ANTONIO ROSMINI PROCLAMATO BEATO

LONTANO PRECURSORE DEL VATICANO II

 

La prossima beatificazione di Antonio Rosmini segna un punto fermo nel sofferto rapporto tra Chiesa e mondo moderno ed è un giusto riconoscimento alla sua figura. La sua massima è “condurre gli uomini alla religione per mezzo della ragione”. Fondò anche due istituti religiosi.

 

Antonio Rosmini Serbati, nato a Rovereto il 24 marzo 1797, morto a Stresa il 1 luglio 1855, sarà proclamato beato nella diocesi di Novara, dove è morto, il prossimo 18 novembre, a distanza di 157 anni dalla sua scomparsa. È il giusto riconoscimento da parte della Chiesa, che tanto l’aveva fatto soffrire, a una figura che può essere considerata oggi, come scrive Umberto Muratore, direttore del Centro Internazionale di studi rosminiani, tra le più vive e stimolanti nel panorama della cultura occidentale italiana ed europea, religiosa e laica. Sacerdote, religioso, fondatore di due ordini religiosi (Istituto o Società della Carità e Suore della Provvidenza), pensatore enciclopedico con più di cento opere che costituiscono una specie di summa totius christianitatis filosofica e teologica (il paragone è di Michele Federico Sciacca), visse stimolando attorno a sé la promozione della Carità (che per lui equivaleva a Dio-Amore) in tutte le sue direzioni: temporale (sostegno ai poveri di ogni genere), intellettuale (servizio all’intelligenza degli uomini), spirituale (aiuto al bisogno di santità).

Lo spirito con cui si mosse gli fu suggerito dallo stesso papa Pio VIII: condurre gli uomini alla religione per mezzo della ragione.

Egli avvertì in modo acuto soprattutto il bisogno per la cultura occidentale di tenere unite e in amicizia ragione e fede, Vangelo e progresso, mondo naturale e soprannaturale, scienza e fede. Capì che la storia moderna correva il rischio di chiudere l’uomo in se stesso, in nome della ragione; cioè di staccarlo dal trascendente, di ripiegarlo sulle sue proprie forze, di convincerlo a foggiarsi la vita senza avere bisogno di Dio. Un cammino di morte, che avrebbe portato allo smarrimento dell’intelligenza e alla perdita dei valori etici e spirituali.

Per compiere la sua missione evangelizzatrice di carità intellettuale, Rosmini scelse un linguaggio e un metodo più consoni ai tempi, ma rimase saldamente ancorato ai valori puri, alle perle autentiche della tradizione cristiana: egli promosse gli stessi contenuti di fede di Agostino e di Tommaso, attinse arricchendolo allo stesso deposito, ma inaugurò un metodo, che semplificava in questa espressione: «mentre le scuole precedenti partivano da Dio per giungere all’uomo, io sono partito dall’uomo per giungere a Dio».

 

IL CAMMINO VERSO

LA BEATIFICAZIONE

 

La causa di beatificazione è partita molto da lontano. Già Giovanni XXIII confessava di voler provvedere ad essa non appena ultimato il concilio, ma solo nel 1974 la Congregazione per la dottrina della fede inizierà ad approfondire la questione rosminiana. La documentazione relativa, elaborata sulla base di nuove ricerche, fu inviata nel 1990 a Giovanni Paolo II, permettendo così la costituzione nel 1997 del tribunale diocesano per il processo informativo sulla fama di santità. Nel 146° anniversario della morte (1/07/01), l’Osservatore Romano pubblicò una Nota della Congregazione per la dottrina della fede, a firma del card. Ratzinger, in cui si dichiara: «Si possono attualmente considerare ormai superati i motivi di preoccupazione e di difficoltà dottrinali e prudenziali, che hanno determinato la promulgazione del decreto Post obitum di condanna delle quaranta Proposizioni tratte dalle opere di Rosmini. E ciò a motivo del fatto che il senso delle proposizioni, così inteso e condannato dal medesimo decreto, non appartiene in realtà all’autentica posizione di Rosmini, ma a possibili conclusioni della lettura delle sue opere». Finalmente Benedetto XVI dispone la sua beatificazione il 18 novembre 2007.

