NUOVE FRONTIERE DELLA MISSIONE DELLA CHIESA

ATEISMO DI RITORNO

 

Se vogliamo, come è nostro dovere, dialogare col nostro tempo, è necessario riflettere seriamente, confrontarsi senza complessi, con i fenomeni che lo caratterizzano, prendere le giuste misure, rivedere, se necessario, i nostri orientamenti pastorali, in particolare i nostri tentativi di apologetica.

 

Una delle grandi sfide che la Chiesa si trova oggi ad affrontare è senza dubbio il ritorno dell’ateismo. Si tratta di un fenomeno che non ha niente di originale, che ripete, a volte pedissequamente, frusti schemi di un passato ormai lontano che si credeva definitivamente superato, ma che ha dalla sua parte una pronunciata arroganza e un’aggressività che manifesta però tutta la sua debolezza.

Mentre l’episcopato italiano sta portando avanti il “Progetto culturale”, ci sembra importante prendere coscienza di questo cosiddetto ateismo di ritorno, sia per farcene una conoscenza, sia anche per sapere come farvi fronte, senza alcuna paura, ma anche senza cadere nella vecchia apologetica che sarebbe del tutto controproducente.

Per aiutare i nostri lettori a farsi un’idea di questo fenomeno abbiamo chiesto a Giordano Frosini di presentarcelo. Data la lunghezza, divideremo il suo intervento in tre parti che pubblicheremo in successione, dedicando questa prima alla presentazione dei principali autori e delle opere uscite in questi ultimi tempi, così da avere una panoramica iniziale del fenomeno e delle tesi in esso sostenute.

 

Dall’indifferenza all’ateismo? È la domanda da porsi mentre ai nostri giorni si stanno moltiplicando le pubblicazioni che negano esplicitamente e chiassosamente l’esistenza di Dio. Opera di filosofi, si dirà, o comunque di uomini di cultura. Sì, ma si sa molto bene che le teorie non rimangono a lungo relegate nei libri più o meno specialistici e che, dopo un periodo di gestazione più o meno lungo, scendono normalmente alla base, riuscendo senza eccessive difficoltà a modificare e sconvolgere anche le convinzioni più radicate della gente comune. Intanto certi titoli raggiungono tirature che i libri religiosi nemmeno si sognano. Ancora un episodio dell’eterna lotta fra Davide e Golia, il giovane che si presenta semplicemente armato di una fionda e di pochi sassi di torrente e il gigante burbero e altezzoso che avanza imperterrito, racchiuso e quasi sommerso nella sua potentissima armatura.

L’indifferenza è stata per lungo tempo l’atteggiamento fondamentale dei decenni passati e non soltanto in campo religioso. Una forma di ateismo anch’esso, ma sul piano pratico, senza la volontà esplicita di arrivare alla negazione teorica dell’esistenza di un Dio personale. Una forma, se vogliamo, più difficile a trattarsi dell’ateismo vero e proprio, perché più sfuggente e volutamente non teorizzata. Una forma, fra l’altro, che nelle sue necessarie gradazioni e distinzioni, ha letteralmente invaso cultura e mentalità del nostro tempo. Nell’indifferenza la comunità cristiana da tempo ravvisava il nemico da combattere, la difficilissima sfida pastorale emergente alla fine del secondo e all’inizio del terzo millennio. Un passaggio, quello all’atteggiamento dall’ateismo post-bellico all’indifferenza, che si è soliti collocare alla metà degli anni ’80 del secolo scorso, in concomitanza dell’avvento del pensiero debole e delle prime negazioni del futuro.

Ma il passaggio opposto, quello dall’indifferenza all’ateismo, era più o meno nell’aria, nascosto e cullato nelle stesse premesse del fenomeno precedente. Perché è perfino evidente che l’atteggiamento dell’indifferenza non ha consistenza autonoma e che, con l’andare del tempo, è normale che sfoci in una negazione vera e propria. Nell’indifferenza non si rimane: l’uscita è dietro l’angolo e quasi necessitata da una seria riflessione. La sospensione, qualsiasi sospensione, ha sempre le caratteristiche della provvisorietà.

