I° CONVEGNO NUOVE FORME E COMUNITÀ DI VC

LO SPIRITO OLTRE LA NORMA

 

Il 25° della Fraternità francescana di Betania all’origine del convegno. Una “full immersion” nell’ordinamento canonico-giuridico vigente ancora in evoluzione. I risultati di una prima indagine empirica su queste nuove realtà ecclesiali. Sarà questo il “futuro” della vita consacrata? Ancora presto per dirlo.

 

Potrei anche sbagliarmi, ma credo che questo primo convegno sulle nuove forme e sulle nuove comunità di vita consacrata, svoltosi a Roma, il 5-6 ottobre, promosso dalla Fraternità francescana di Betania e coordinato da don Giancarlo Rocca, potrebbe segnare una tappa importante, con risvolti anche imprevedibili, per il futuro non solo delle nuove, ma anche delle antiche comunità. È sorprendente il fatto che l’iniziativa – su ispirazione di mons. Vincenzo Bertolone – sia partita direttamente da una di queste realtà, la Fraternità francescana di Betania, fondata venticinque anni fa, nella diocesi di Molfetta, dal cappuccino p. Pancrazio Nicola Gaudioso. Questi, in attento ascolto, ha seguito tutti i lavori, insieme a una novantina di membri, fratelli e sorelle, della Fraternità stessa. Da soli rappresentavano poco meno della metà dei convegnisti. Nell’aula magna dell’Urbaniana, erano vistosamente assenti, salvo poche eccezioni, i “fratelli maggiori” degli ordini e istituti religiosi maschili e femminili.

I lavori sono stati aperti dal prefetto del dicastero vaticano per la vita consacrata, il card. Franc Rodé, il quale nel suo breve intervento ha toccato il “nervo scoperto” del rapporto tra antiche e nuove forme di vita consacrata. Il fatto che da tempo, nella Chiesa, si sia alla ricerca di nuove forme, si è chiesto, va visto come una ispirazione dello Spirito, o non piuttosto come il sintomo evidente della debolezza di quelle antiche? Dall’insieme dei lavori, per la verità, non è emersa, né si voleva perseguire intenzionalmente, una risposta a questa provocazione iniziale. Eppure, nel prossimo futuro, questo confronto potrebbe rivelarsi una delle più importanti e stimolanti sfide di fronte alle quali si verranno inevitabilmente a trovare gli istituti tradizionali di vita consacrata.

 

LA NOVITÀ

DELLE “NORME COMUNI”

 

Nelle due intensissime giornate del convegno si sono succedute una dozzina di relazioni e una decina di (troppo brevi) presentazioni di alcune nuove comunità (tra le quali: Betania, Chiesa-mondo, Figli di Dio, Seguimi, Amore e libertà, Oasi di pace). Non erano previsti liberi interventi da parte dell’assemblea. Data la full immersion giuridica nella quale, come ha osservato don Mario Torcivia all’inizio del suo intervento, si sono venuti a trovare i convegnisti, sarebbe stato molto difficile interloquire su questo campo. Quando, infatti, al tavolo dei relatori si alternano alcuni esperti di diritto canonico, non certo tra i più sconosciuti della capitale, come mons. Velasio De Paolis, segretario della Segnatura Apostolica, p. Gianfranco Ghirlanda, rettore della Gregoriana, p. Luigi Sabbarese, vice-rettore dell’Urbaniana, p. Agostino Montan, docente alla Lateranense; quando, a tutti questi, si aggiungono anche due ex sottosegretari del dicastero vaticano per la vita consacrata, particolarmente competenti in questioni giuridiche, come mons. Vincenzo Bertolone, vescovo di Cassano Ionio e p. Jésus Torres, è facile comprendere da che parte avrebbe “tirato” l’aria del convegno.

Nel quadro complessivo disegnato dagli organizzatori, il discorso giuridico è stato comunque integrato da altri illuminanti interventi, come quelli di don Mario Torcivia, dello studio teologico di Catania, sulle fonti ispirative delle nuove comunità monastiche italiane, del medievalista Giancarlo Ardenna, dell’università cattolica del S. Cuore di Brescia, sul rapporto uomo/donna delle comunità religiose medievali, di don Giancarlo Rocca, direttore del dizionario degli istituti di perfezione, sui dati statistici e il tentativo di interpretazione delle nuove comunità, di Olivier Landron, dell’università cattolica di Angers, sull’apostolato delle nuove comunità in Francia, di Patricia Wittberg sulle nuove comunità negli Usa e, infine, di Lluis Oviedo, dell’Antonianum di Roma, sui risultati di una prima indagine sociologica su una decina di nuove comunità di vita consacrata.

