138 GUIDE MUSULMANE AI LEADER CRISTIANI

UNA PAROLA COMUNE TRA NOI E VOI

 

Come non leggere il rivelarsi di un “segno dei tempi” nella lettera aperta e nell’appello di 138 guide religiose musulmane a Benedetto XVI e agli altri leader cristiani del mondo? Non potrebbe essere questo l’inizio della fine della cosiddetta cultura del sospetto? Si attendono ora gli sviluppi di questa iniziativa.

 

Con quale ottica bisogna guardare il rapporto fra cristiani e musulmani, questo evidente caso serio che s’impone all’opinione pubblica non meno che alle teologie, nel quadro di un mondo globalizzato dall’economia neoliberista e dalle istanze di guerra? La risposta a questa domanda appare, ogni giorno di più, problematica e accidentata.

La lente dell’intransigenza, indossata da un gran numero di opinion leader nostrani, fa percepire come acquisito il bislacco paradigma dello scontro di civiltà, a partire dal quale è sin troppo agevole soffiare ulteriormente sul fuoco. La memoria del concilio, che invita i cattolici a guardare con stima i musulmani, «a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione» (Nostra Aetate 3), risulta sempre più sfuocata e impercettibile. I dubbi sull’opzione del dialogo, diffusi anche nelle chiese locali, tendono ad aumentare, e càpita di regola, viaggiando per le comunità, di sentirsi riproporre una serie di luoghi comuni sull’islam mischiati a un senso di timore per i cambiamenti in atto che, peraltro, non sarebbe giusto né conveniente lasciar perdere con una scrollata di spalle. Anche se, come ammoniva tempo fa il cardinal Carlo Maria Martini, «il pluralismo religioso è oggi una sfida per tutte le grandi religioni, soprattutto per quelle che si definiscono come vie universali e definitive di salvezza: se non si vuole giungere a nuovi scontri, occorrerà promuovere con forza un serio e corretto dialogo interreligioso».

Il fatto è che tra cristianesimo e islam, questi due storici nemici intimi (M.Rodinson), il confronto è senza dubbio complesso, carico del deposito a zigzag di quattordici secoli di rapporti e intrecci, in cui si sono rincorsi momenti di violenza e di guerra ma anche fasi di convivenza pacifica, di tolleranza e di feconde contaminazioni delle rispettive conoscenze culturali. Senza trascurare il fatto, nuovo nella storia, che oggi un musulmano su tre vive in paesi a maggioranza non islamica: quale contributo specifico potranno offrire alle questioni succitate, ci si può domandare, i componenti di tale diaspora? Certo, dopo la tragica svolta dell’11 settembre, l’occidente ha registrato l’emergere di un’islamofobia prima solo latente, mentre l’avvio di una guerra infinita imboccata come reazione dagli Stati Uniti e dai loro alleati ha suscitato in larghe fasce della Umma un antiamericanismo viscerale che a volte sfocia in inimicizia nei confronti dell’intero mondo occidentale. Paradossalmente, perché non mancano anche fenomeni di fascinazione reciproca, ed esperienze di dialoghi aperti e sinceri. Quei dialoghi che oggi, purtroppo, rimangono sottotraccia nei media, sembrano così ardui da esercitare e comunque venati da una perenne cultura del sospetto.

 

PER UNA SOLIDA

COLLABORAZIONE

 

In tale panorama, lo scorso 13 ottobre – data della fine del mese sacro di Ramadan 1428 – è affiorato un segno di speranza su cui vale la pena di soffermarsi. In quella data, infatti, ben 138 tra i principali intellettuali e muftì musulmani di tutto il mondo hanno indirizzato una lettera aperta a Benedetto XVI e alle altre guide delle Chiese cristiane per proporre loro una solida cooperazione tra cristiani e musulmani nella promozione della pace sulla terra. La missiva si presenta lunga e articolata, con molte note a spiegare il senso delle citazioni riportate, e cade, non casualmente, nel primo anniversario di un’analoga lettera con la quale 38 intellettuali musulmani, membri della Royal Academy, con sede in Giordania, inviarono al pontefice tedesco in riferimento al controverso discorso da lui pronunciato, il 12 settembre 2006, all’Università di Ratisbona (nel frattempo, non va dimenticato, c’è stato il viaggio papale in Turchia, in cui sono emerse significative convergenze). Stavolta, però, si registra un vistoso allargamento non solo dei sottoscrittori ma anche dei destinatari: fra cui compaiono, fra gli altri, leader ortodossi (dal patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Alessio II, al patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I), l’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, i vertici delle federazioni mondiali delle Chiese luterane, riformate, metodiste e battiste, fino al segretario generale del Consiglio mondiale delle Chiese, Samuel Kobia.