 

RITORNO DELL’ATEISMO

E ATEISMO DI RITORNO

 

Per questo il ritorno dell’ateismo è una novità piuttosto relativa. Il che non significa che l’episodio possa essere trascurato o disatteso. Se vogliamo, come è nostro dovere, dialogare col nostro tempo, è necessario ora acuire l’attenzione, riflettere seriamente, confrontarsi senza complessi, prendere le giuste misure, rivedere, se necessario, i nostri orientamenti pastorali, in particolare i nostri tentativi di apologetica. Come è stato più volte notato (si pensi all’opera monumentale di Z. Baumann), gli orientamenti culturali della società liquida, cambiano vorticosamente e noi, se non vogliamo cadere nell’anacronismo, dobbiamo collocare le nostre riflessioni sullo sfondo dell’ultima attualità, calibrarle sulle nuove esigenze. Un’opera che ricomincia sempre da capo.

Ritorno dell’ateismo ma anche ateismo di ritorno, dal momento che non si colgono impostazioni nuove, argomenti o dimostrazioni che sfuggano alla ripetitività. Affermazioni, queste, che forse non piaceranno ai nuovi atei, ma è difficile poterle contestare. Normalmente infatti ci si contenta di ripresentare quanto è stato elaborato nei secoli passati, a malapena con un semplice aggiornamento di linguaggio, ma praticamente senza novità, almeno di rilievo. Anche il confronto con la posizione antitetica, quella di coloro che ammettono l’esistenza di Dio, o è tralasciato del tutto o è condotto con scarsa attenzione a quanto di nuovo e di attuale è stato prodotto in questi ultimi anni. Uno degli autori più affermati ai nostri giorni, di cui parleremo più avanti, Eugenio Lecaldano, dedica metà del suo libro Un’etica senza Dio (Laterza, 2006), l’intera seconda parte, a un’antologia di testi in cui figurano D. Hume, B. Spinoza, D. d’Holbach, J. Stuart Mill, L. Feuerbach, solo con qualche puntatina su autori più recenti, tutti, comunque, di sicura professione atea. L’opera di Kant, in questo come pressappoco in tutti gli altri autori, merita una menzione particolare, perché in genere si ricorda la parte che fa comodo, dimenticando quello che invece contrasta con le proprie affermazioni. Un vecchio vizio. Non, dunque, un nuovo ateismo, ma un semplice revival di quanto era stato sostanzialmente detto nel passato.

 

LA SERIE SI ALLUNGA

QUASI OGNI GIORNO

 

Se facciamo riferimento al mio articolo pubblicato su Settimana del 7 ottobre 2007, troviamo altri titoli come Lo spirito dell’ateismo. Introduzione a una spiritualità senza Dio di A. Comte-Sponville (Ponte alle Grazie, Milano, 2007) e L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere (Mondadori, 2007). Un libro, questo, più voluminoso del primo, ma forse anche meno consistente, presentato dall’ormai famoso Piergiorgio Odifreddi, autore di Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), come “il grande manifesto laico di una delle più acute menti scientifiche”. Torneremo più tardi sul primo. Intanto ricordiamo brevemente i testi passati in rassegna nell’articolo precedentemente citato: Creazione senza Dio (Einaudi, 2006) di Telmo Pievani, un testo che muove dalla consueta confusione fra creazione ed evoluzione, come si trattasse di due realtà alternative; il Trattato di ateologia di Michel Onfray (Fazi Editore, 2005), che forse avrà altre occasioni per dimostrare di meritare il titolo di “genio dell’ateismo”, come afferma pomposamente la copertina, e come non riesce a convincere nemmeno il più recente La scultura di sé. Per una morale estetica (Fazi Editore, 2007), che ripropone un’etica neo-epicurea, basata sul principio che “senza il piacere non c’è morale”.