I canonisti davano forse per scontata (bontà loro!) la conoscenza della normativa canonica vigente in fatto di istituti di vita consacrata e delle loro “nuove forme”. Nel corso dei loro interventi, comunque, tutti i presenti hanno potuto rifarsi una cultura in proposito. I riferimenti giuridici più frequentemente ricordati e ripresi dal nuovo codice di diritto canonico del 1983, sono stati quelli relativi agli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica nella loro triplice articolazione: norme comuni (573-606), gli istituti religiosi (607-709) e gli istituti secolari (710-730). Commentando il canone 573, mons. De Paolis, il primo dei relatori, ha fatto subito notare come per la prima volta nell’ordinamento canonico fossero state previste delle norme comuni alle diverse forme di vita consacrata. Questa sottolineatura si è poi di fatto rivelata fondamentale nel corso del convegno, anche perché, secondo il relatore, proprio in quel canone – più ancora che non in quello del n. 605, dove appare la prima menzione delle “nuove forme” – si ritrovano già tutti gli elementi teologici e giuridici essenziali relativi sia agli antichi che ai nuovi istituti di vita consacrata.

In assenza, comunque, di una normativa più specifica, di fronte alle crescenti richieste di approvazione di nuovi istituti, il dicastero vaticano per la vita consacrata, ancora nel gennaio del 1990 si è trovato nella necessità di dover elaborare un documento privato, mai ufficializzato e non vincolante, come ha precisato mons. Bertolone, sui “criteri per approvare nuove forme di vita consacrata a norma del can. 605”.

Il tema delle “nuove forme” è successivamente ritornato durante i lavori della IX assemblea ordinaria del sinodo dei vescovi dell’ottobre 1994 e nella relativa esortazione apostolica Vita consecrata di Giovanni Paolo II del 1996. Mentre nel n. 12 si parla di “nuove o rinnovate forme di vita consacrata” e di “esperienze originali” alla ricerca di una propria identità nella Chiesa e in attesa di un riconoscimento ufficiale da parte della Sede apostolica, al n. 62 troviamo un più articolato riferimento alle “nuove forme di vita evangelica”. L’originalità di queste “nuove fondazioni”, di queste “nuove comunità”, vi si dice, è data dal fatto che si tratta prevalentemente di gruppi «composti da uomini e donne, da chierici e laici, da coniugi e celibi, che seguono un particolare stile di vita, contrassegnato da un’intensa aspirazione alla vita comunitaria, alla povertà, alla preghiera, in un atteggiamento di apertura alla nuova evangelizzazione.

Di fronte alla ricchezza di questi nuovi “doni dello Spirito”, Giovanni Paolo II ha ritenuto opportuno creare un’apposita commissione allo scopo di stabilire “criteri di autenticità” utili a quanti avrebbero avuto la responsabilità del discernimento e delle decisioni relative alle nuove forme di vita consacrata. Dal momento, però, che di questa commissione si sono perse molto presto le tracce e non sono mai stati resi noti i risultati, di fronte alle sempre più numerose richieste di riconoscimento, ha fatto notare p. Torres, l’unica soluzione per “andare saggiamente avanti” era quella di una “via pragmatica”, vale a dire, quella dello studio dei singoli casi man mano che si presentavano, rinviando poi la valutazione conclusiva dei risultati ai periodici congressi del dicastero vaticano.

Proprio in base a questa prassi tutt’ora in atto, nell’annuario pontificio del 2007, dopo le società di vita apostolica femminile, troviamo l’esplicita menzione di “Altri istituti di vita consacrata”. Ai precedenti istituti tradizionali, come è detto nella nota storica, vi si aggiungono ora “nuove forme” di vita consacrata, tra le quali troviamo la Famiglia monastica di Betlemme, dell’Assunzione della beata vergine Maria e di san Bruno (approvata nel 1998 come “Famiglia monastica”), la Famiglia spirituale “l’Opera” (approvata nel 2001 come “Famiglia di vita consacrata”), la Fraternità missionaria “Verbum Dei” (approvata nel 2000 come “Fraternità di vita consacrata”), l’Opera della Chiesa (approvata nel 1997 come “Famiglia ecclesiale di vita consacrata”), la Società di Cristo Signore (approvata nel 1993 come “Istituto di vita consacrata”). Per la verità, nell’annuario pontificio del 2007, è ricordata anche l’Associazione delle vergini consacrate, le cosiddette “Servidoras”, approvate nel 1995. Secondo p. Ghirlanda, però, non avrebbe senso ricordarle insieme a queste nuove forme, dal momento che si tratta di un’associazione di vergini consacrate e non di un istituto di vita consacrata.