In questa lettera, per quanto riguarda il comparto islamico, era la prima volta che personalità diverse e autorevoli si esprimevano a una sola voce, esponendo al capo della Chiesa cattolica i principi dell’islam, con l’intento dichiarato di giungere a una “mutua comprensione”. A tal fine, vi si sostenevano posizioni nette a favore della libertà di professare la fede “senza costrizioni”, rivendicando sia la razionalità dell’islam sia l’assoluta trascendenza di Dio, caposaldo del credo musulmano. Non mancava un riferimento ai limiti posti dalla dottrina islamica al ricorso alla guerra e all’uso della violenza, e una condanna aperta dei “sogni utopistici nei quali il fine giustifica i mezzi”; fino all’auspicio di un rapporto finalmente nuovo tra islam e cristianesimo, fondato sull’amore di Dio e del prossimo, i “due grandi comandamenti” richiamati da Gesù nel vangelo di Marco (12, 29-31).

La lettera prende le mosse dalla conclusione della prima, e la sviluppa in varie direzioni. Sostenendo, nel complesso, che i comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo – presenti tanto nel Corano quanto nella Bibbia – sono la “parola comune” che offre all’incontro tra islam e cristianesimo «la più solida base teologica possibile». Ed è rilevante che il documento si concluda con il celebre passo coranico secondo cui la divisione tra cristiani, ebrei e musulmani è attribuita allo stesso disegno di Dio, che «se avesse voluto avrebbe fatto di voi una sola comunità», mentre è solo nel futuro che Lui stesso «vi informerà a proposito delle cose sulle quali ora siete discordi» (Corano, sura 5,48).

Il testo è stato discusso e messo a punto nel settembre scorso in un incontro tenuto in Giordania presso il Reale Istituto al-Bayt per il Pensiero Islamico, patrocinato da re Abdullah II. A detta dei promotori dell’iniziativa, prima di oggi, «mai dei musulmani hanno offerto alla cristianità una proposta di consenso così forte» (una volta di più, occorre rammentare che non si dà un’unica autorità suprema nell’islam). Aref Ali Nayed, teologo libico che ha cofirmato entrambi i testi, ha evidenziato l’adesione di musulmani di ogni tendenza teologica e giuridica, sunniti, sciiti, ismailiti, jaafariti, ribaditi, e di 43 nazioni: «Invece che entrare in polemica, i firmatari hanno adottato, seguendo la migliore tradizione dell’islam, una posizione di rispetto delle Scritture cristiane. E hanno fatto appello ai cristiani perché siano non meno ma più fedeli ad esse». Alcuni di essi risiedono in Europa e negli Stati Uniti, ma la maggioranza vive in paesi musulmani: dalla Giordania all’Arabia Saudita, dall’Egitto al Marocco, dagli Emirati Arabi Uniti allo Yemen, ma anche in Iran, in Iraq, in Turchia, in Pakistan e in Palestina. L’unico italiano è Yahya Sergio Yahe Pallavicini, vicepresidente della CO.RE.IS, Comunità religiosa islamica, che ne ha curato anche la traduzione italiana ufficiale.

 

NON MANCANO

RISVOLTI ECUMENICI

 

Fra le varie sottolineature possibili riguardo all’operazione, ci sono in primo luogo il suo movente e il suo obiettivo. Vi si parla apertamente di mettere il mondo al sicuro evitando un conflitto tra cristiani e musulmani, «che insieme formano il 55 per cento della popolazione mondiale»: del resto, «con il terribile armamento del mondo moderno e con musulmani e cristiani interconnessi ovunque, mai come ora nessuna parte può vincere unilateralmente un conflitto che coinvolga più della metà degli abitanti del mondo». In un simile scenario, sostengono i firmatari, «il nostro comune futuro è in pericolo. È forse in gioco la stessa sopravvivenza del mondo». D’altra parte, essi aggiungono, «l’islam non è contro i cristiani, a meno che loro non intraprendano la guerra contro i musulmani a causa della loro religione, li opprimano e li privino delle loro case».