Un discorso più severo ancora lo merita il libro La fine della fede. Religione, terrore e il futuro della ragione dell’americano Sam Harris (Nuovi Mondi Media, 2006), che tutto riesce a fare fuorché realizzare l’intento fondamentale dell’autore, che è quello di richiamare alla ragione coloro che si sono fatti prendere nel laccio delle credenze religiose di ogni genere che, come tutti sanno, sono la negazione più perfetta della capacità raziocinativa della mente umana; le spese maggiori le fanno i cristiani e i musulmani, uniti insieme dalla stessa ignoranza. L’esempio classico è quello di un giovane che nell’autobus pieno, “premendo un pulsante si fa esplodere”, provocando all’intorno distruzione e morte. Si può essere più irrazionali di così?

Per coloro che amano il sapere in pillole e che non hanno molto tempo da perdere, Antonio López Campillo e Juan Ignacio Ferreras, hanno dato vita a una specie di “Bignami” dell’ateismo, intitolato Corso accelerato di ateismo (Castelvecchi 2007), con lo scopo dichiarato di presentare in sette brevi lezioni “l’ateismo visto come culmine della maturità dell’individuo e come conquista della ragione libera”. Un testo alternativo alla scuola di religione, corredato da esercizi pratici, preludio a un imminente Corso di dottorato in ateismo, che il lettore non proprio convinto e ancora dubbioso può aspettare con ansia e curiosità scientifica. Lo scrittore inglese Christopher Hitchens è duro e deciso anche nel titolo. Evidentemente riecheggiando la tipica espressione musulmana “Allah è grande!”, egli afferma: Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa (Einaudi, 2007), avvertendo però anche che la religione non si estinguerà finché durerà “la paura della morte, del buio, dell’ignoranza”. Ma c’è qualche speranza che ciò potrà avvenire in un futuro più o meno lontano? Il buio è già vinto, così anche l’ignoranza, ma la morte?

 

L’APPORTO

DEL LAICISMO

 

Nella misura in cui è possibile distinguere fra laicismo e ateismo, quando il primo termine è inteso nel senso di totale autonomia dell’uomo (proprio in queste ultime ore abbiamo sentito E. Scalfari affermare l’equivalenza fra laicismo e ateismo), possiamo ricordare anche altre pubblicazioni, come Laici in ginocchio del filosofo C. A. Viano (Laterza, 2006), Di nessuna chiesa. La libertà del laico di G. Giorello (Cortina Editore, 2005), Laici. L’imbroglio italiano di M. Teodori (Marsilio 2006), Il partito di Dio di M. Damilano (Einaudi 2006). Si dice normalmente che l’intento di questa professione laicistica è quello di difendersi dalle attuali interferenze della Chiesa soprattutto italiana in campo politico-sociale. Ma la migliore difesa è l’attacco. E l’attacco, fra i righi, si spinge oltre le premesse dichiarate, perché tutto lascia pensare che, per i citati autori, di Dio sembra si possa fare tranquillamente a meno. L’etsi Deus non daretur di U. Grozio tende quasi naturalmente a perdere la congiunzione iniziale e a divenire una negazione categorica.