 

LA “CRUX INTEPRETUM”

DEL NUOVO CODICE

 

Richiamati questi brevissimi e molto diversificati riferimenti normativi, sarebbe quanto mai opportuno, a questo punto, riprendere i punti salienti dei commenti fatti dagli esperti intervenuti al convegno. Non c’è materialmente lo spazio per farlo in questa sede. Converrà aspettare la pubblicazione degli Atti. Don Rocca ha più volte assicurato che conterranno molti più documenti rispetto agli interventi ascoltati e presentati in aula. È fin troppo facile prevedere che questa pubblicazione diverrà un punto obbligato di riferimento per chi vorrà incominciare a guardare più da vicino il fenomeno, sempre più vasto. Durante il convegno si è parlata di una prima stima minimale di almeno 15.000 membri di queste “nuove forme” di vita consacrata.

È sintomatico il fatto, però, che quasi tutti i canonisti abbiano concluso le loro relazioni denunziando la poca chiarezza e la debolezza della legislazione vigente al riguardo. Mons. De Paolis, ad esempio, dopo aver premesso che nonostante il meraviglioso sviluppo postconciliare della teologia della vita consacrata, questa, però, «non attira più come una volta» e – come emerge dal volume di p. Pardilla, espressamente citato dal relatore – non sfugge più a nessuno la “terribile” diminuzione numerica in atto, ha parlato del canone 605 come di una vera e propria crux interpretum. Dal momento che in questo canone si parla solo di “nuove forme” e non di “nuovi istituti” di vita consacrata, ha aggiunto, la vera novità del codice del 1983 sta tutta nelle “norme comuni” e più precisamente nel canone 573, dove vengono chiariti gli elementi essenziali di ogni forma di vita consacrata. Anche rimanendo all’interno dell’attuale ordinamento canonico, a suo dire, è possibile prevedere “altri” istituti di vita consacrata diversi da quelli religiosi, da quelli secolari, dalle società di vita apostolica.

Il nuovo codice ha aperto un orizzonte molto più ampio di quello attualmente occupato dagli istituti religiosi e da quelli secolari. Per cui «finché rimaniamo nell’orizzonte della vita consacrata c’è un grande campo di sperimentazione senza il bisogno di ulteriori legislazioni». Si dovrebbe stare attenti, ha aggiunto, a non sopravalutare il canone 605. «Andate avanti, proseguite, fate opera di discernimento insieme all’autorità ecclesiastica… lo Spirito ha la forza di suscitare realtà nuove e la norma non ha la capacità di soffocarla. Anzi, ha concluso, verrà il giorno in cui la norma, se la realtà viene dallo Spirito, si adeguerà facilmente, perché questa è la più autentica storia della Chiesa».

Anche per mons. Bertolone l’approvazione degli statuti delle nuove forme di vita consacrata è una delle più rilevanti problematiche aperte. Quando ci si trova di fronte a delle realtà cui aderiscono consacrati, coniugati e, a volte, anche vescovi, si tocca con mano l’assenza di un organismo rappresentativo di tutte le realtà ecclesiali presenti nei movimenti ecclesiali, di un testo legislativo appropriato e di adeguati criteri di discernimento. Tutte le implicazioni e le complicazioni giuridiche non dovrebbero comunque allarmare più di tanto. Anche per lui, la Chiesa ha sempre avuto un atteggiamento di apertura e di accoglienza, fino ad arrivare – quando necessario – alla modifica della legislazione vigente sugli istituti di vita consacrata. Di fronte alle nuove forme di vita consacrata, il problema principale non è sostanzialmente e prima di tutto quello giuridico, bensì quello relativo al loro stile di vita. «Le inevitabili perplessità potranno essere superate con la prova del tempo. Se queste comunità sono realmente frutto dello Spirito Santo, finiranno sicuramente con l’imporsi nella vita della Chiesa».

La poca chiarezza normativa sulle nuove forme di vita consacrata è stata più volte rilevata anche dal p.Ghirlanda. Per via pragmatica sono state approvate, a volte, singole forme di vita consacrata sulla base di caratteristiche proprie che però «non corrispondono a tutti gli elementi canonici che attualmente definiscono gli istituti di vita consacrata». Di fronte a questa situazione “di incertezza e di confusione”, la soluzione prospettata dal rettore della Gregoriana è molto chiara: emanare una nuova costituzione apostolica «che configuri canonicamente, con delle norme di carattere generale, una nuova forma di vita consacrata che si aggiunga a quelle già esistenti». Un provvedimento del genere servirebbe anche e soprattutto ai vescovi nella delicatissima opera di discernimento che viene loro richiesta dal codice vigente.

