ATEISMO DI RITORNO (2)
ETICA E SPIRITUALITÀ SENZA DIO?
L’affievolimento del
senso etico è chiaramente leggibile nelle cronache dei nostri giorni. Una
dimostrazione chiara della difficoltà di creare una morale senza Dio e della
impossibilità di dar vita alla stessa senza l’uomo. La nota frase di
Dostoevskij va allora aggiornata: «Se non esiste Dio e non esiste l’uomo, tutto
è permesso». I mass media di oggi sono i migliori testimoni di questa verità.
Un problema che viene da lontano. A esso faceva riferimento uno dei più lucidi e onesti interlocutori del credente contemporaneo: Albert Camus, il pensatore il cui sofferto e drammatico pensiero si staglia di gran lunga sulla mediocrità degli autori che stiamo ricordando. La sua lettura non stanca e mette in movimento le capacità intellettive del lettore, specialmente se credente, costretto a ripensare, approfondire, meditare con estrema serietà le sue convinzioni e le sue certezze. L’umanesimo non ha probabilmente trovato un autore che l’abbia meglio interpretato nel nostro tempo. Un fratello, un compagno di viaggio, anche se da lui ci divide la questione fondamentale della vita, cioè il problema della fede, sempre affannosamente ricercata e mai pienamente raggiunta. In particolare il romanzo La peste rimane una delle opere più suggestive della letteratura contemporanea. È la narrazione del problema di Dio, visto dall’angolo di visuale del dolore innocente che, alla fine delle grandi ideologie, rimane oggi il motivo primario della negazione di Dio. In una delle pagine più dense del romanzo-trattato si legge la famosa frase che continua ancora a tormentare la mente di tutti i ricercatori onesti e sinceri: “Se si può essere un santo senza Dio, è il solo problema concreto che io oggi conosca».
Una frase che ha certamente un risvolto squisitamente teologico, che chiama in causa il problema della grazia, ma che si può anche considerare nel suo aspetto più razionale e filosofico. Esattamente come afferma Lecaldano, che crede di dire una grande novità affermando che è possibile un’etica senza Dio. (Per la verità, egli afferma che «non solo non è vero che senza Dio non può darsi l’etica, ma anzi è solo mettendo da parte Dio che si può veramente avere una vita morale»). Lasciando da parte la seconda affermazione e limitandoci solo alla prima, c’è semplicemente da ricordare che il credente non trova eccessive difficoltà ad ammettere questa possibilità. A una condizione però: che si riconosca la dignità, la consistenza, la natura ragionevole dell’uomo, dalla Bibbia definito l’immagine di Dio e per questo dall’antica Scolastica considerato la norma prossima dell’agire morale.
Scrive a questo proposito uno dei migliori interpreti dell’attuale pensiero filosofico di ispirazione cristiana: «Non contestiamo affatto la possibilità di costruire una morale che, appoggiandosi direttamente sulle esigenze della ragione e della dignità umana, formuli delle norme che si impongono validamente alla coscienza come obbligatorie nel senso propriamente morale della parola. Non solamente noi non lo contestiamo, ma l’affermiamo risolutamente… Così, non mancano autori cattolici, scolastici o meno, che ritengono l’ordine morale sufficientemente spiegato dalla conformità dell’agire umano con la ragione, la natura razionale, la dignità personale, ecc., senza che sia necessario, per assicurarne la consistenza, di riferirlo all’Assoluto sussistente» (J. De Finance). In un pubblico dibattito feci noti questi pensieri al prof. Lecaldano, sottolineando però la necessità di una sana concezione dell’uomo, in particolare come detentore della legge naturale, conseguenza immediata della sua natura razionale. La possibilità di una spiritualità senza Dio è ancora più semplice a risolversi se per spiritualità si intende una vita interiore che si nutre di pensieri validi e di valori autentici.
L’affermazione dell’uomo con tutte le sue caratteristiche fondamentali è però necessaria. Ed è esattamente ciò che manca agli autori contemporanei, figli di un’epoca in cui l’uomo ha perduto i suoi connotati e sembra sparito dal nostro orizzonte culturale. La morte dell’uomo come conseguenza della morte di Dio? Più di un autore l’ha potuto affermare.
