, dialogare e di possedere Dio che dà al monaco la convinzione che questa è la sua strada.

Questo impulso a donare tutto il suo essere a Dio diventerà tanto più irresistibile quanto più libero sarà il monaco da ogni attaccamento ai beni creati. Avere la consapevolezza della presenza di Dio in tutti i momenti della sua vita, costituisce la gioia più pura del monaco separato dal mondo e la ricompensa anticipata di tutta la sua vita.

 

PRENDERE PARTE

ALLA PASSIONE DI CRISTO

 

La via dell’umiltà

San Benedetto fonda la vita spirituale dei suoi figli sull’umiltà. Egli stesso, innalzato vicino a Dio, sa che solo l’umiltà attira la grazia e che senza di essa non possiamo nulla. Tutta l’ascesi di san Benedetto culmina quando l’anima raggiunge l’umiltà, vivendola nell’obbedienza: sarà questo per lui il segreto di un’unione intima con Dio nella preghiera.

San Benedetto dedica un capitolo intero della sua Regola a questa virtù, dandole un’idea molto sicura e nello stesso tempo ampia. Non considerandola come una virtù a parte, ma mettendola in rapporto con quella della speranza.

È una virtù che implica un atteggiamento integrale dell’anima di fronte a Dio, atteggiamento questo che sta al centro dei diversi sentimenti che devono animarci come creature e figli adottivi, atteggiamento che deve condizionare l’intera nostra esistenza e fondare tutta la nostra vita spirituale.

San Benedetto inizia il capitolo sull’umiltà facendo riferimento alla parole di Cristo al termine della parabola del fariseo e del pubblicano: “Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14,11; 18,14; Mt 23,13).

Il sentimento vivo della signoria divina sulla vita umana fa sì che l’uomo si umili e si sottometta, allo stesso tempo che si eleva e si fissa in Dio. Lo stesso movimento di umiltà abbassa l’uomo obbediente, ingrandendolo ed esaltandolo in Dio.

A ogni grado di ascesa verso Dio, di crescita soprannaturale corrisponde un grado di apertura di se stessi a Dio. Ma come si apre l’anima a Dio? Distruggendo sempre più l’orgoglio; radicandosi sempre più nell’umiltà.

Riprendendo l’espressiva immagine del salmista, san Benedetto paragona il superbo rifiutato da Dio al bambino separato dalla madre prematuramente e, una volta lontano dalla fonte della vita, esso è condannato a morire. Il più grande pericolo dell’anima è di separarsi da Dio, fonte unica di ogni grazia.

Pertanto, continua san Benedetto, «se vogliamo raggiungere la vetta più eccelsa dell’umiltà e arrivare rapidamente a quella glorificazione celeste, a cui si ascende attraverso l’umiliazione della vita presente, bisogna che con il nostro esercizio ascetico innalziamo la scala che apparve in sogno a Giacobbe e lungo la quale questi vide scendere e salire gli angeli» (RB 7,5-6).

San Benedetto paragona i due lati della scala al corpo e all’anima, poiché il corpo deve essere partecipe della virtù interiore e la grazia dispone tra questi due i diversi gradi che dobbiamo salire. «Il dodicesimo grado, infine, è quello del monaco, la cui umiltà non è puramente interiore, ma traspare di fronte a chiunque lo osservi da tutto il suo atteggiamento esteriore, in quanto durante l’Ufficio divino, in coro, nel monastero, nell’orto, per via, nei campi, dovunque, sia che sieda, cammini o stia in piedi, tiene costantemente il capo chino e gli occhi bassi (RB 7,62-63).

Farsi obbedienti come Cristo

L’espressione pratica dell’umiltà nel monaco è l’obbedienza. «Il segno più evidente dell’umiltà è la prontezza nell’obbedienza» (RB 5,1). In effetti quando l’anima è piena di riverenza verso Dio, si sottomette a lui e ai suoi rappresentanti per compiere sempre la volontà divina.