Collocare fra questi il libro di G. E. Rusconi Non abusare di Dio. Per un’etica laica (Rizzoli, 2007) è forse una certa forzatura, perché la definizione della laicità, collocata nel primo capitolo, è del tutto accettabile. L’accostamento fra laicità e ragione (“Per il laico, si afferma, l’unico criterio-guida dell’umano-naturale è la razionalità/ragionevolezza”) centra chiaramente il significato di una parola, troppo spesso adulterato con immissioni estranee che con essa non hanno nulla a che fare. Affermare la laicità è propriamente appellarsi alla ragione. Una posizione che anche il cristiano accetta di buon grado, intendendo pure lui presentarsi ed essere considerato laico in questo senso. Purtroppo il prosieguo del discorso del filosofo in questione non sempre si dimostra coerente con questa premessa. Così quanto è affermato a p. 33 andrebbe meglio specificato: «Per il religioso-di-chiesa tradizionale il riferimento a Dio è parte costitutiva della concezione della natura umana, della natura in generale, ed è fondativo dei doveri e dei diritti che ne derivano. Per il laico invece il nesso Dio-natura rimane problematico e la determinazione dei doveri e dei diritti fondamentali dell’uomo prescinde da ogni riferimento diretto a Dio. Questa posizione è sinteticamente espressa nella tesi etsi deus non daretur». Degno di nota però è quanto è affermato nella parte finale del primo capitolo a proposito della citazione di Grozio, che conteneva (e l’autore onestamente lo ricorda) anche l’inciso “quod sine summo scelere dari nequit”: «È stato obiettato che la formula giusta sarebbe – caso mai – etsi ecclesia non daretur. Personalmente non ho alcuna obiezione a questa variante: ma sono gli uomini del magistero della Chiesa che si mettono volentieri al posto di Dio». Un’affermazione, quest’ultima, superflua, se non proprio offensiva. La Nota dottrinale del 2002 della Congregazione per la dottrina della fede definisce la laicità come «autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica», con la notevole aggiunta «ma non da quella morale». Richiamare le esigenze impreteribili della legge morale non significa affatto collocarsi al posto di Dio.

Il libro divulgatissimo di Piergiorgio Odifreddi (definito o autodefinito il “matematico impertinente”) Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici) (Longanesi 2007), riecheggia, evidentemente “e contrario”, la famosa frase di Benedetto Croce: “Perché non possiamo non dirci cristiani”. C’è però una differenza fra “dirsi” ed “essere”. Il lettore poco esperto nelle questioni trattate nel testo può rimanere impressionato dalla mole di citazioni che coronano i sei densi capitoli, ma una lettura più approfondita scopre una chiara mancanza di quell’aggiornamento biblico che ha interessato gli studiosi seri (anche non credenti) in questi ultimi decenni. Non si tiene nemmeno conto dell’opera dell’uomo nella composizione dello scritto pur considerato come ispirato. Sulla natura della ispirazione si sta ancora discutendo e non è certamente serio farsi di essa un concetto semplicemente di comodo. Ispirazione non significa affatto dettatura. Una simile concezione andrà certamente bene per il Corano, ma è stata da sempre rifiutata per i libri che compongono la Bibbia. Allora come giustificare affermazioni come quella che figura nella quarta pagina della sopracopertina? «Se la Bibbia fosse un’opera ispirata da un Dio, non dovrebbe essere corretta, coerente, veritiera, intelligente, giusta e bella? E come mai trabocca invece di assurdità scientifiche, contraddizioni logiche, falsità storiche, sciocchezze umane, perversioni etiche e bruttezze letterarie?». Una presentazione, fra l’altro eccessivamente pesante, che sa dei mulini a vento che Don Chisciotte si costruiva o si fingeva nella mente per avere qualcosa contro cui lottare. Il tono della serietà dell’opera in questione è dato dall’introduzione, dove si dimostra che cristiano è sinonimo o quasi di cretino (un accostamento, si dice, “apparentemente irriguardoso”, ma «in realtà corroborato dall’interpretazione autentica di Cristo stesso, che nel Discorso della Montagna iniziò l’elenco delle beatitudini con: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli”»). Un inizio che non invoglia molto il lettore esperto ad andare avanti nella lettura del testo. Se non ci fosse, alla fine, il richiamo di un’altra equazione, evidentemente da contrapporsi a quella iniziale: quella di laici e loici. Un accostamento di comodo che l’autore fa proprio con una certa improntitudine e assoluta mancanza di humor. L’uso della ragione appartiene in esclusiva ai laicisti ed è assolutamente vietato ai credenti. Non c’è niente da fare; l’umanità è divisa in questa maniera: da una parte i cretini, dall’altra i “loici”, gli amanti del logos, cioè della ragione. La benedizione finale è degna di quanto la precede: “Benedicat vos omnipotens Logos: Pater Pythagoras, Filius Archimedes, et Spiritus Sanctus Newtonius”. Ci sarà qualcuno disposto a concludere liturgicamente con un Amen?

Giordano Frosini