È proprio di queste ultime ore l’uscita di un rimarchevole testo di U. Galimberti intitolato L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani (Feltrinelli, 2007), che si colloca sullo sfondo di quanto stiamo dicendo. Secondo le note parole di M. Heidegger, il nichilismo già da tempo e in modo invisibile si aggira per la casa, ha pervaso la nostra cultura, mietendo naturalmente vittime soprattutto nel mondo giovanile, il più esposto e il più sensibile alle ricorrenti mode del pensiero. Nichilismo dei valori, dei fini, delle mete, dei perché delle cose e soprattutto della vita. La nostra è la società dei come e non più dei perché. «Che cosa significa nichilismo?», si domanda F. Nietzsche. E risponde: «Che i valori supremi perdono ogni valore». Nel nostro orizzonte desertificato, «ogni fine ha la consistenza di un ingannevole miraggio, mancano la direzione, il senso, lo scopo». È arrivato il tempo predetto da Nietzsche: «Alla fine l’uomo osa una critica dei valori in generale; ne riconosce l’origine, conosce abbastanza per non credere più in nessun valore; ecco il pathos, il nuovo brivido. Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli». Siamo anzi in anticipo sulla tabella di marcia.
L’avvento massiccio della tecnica ha fatto il resto. Galimberti appartiene al numero di coloro che sanno misurare a pieno le conseguenze di quanto è avvenuto, soprattutto nell’occidente, negli ultimi due secoli. In precedenza aveva scritto: «L’età della tecnica ha abolito questo scenario umanistico, e le domande di senso che sorgono rimangono inevase, non perché la tecnica non sia abbastanza perfezionata, ma perché non rientra nel suo programma trovar risposte a simili domande. La tecnica infatti non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona». Non le si può chiedere altro. Benedetto XVI ha parlato in questo senso di “atrofia spirituale”, di “vuoto del cuore”. Anche la ragione strumentale, la razionalità della tecnica ha contribuito all’attuale implosione di senso. A queste condizioni dove è finito l’uomo? Torna di moda l’antica ricerca di Diogene.
Del resto, la crisi della morale, l’affievolimento del senso etico sono chiaramente leggibili nelle cronache dei nostri giorni. Una dimostrazione chiara della difficoltà di creare una morale senza Dio e della impossibilità di dar vita alla stessa senza l’uomo. La nota frase di Dostoevskij va allora aggiornata: «Se non esiste Dio e non esiste l’uomo, tutto è permesso». I mass media di oggi sono i migliori testimoni di questa verità. Forse i nostri atei e i nostri laicisti, prima di parlare con tanta sicurezza, dovrebbero aprire meglio gli occhi.
UN’APOLOGETICA
PER IL NOSTRO TEMPO
Gli schemi dell’apologetica antica, basata soprattutto sui miracoli, è da tempo in discussione, perché non sembra capace di convincere nessuno. Le difficoltà di riconoscere l’esistenza dei miracoli aumentano di giorno in giorno. Questa constatazione aveva portato il filosofo cattolico Maurice Blondel a ricercare altre impostazioni che fossero più adatte alla sensibilità dell’uomo contemporaneo. Nacque così il cosiddetto “metodo dell’immanenza”, che incontrò non poche difficoltà al tempo della condanna del modernismo. (Si ricorderà che la famosa enciclica Pascendi di Pio X fu pubblicata nel mese di settembre del 1907, quindi esattamente cento anni fa).
Metodo dell’immanenza perché, anziché rifarsi a fatti esterni, si preferiva chiamare in causa le aspirazioni interne, i desideri dell’animo, le “ragioni del cuore”, in generale i problemi dell’uomo. Un appello all’uomo in quanto tale, da sempre alla ricerca di una felicità e di una perennità che gli sono negate nel breve periodo dell’esistenza terrena. Tutti i grandi ricercatori di Dio sono passati attraverso queste strade. Ricordiamo fra tutti sant’Agostino e la sua conosciutissima frase collocata all’inizio delle sue Confessioni: «Tu ci hai fatto, Signore, per te ed è inquieto il nostro cuore fino a che in te non riposa». Solo Dio, che l’ha creato, può riempire il vuoto dell’animo umano con la sua potenza e la sua grazia. Il cuore dell’uomo è una tacita e implorante invocazione dell’Assoluto, di qualcuno cioè che possa dare una risposta alle domande che urgono nel profondo del suo essere. Pascal aveva affermato che «l’uomo supera infinitamente se stesso».
Se vogliamo, possiamo ancora ricordare la sofferta vicenda di A. Camus, che ha ricercato spasmodicamente per tutta la vita una soluzione al problema della felicità. Il mito di Sisifo, che perennemente cerca e non trova, è diventato il suo paradigma di vita. È magra consolazione quanto egli afferma al termine del suo libro dedicato a questo preciso argomento: «Bisogna immaginare Sisifo felice». Una grama felicità quella di colui che si consola perché è capace di sfidare un destino assurdo con la sua rivendicata dignità e la sua indomita forza di volontà. La cima del monte non sarà mai raggiunta.
Parlando un giorno in un convento di domenicani, Camus volle paragonarsi a sant’Agostino, uno che, a differenza di lui, ha “cercato e trovato”. Al termine della sua opera teatrale Caligola lo scrittore francese sembra aver riassunto l’intera sua inutile ricerca con la frase scultorea: «Bisognerebbe che l’impossibile fosse». L’uomo non può salvare se stesso, la salvezza è al di là dei limiti delle sue capacità. La confessione del fallimento dell’umanesimo ateo, di cui Camus rappresenta probabilmente il migliore interprete e il più sincero rappresentante, non poteva essere più chiara.