“L’obbedienza ha una balia che incessantemente la nutre e questa è l’umiltà vera” (D. Lottia, L’âme du Culte, la vertu de religion, p. 44). Una persona sarà obbediente solo nella misura in cui sarà umile; e non sarà mai umile se non sarà obbediente.

L’obbedienza ha come compagna inseparabile l’umiltà, procede dall’umiltà. Senza la sua nutrice, che è l’umiltà, l’obbedienza muore di fame. Questa non potrà mai vivere in un’anima in cui non esiste la buona virtù dell’umiltà.

C’è un’idea di obbedienza che nessun monaco può accettare. È quella che fa del superiore una specie di sapiente, di esperto, che facciamo voto di consultare. Se si vuole che l’obbedienza diventi canale di grazia divina deve essere rivestita di tre qualità, da cui derivano tutte le altre. Una obbedienza soprannaturale, fiduciosa, derivante dall’amore.

Pregare per conoscere il cuore di Dio

È salutare per san Benedetto far capire che prima di qualsiasi lavoro e più ancora, prima di tutto, dobbiamo metterci davanti a Dio in preghiera per chiedergli insistentemente la benedizione affinché ogni cosa raggiunga il suo fine che è la gloria di Dio.

Nel Prologo della Regola, subito dopo aver descritto la finalità della vita monastica (cercare Dio) e la strada per trovarlo (Cristo) ci invita a pregare per chiedere la grazia poiché, senza di essa, non possiamo fare nulla (cf. Fil 2,13).

Si osserva che i monaci nell’antichità giungevano rapidamente a un alto grado di consistenza interiore, grazie alla compunzione del cuore. Questa è il mezzo più sicuro per rendere la vita spirituale più ferma e stabile.

È inoltre essenziale per san Benedetto che l’anima penetri nel cuore di Dio pregando con una vita fatta di compunzione del cuore. Tuttavia egli afferma che questo è un dono gratuito di Dio.

La preghiera costituisce, inoltre, per san Benedetto uno dei pilastri di sostegno della vita monastica, poiché senza di essa non sarebbe possibile vivere veramente come monaci. Perciò possiamo dire che nella vita del monaco la preghiera deve tenere un posto di somma importanza (RB 4,56).

La preghiera monastica dev’essere un atto di adorazione, in un colloquio con Dio, come di un figlio con il Padre, per esprimergli il proprio amore e la propria gratitudine, caratterizzato da una pietà elevata e da profonda riverenza, cercando di conoscere la sua volontà e di ottenere le sue grazie e gli aiuti necessari per compiere con perfezione questa sua volontà.

 

ABITARE

CON SE STESSI

 

Una delle grandi virtù del monaco che cerca la santità e cerca di stare sempre unito a Dio è il silenzio, che costituisce anche una mortificazione interiore e aiuta a reprimere i vizi dello spirito, come l’amor proprio, che è la tendenza a dire di non essere capaci di commettere alcun male; la nostra stessa volontà che ci induce alla disobbedienza, frutto anch’essa dell’orgoglio; della vanità, della frivolezza, della curiosità dispersiva che ci fa stare sempre fuori di noi stessi.

Il monaco che custodisce il silenzio è capace, sotto lo sguardo di Dio, di “abitare con se stesso”, di irradiare la pace. frutto del perfetto equilibrio dell’anima. Si può dire pertanto che la vita comunitaria nei monasteri ha in se stessa un carattere penitenziale, il silenzio è per il monaco un buon esercizio di mortificazione per la sua santificazione, poiché, avendo una Regola comune come espressione della volontà divina, ha la premura di non parlare e di custodire il silenzio.

Infine, la vita monastica è stata organizzata in modo tale e singolare da san Bendetto da facilitare in tutto la vita di chi cerca Dio prendendo le distanze dal mondo, nella solitudine, umile obbedienza vissuta nella preghiera personale e liturgica, nella lectio divina e nel tanto sospirato silenzio.

 

Dom Roberto Lopes OSB,

abate del monastero di San Benedetto

di Rio de Janeiro