 

LA QUESTIONE

ROSMINIANA

 

Parlando del Rosmini è inevitabile dover parlare della cosiddetta «questione rosminiana» che ha segnato la vita ecclesiastica italiana per quasi tutto l’ottocento. Gli storici distinguono tre momenti: il primo si concluse nel 1849, sotto Pio IX, con la messa all’Indice di due sue opere, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa e La Costituzione civile secondo la giustizia sociale. Principali protagonisti della disputa furono i cattolici liberali schierati con le posizioni del Rosmini e gli intransigentisti capeggiati da alcuni gesuiti romani. La seconda fase (1850-54) si concluse con il decreto della Congregazione dell’Indice che stabiliva «si dovessero dimettere (dimittenda esse) tutte le opere di Antonio Rosmini Serbati… e nulla affatto… dovesse essere detratto al nome dell’autore». L’ultima fase (1873-87) si concluse, sotto Leone XIII, con il decreto Post obitum del Sant’Uffizio che condannava 40 proposizioni estratte dalle opere edite e inedite del sacerdote. C’è infine la Nota del 2001 che rimuove le censure al filosofo-teologo roveretano.

Le polemiche tra Rosmini e alcuni gesuiti esprimevano due modi di valutare il ruolo della Chiesa nella società moderna. I gesuiti vedevano nelle libertà moderne “nate dalle rivoluzioni e propagate da filosofi senza Dio” una minaccia per la società civile e per la Chiesa. Il loro modello di società politica era quello dell’ancien régime, fondato sull’alleanza fra trono e altare, mentre in campo religioso la loro ecclesiologia escludeva ogni intervento dei laici nella vita interna della Chiesa. Rosmini era invece il rappresentante più autorevole in Italia di un cattolicesimo liberale che credeva nelle libertà moderne, ritenendole compatibili con i princìpi insegnati nel Vangelo. Si adoperava per riconciliare la Chiesa con il mondo moderno, la scienza con la fede, la natura con il soprannaturale.

Circa la soluzione del problema dello stato unitario, Rosmini proponeva la soluzione federale (neoguelfa), per assicurare all’Italia “l’unità più stretta possibile” nella sua naturale varietà. Tale posizione moderata riesce a guadagnarsi le simpatie di Pio IX fino ai fatti del 1848 (esilio del papa a Gaeta, Repubblica romana), che finiscono per far prevalere il partito intransigentista del cardinale Antonelli. È in questo clima culturale che Rosmini pubblica l’opera più celebre: Delle cinque piaghe della Santa Chiesa. Uno scritto (col titolo ripreso da un intervento di Innocenzo IV al concilio di Lione del 1245) col quale si denunciavano in modo puntuale “i mali attuali della Santa Chiesa” e che provocò la reazione spesso scomposta di un gruppo di gesuiti romani neotomisti.

Nel clima creatosi dopo il Sillabo (1867), in risposta agli attacchi del pensiero moderno contro fede e morale cristiana, e dopo il concilio Vaticano I (1869-70), che ridefinisce i contorni dell’ortodossia anche in campo filosofico, bastò un articolo di p. Liberatore sulla Civiltà Cattolica del 1875 ad accendere la miccia. In esso la dottrina rosminiana veniva definita antitetica a quella neotomista e con conclusioni che «se non sono propriamente panteismo, lo rasentano assai da vicino». Nel frattempo proprio l’enciclica di Leone XIII Aeterni Patris, scritta per rimediare alla debolezza della formazione filosofico–teologica del clero, indicava nella filosofia di san Tommaso lo strumento più adatto a pensare razionalmente la fede rivelata e a difenderla dagli attacchi delle filosofie moderne. In questo nuovo clima un sistema filosofico come quello rosminiano appariva “diverso” per linguaggio e per apparato concettuale. Per placare gli animi esacerbati dalla controversia si arrivò al Sant’Uffizio, che nel 1887 con il decreto Post obitum (trentadue anni dopo la morte del roveretano) sancì la condanna di 40 proposizioni estrapolate da opere postume del Rosmini.1

 

ANTICIPÒ

IL VATICANO II

 

L’opera di Rosmini acquista un valore profetico alla luce del Vaticano II. Lo scrive espressamente, segno del cambiamento avvenuto, proprio il direttore di Civiltà cattolica p. Tucci a don Clemente Riva: «È con vivo piacere che La Civiltà cattolica vede la ristampa delle Cinque piaghe della santa Chiesa: un’opera che mostra in Rosmini un vivo amore per la Chiesa e una fede salda nella sua divina costituzione; ma che mostra anche una profondità di visione e un’antiveggenza che solo a distanza di un secolo, dopo la celebrazione del concilio Vaticano II, noi possiamo pienamente apprezzare». Perciò Giovanni Paolo II, ricevendo il generale dei rosminiani, il 26/9/1998 dichiara: «Antonio Rosmini visse in un’epoca di agitazione non solo politica, ma anche intellettuale e religiosa, un’epoca nella quale risuonava il grido di liberazione e nella quale la questione della libertà prevaleva su tutte le altre. Spesso ciò veniva interpretato come un rifiuto della Chiesa e come un abbandono della fede cristiana, implicando una liberazione da Gesù Cristo stesso. In mezzo a quel caos, Antonio Rosmini comprese che non avrebbe potuto esserci alcuna liberazione da Cristo, ma soltanto una liberazione attraverso Cristo e per Cristo… In tale contesto, l’Istituto della Carità (da lui fondato, NdR.) ha la missione specifica di indicare il cammino della libertà, della saggezza e della verità che è sempre quello della carità e della croce. Questa è la vostra vocazione religiosa e culturale, così come lo è stata del vostro lungimirante fondatore».