LA VIA
DEL CRISTIANESIMO
Ecco, il cristianesimo può essere presentato all’uomo di sempre e in particolare di oggi come la risposta a questa disperata invocazione. L’impossibile è. Perché ciò che era impossibile per le sole forze umane è diventato possibile per l’onnipotenza misericordiosa di Dio. La migliore rappresentazione della paternità divina, la migliore traduzione dell’umanissimo messaggio trasmesso all’uomo dallo stesso Figlio di Dio.
Una via che ha organizzato e illustrato nelle sue opere il più grande teologo dei nostri tempi, K. Rahner. Uditore della Parola, sugli spalti del mondo, l’uomo ha udito la voce dall’alto ed è tornato a sperare. La vita ha un senso, l’esistenza non tende al nulla, la fine è anche il fine dell’intera vicenda umana e cosmica. È la traduzione attuale del messaggio di salvezza che balenò per la prima volta al pagano quando il cristianesimo apparve sulla scena della storia. L’impossibilità dell’uomo è riscattata dalla potenza di Dio.
Intorno a questa vicenda si è dipanata l’intera storia dell’occidente. Dal paganesimo al cristianesimo, alle ideologie che ne ricopiano, terrenizzandolo, lo schema, al neo-paganesimo prepotentemente ritornato fra noi dopo la morte delle ideologie. S. Natoli, il teorico di questo ritorno all’indietro, può dire che l’uomo di oggi non sente nemmeno il bisogno della salvezza. La mano di Dio è tesa inutilmente all’uomo rinunciatario della trascendenza. Così la speranza tramonta dal nostro orizzonte. Ma l’assenza di speranza è sinonimo di disperazione e di morte.
È questa la ragione fondamentale per cui il cristiano avverte come prima necessità la predicazione e la testimonianza della speranza. Forse più che della fede, il nostro è il tempo della speranza. In un’epoca abbastanza simile alla nostra, l’apostolo Pietro chiedeva alla comunità cristiana di essere sempre pronta a rendere ragione della propria speranza a chiunque glielo chieda. E non importa che la domanda sia esplicita, può bastare anche l’implorazione silenziosa, che certamente giace nel profondo di ogni animo, perché senza speranza non si può vivere. L’animal rationale (così affermava la classica definizione dell’essere umano), appunto perché razionale, non può che essere anche un animal sperans.
Il richiamo della nostra Conferenza episcopale viene a proposito: «A tutti vogliamo recare una parola di speranza. Non è cosa facile oggi la speranza. Non ci aiuta il suo progressivo ridimensionamento: è offuscato se non addirittura scomparso nella nostra cultura l’orizzonte escatologico, l’idea che la storia abbia una direzione, che sia incamminata verso una pienezza che va al di là di essa. Tale eclissi si manifesta a volte negli stessi ambienti ecclesiali, se è vero che a fatica si trovano le parole per parlare delle realtà ultime e della vita eterna» (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia n. 2). È stato notato giustamente che nessuno scritto ispirato parla della fede nello stesso modo con cui Pietro parla della speranza.
Il rimprovero finale dei vescovi meriterebbe un commento prolungato. Quanto essi dicono sul silenzio dei predicatori e dei catechisti è purtroppo vero. C’è questo silenzio imbarazzato sulle realtà ultime (che non sono soltanto i cosiddetti novissimi, ma che comprendono soprattutto e anzitutto il cammino dell’umanità e del cosmo intero verso il porto finale della Gerusalemme celeste, come giustamente afferma il testo prima citato). C’è da credere che questo silenzio sia dovuto anche alla mancanza di aggiornamento, che penalizza tutta la teologia e in particolare l’escatologia. Molta strada è stata fatta in questo senso dalla riflessione teologica ed ecclesiale in questi ultimi decenni. Il tempo in cui si chiedeva di porre un cartello al di fuori dell’officina escatologica con su scritto: “Chiuso in attesa di restauro” è ormai passato. C’è da collocare la difficile trattazione degli ultimi fini dell’uomo e del mondo intero dentro la nuova concezione di Dio, come ci è stata rivelato da Gesù. Un Dio buono e misericordioso che ci attende impaziente sulle soglie della casa. Tutto va rivisto in questa luce, come, del resto, già indicava il Rinnovamento della catechesi. L’annuncio dei novissimi va fatto nel segno della consolazione e della speranza. La pastorale della paura va decisamente superata dalla pastorale dell’amore e della misericordia. La lezione di Teresa di Lisieux non deve passare invano.
Giordano Frosini