CRISTIANI IRACHENI:
STRANIERI IN PATRIA
In questi ultimi anni la Chiesa irachena sta assistendo impotente allo
spaventoso esodo dei suoi fedeli. Si calcola infatti che la presenza dei
cristiani da 1,5 milioni sia drasticamente scesa a circa 500.000. Le cause sono
molteplici e non da ridurre alla sola compagine bellica.
Il recente libro di Jean Benjamin Sleiman, edito dalle Paoline,1 si
presenta prima di tutto come un atto di denuncia di tale fenomeno, con lo scopo
di riflettere sulle cause che hanno generato l’attuale collasso religioso ed
etnico. «Essere cristiani oggi in Iraq – scrive l’autore – significa essere
esposti a tutte le oscillazioni del fanatismo. Paradossalmente, nel momento in
cui la libertà è divenuta una realtà, i cristiani sono tra coloro a cui mancano
drammaticamente le condizioni per poterne godere».
L’autore
Jean Benjamn Sleiman è l’attuale arcivescovo latino di Baghdad. Nato in
Libano nel 1946, di origine maronita, vive in Iraq dal 2001. Carmelitano scalzo
è stato definitore generale del suo ordine dal 1991 al 1997 e rieletto fino al
2003. Attualmente è segretario della Conferenza episcopale irachena e
presidente della Caritas Iraq.
Leggendo questo libro il lettore vi coglierà costantemente un «vibrante
appello alla riconciliazione e all’autodeterminazione» del popolo iracheno. Il
J’accuse dell’arcivescovo esprime il grido del cuore di un pastore che constata
come le “ferite” di un popolo siano diventate “piaghe” quasi incurabili.
TEMPO E RAGIONI
DELLA VIOLENZA
Ciò a cui assistiamo oggi è il risultato di diritti calpestati,
frustrazioni e squilibri strutturali cresciuti lentamente, e tramandati di
generazione in generazione: «I media raccontano incessantemente le violenze
militare, politiche e terroristiche, mentre parlano molto poco delle ferite
psicologiche di un popolo ormai allo stremo. Gli iracheni, che oscillano dalla
compassione alla violenza e dalla violenza alla compassione, sono frustrati. Si
deve smettere di parlare della violenza come di qualcosa che appartiene al loro
patrimonio genetico, e cercarne invece le cause. La violenza, infatti è una
reazione di autodifesa, anima e corpo, a un contesto che oggi è profondamente
scosso sul piano politico, culturale, economico e sociale» (p. 20).
IL DRAMMA
DELLA DHIMMITUDINE
Non si capirà fino in fondo la fuga di tanti cristiani iracheni dalla loro
terra se non a partire dal “concetto” di dhimmitudine, usanza peraltro
praticata da secoli dall’islamismo nei confronti dei popoli sottomessi. Spiega
l’autore: «la dhimmitudine è uno stato d’animo, un tipo d mentalità, un genere
di comportamento, che caratterizza coloro che l’islam ha battezzato,
frettolosamente e scorrettamente, come gente del Libro, ossia i cristiani, gli
ebrei e gli zoroastriani che vivono nei paesi che la conquista musulmano ha trasformato
in “territorio dell’islam”, in opposizione al “territorio della guerra”, spazio
privilegiato della jihad (guerra santa)» (p.26). Le conseguenze di tale
atteggiamento sono raccontate drammaticamente nelle pagine successive. Continua
l’autore: «la dhimmitudine è caratterizzata dalla sottomissione, dalla paura,
dall’accettazione dell’umiliazione, e dalla spersonalizzazione, dal divieto e
dalla rigidità, dalla vulnerabilità, dal servilismo e dall’ipocrisia. Per
proteggersi, i dimmi sono ricorsi all’adulazione. Per farsi benvolere, hanno
persino praticato la delazione. Disprezzando il proprio status, hanno riversato
sui proprio simili l’odio nutrito, cosa che ha spesso esacerbato i rapporti tra
le comunità cristiane e quelli con la comunità ebraica» (p. 27-28).
Cristiani e musulmani
L’agenzia AsiaNews ha riportato la positiva notizia di alcuni imam di
Kirkuk che hanno lodato i cristiani per l’attività dell’arcidiocesi caldea a
favore del dialogo interreligioso e della convivenza. Essi sono perfino giunti
a dichiarare pubblicamente che «solo la Chiesa può unire gli iracheni». (cf.
AsiaNews, 28 settembre 07).
Il presule latino tuttavia riconosce come la convivenza tra islam e
cristianesimo prima della guerra del 2003 «sembrava esemplare». E «con il trionfo
degli estremismi le ferite di ieri sono diventate oggi piaghe aperte» (p.71).
Così «L’amicizia si fonde più sulla condiscendenza, che non sull’uguaglianza»
(p. 73). «Il rapporto tra le due religioni – scrive mons. Sleiman– è stato in
generale buono», ma «non si vive in pace perché si è cittadini, ma perché si è
protetti da qualcuno. E ciò nonostante la nuova costituzione, la quale secondo
l’opinione diffusa tra i cristiani «ha fallito: con una mano ha dato e con
l’altra ha ripreso ciò che aveva concesso. Ha voluto inserire nella sua carta i
diritti umani riconoscendo le libertà fondamentali, ma ha pregiudicato il tutto
nell’articolo 2, sottomettendo ogni legislazione alla shari’a» (p.78).
Al termine del libro è stata aggiunta un’appendice nella quale sono
contenute informazioni circa la lunga e ricca storia dei cristiani in Iraq.
Sebbene possano vantare origini apostoliche, il presente e il futuro dei
cristiani corre il rischio di trovarsi irrimediabilmente compromesso: «Oggi in
Iraq, – si legge al termine del volume – le tragiche vicende hanno ridotto la
civiltà cristiana a una minoranza. Riusciranno i cristiani a preservare la
propria identità e la propria storia? Da quello che possiamo constatare,
l’epoca che si apre dinanzi noi non sembra inaugurare per i cristiani una nuova
era di integrazione nella società irachena». Conclusione amara? In ogni caso la
coscienza di ognuno e di tutti non può non essere interpellata.
1 Jean Benjamn Sleiman,
Nella trappola irachena, Paoline editoriale libri, Milano 2007, pp. 134, € 9,50.