Questa rivalutazione significa il superamento del paradigma dell’antimodernità, grazie a un pensiero teologico-spirituale fondato sulla Bibbia e sui Padri (con attenzione soprattutto ad Agostino), teso a valorizzare il rapporto tra cristianesimo, ebraismo e anche altre religioni, con al centro una pedagogia del cuore che possiamo far risalire alla “rivelazione” di Rosmini annotata nel 1813, a sedici anni: «Quest’anno fu per me anno di grazia, Iddio mi aperse gli occhi su molte cose e conobbi che non vi era altra sapienza che in Dio».

Rosmini è il pensatore che cerca di rifondare la filosofia con un sistema capace di attraversare tutti i campi dello scibile umano, è anche l’asceta dedito alla costante purificazione di sé e proteso al bene dei fratelli. Tende all’unità del pensare e del vivere. La sua teologia sostiene che la fede è «un giudizio pratico, non un puro giudizio speculativo: è un giudizio con cui non solo affermiamo Dio e le cose divine, ma con cui gli diamo la nostra stima, è un atto di giustizia verso Dio da noi conosciuto e sperimentato» (Antropologia soprannaturale).

Significativa la catena d’oro con la quale ritiene di doversi legare per sempre, indicandola ai suoi seguaci. I suoi anelli sono: «La giustizia, che n’è il primo, ci conduce a trovare Iddio, e a eleggere la sua provvidenza e bontà a guida dei nostri passi, che n’è il secondo: Iddio dirige i passi nostri alla carità del prossimo, che è il terzo anello: la carità poi ci mena al sacrificio, che è il quarto: il sacrificio alla gloria immarcescibile, che è il quinto ed ultimo» (Scritti ascetici).

La miserevole condizione dello studio della teologia ai suoi tempi lo rimanda ai primi secoli del cristianesimo, quando scienza e santità nascevano l’una dall’altra. Perciò svolge la propria riflessione nella consapevolezza di aver ricevuto da Dio un mandato speciale, confermato dagli incoraggiamenti di diversi pontefici. Questa coscienza chiarisce la “rischiosa arditezza” di alcune sue formulazioni allo scopo di aprire un varco intelligente al Vangelo nell’epoca moderna. Dopo il crollo delle grandi sintesi medievali, cerca di elaborare un sistema filosofico ricavato dal dogma cristiano. Perciò l’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II l’annovera «tra i pensatori più recenti nei quali si realizza un fecondo incontro tra sapere filosofico e parola di Dio» (n. 8). «Proprio per questo Rosmini è semplice nella sua complessità; egli è così vero! Sfugge perciò a chi lo consideri parzialmente» (Clemente Rebora).

«Io, conclude Umberto Muratore nel sito internet segnalato, vedo la beatificazione di Rosmini in piccola parte, se si vuole, come un riconoscimento della sua grandezza umana e spirituale che spazza le nubi del passato accumulate su di lui, il sigillo dovuto ai meriti da lui accumulati nel servire la Chiesa e il prossimo. Ma soprattutto vedo la beatificazione come un ponte gettato sul futuro, come una promessa da usare e valorizzare. Come se la Chiesa ponesse sul candelabro una lucerna rimasta a lungo sotto il tavolo, esortandoci in questi tempi di buio della verità e della carità (nichilismo e relativismo) a servirci della luce di verità e del fuoco di carità che da essa emanano».

 

M. C.

 

1 Cf. sito internet www.beatificazionerosmini.it

2 Alcuni concetti possono indurre a pensare che egli concordasse con posizioni quali l’idealismo (sistema che esclude che esistano cose fuori del pensiero), con l’ontologismo (ove la conoscenza di Dio per intuizione a priori è condizione di possibilità di ogni altra conoscenza) e col soggettivismo (ogni giudizio di realtà e di valore dipende dal soggetto).