In seconda battuta, come hanno notato acutamente alcuni commentatori, benché lo scopo del documento sia, come abbiamo visto, sostanzialmente politico, il discorso viene condotto tutto in chiave teologica. Esso è teso, infatti, a dimostrare che “la cosa migliore che tutti i profeti hanno detto”, vale a dire il cuore della fede islamica, che “non c’è dio se non Iddio, l’Unico, senza associati, suo è il Regno, sua è la lode ed egli è potente su tutte le cose”, è comune a cristiani e musulmani. Se entrambi i libri sacri delle due religioni puntano al rispetto dell’uomo su base divina, il rapporto tra i loro credenti non andrà ricercato soltanto nei diritti umani, in argomenti di ragione o nella natura stessa dell’uomo, ma anche direttamente nella professione di fede nell’unico Dio e nell’unica via dell’amore. Certo, non si parla del terrorismo internazionale condotto in nome dell’islam, ma prima di bollare il tutto con l’accusa di facile irenismo, sarà opportuno andare a scoprire le carte in tavola…

In terzo luogo, ma non da sottovalutare, andrà evidenziato anche l’aspetto squisitamente ecumenico della cosa. Nel rivolgersi ai vertici di tutte le Chiese cristiane, elencati con puntigliosa precisione, la missiva dei 138 presuppone in qualche modo un appello al rilancio di un ecumenismo forte tra loro, sul piano teologico; quell’ecumenismo uscito un po’ con le ossa rotte sia da Sibiu (terza assemblea ecumenica europea) sia da Ravenna (dialogo bilaterale fra cattolici e ortodossi). La risposta alla mano tesa dell’islam, in effetti, non potrà che essere comune, anche se per rispondere a un’unica voce i leader cristiani dovranno incontrarsi ed elaborare una posizione comune sugli stessi temi teologici loro proposti dai musulmani: una prospettiva che, al momento, non può che apparire di lunga durata…

 

REAZIONI

ALL’INIZIATIVA

 

Per ora, diverse sono state le reazioni registrate all’iniziativa. Quella più ufficiale, e anche la più autorevole, di parte cattolica, è dello stesso cardinal Jean-Louis Tauran, neopresidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, che ha definito la lettera «un segnale molto incoraggiante, poiché dimostra che la buona volontà e il dialogo sono capaci di vincere i pregiudizi», aggiungendo: «È un approccio spirituale al dialogo interreligioso, che chiamerei il dialogo delle spiritualità. I musulmani e i cristiani devono rispondere a una sola domanda: per te Dio nella tua vita è veramente l’unico?».

Maggior cautela, invece, è stata richiesta, fra gli altri, dall’esperto gesuita padre Samir Khalil Samir. Mentre il giornale britannico Daily Telegraph, che in genere non fa sconti all’islam radicale che ha insanguinato le strade londinesi, ha accolto con favore il tentativo, fino a commentare: «Nell’era in cui l’estremismo islamico, con la sua chiamata alla rivoluzione letale, sembra dettare le regole, è incoraggiante sentire di un grande gruppo di leader musulmani che sostengono la pacifica coesistenza con i cristiani». E se, per tornare in Italia, il quotidiano Il Foglio ha apertamente scritto, in un corsivo non firmato, che «né irenica né isterica, la lettera dei 138 è il gesto tanto atteso dopo Ratisbona», intitolandolo suggestivamente La fatwa della riconciliazione (16/10/2007), dal Corriere della Sera ha risposto Magdi Allam con un duro commento dal titolo “La doppiezza e il terrore” (19/10/2007). A suo parere, nella posizione aperturista, «l’errore di fondo è di immaginare che si possa condividere la fede in uno stesso Dio a prescindere dalla condivisione della sacralità della vita».

Altre opinioni stanno comparendo, su riviste, quotidiani e anche on line, e forse il primo risultato positivo prodotto dal testo musulmano è proprio l’avvio di un dibattito al riguardo. Ce n’è, indubbiamente, un grande bisogno! Mi sembra dunque un risvolto importante, senza farsi eccessive illusioni (il cammino del dialogo, ripetiamolo, è lungo e irto di ostacoli) ma anche da non sottovalutare in alcun modo. Perché, come recitava il titolo di un bel volume uscito qualche tempo fa dedicato appunto all’incontro possibile fra cristiani e musulmani, in ogni caso abbiamo tante cose da dirci.

 

Brunetto Salvarani