Non meno criticamente esplicito nelle sue valutazioni conclusive è stato p. Sabbarese. Da tempo, ha detto, «si è aperto un conflitto per determinare l’autorità competente ad approvare, a livello centrale, nuove forme di vita consacrata o associazioni con membri consacrati». Purtroppo è ancora sussistente «una certa disparità di trattamento nell’utilizzo di criteri in base ai quali determinare la competenza di un dicastero su una forma associativa che si presenta come nuova forma di vita consacrata». Ci si trova di fronte, dunque, ad una «mancanza di criteriologia e di orientamenti generali condivisi». E anche là, dove questi orientamenti sono stati dati, alla fine hanno poi dovuto recedere «di fronte alla multiforme manifestazione dello Spirito che ha ispirato fondatori e fondatrici».

Nel contesto del tema generale del convegno, p. Agostino Montan si è limitato a esaminare alcuni aspetti fondamentali di quattro associazioni internazionali riconosciute dal pontificio Consiglio per i laici (Villaregia, Seguimi, Memores Domini, istituzione Teresiana). Gli aspetti presi in considerazione riguardavano le vie e i mezzi per realizzare l’universale chiamata alla santità, il profilo giuridico di queste vie e di questi mezzi, la concezione della vita fraterna, la rilevanza della missione, l’appartenenza, l’uscita e la dimissione dei membri di queste associazioni. Anche per p. Montan, comunque, le questioni aperte del convegno non erano poche. Ne ha solo accennato ad alcune: anzitutto l’identità teologica, giuridica e la definizione stessa delle nuove forme di vita consacrata, e poi la determinazione del dicastero vaticano a cui attribuire la competenza per regolare queste nuove realtà.

 

LE SORPRESE

DI UN’INDAGINE EMPIRICA

 

Nell’economia di questa sintesi dei lavori del convegno, allo scopo di vedere più da vicino come vivono queste nuove comunità di vita consacrata, mi pare opportuno riservare uno spazio più adeguato ai risultati forniti da p. Oviedo a proposito di una sua prima indagine empirica sulle nuove comunità. Queste, ha esordito – rivedendo, in buona parte, alcune sue posizioni enunciate meno di un anno fa nell’assemblea generale della Cism a Olbia – costituiscono oggi una realtà che non è più possibile trascurare anche da parte degli istituti tradizionali. Qualora i dati raccolti fossero confermati, potrebbero segnalare un evidente “cambio di tendenza” nei confronti di quelle teorie che, come la secolarizzazione, vanno da tempo sentenziando il declino inarrestabile e l’estinzione della maggior parte delle forme di vita consacrata.

Pienamente consapevole dei limiti propri di ogni indagine empirica, p. Oviedo ha scelto la via dell’osservazione partecipata all’interno di dieci nuove comunità, otto delle quali residenti a Roma e dintorni e delle altre due, una in Piemonte, l’altra in Puglia (Betania, Seguimi, Oasi di pace, Bose, l’Agnello, Beatitudini, Villareggia, Shalom, Gerusalemme, Nuovi orizzonti). Una domanda di fondo ha sempre accompagnato tutte le fasi della ricerca: come mai, in controtendenza rispetto alla stragrande maggioranza degli istituti tradizionali, almeno nei paesi occidentali, queste nuove comunità riescono ad avere oggi tante vocazioni? Detto in maniera ancora più esplicita: queste nuove comunità possono costituire una vera alternativa, “il futuro” – secondo alcuni – per la vita consacrata?

Uno dei primi tratti più caratteristici di queste nuove realtà è dato dal superamento e dalla rottura tra stile di vita contemplativo e stabile da una parte, e quello attivo e dinamico dall’altra. Pur vivendo, per lo più, separate dall’ambiente circostante, non mancano però iniziative di missione e di evangelizzazione vera e propria. Queste comunità – generalmente con un centinaio di membri celibi al massimo, fondate in tempi molto recenti e governate, spesso, ancora dai propri fondatori – sanno coniugare, cioè, dimensione monastica e dimensione missionaria insieme.

Può forse sorprendere il fatto che la stragrande maggioranza delle comunità visitate non esprima nelle proprie scelte di vita – almeno consapevolmente – il senso di una “eccellenza oggettiva”, di una “differenza qualitativa”, di una loro “superiorità” rispetto ad altre forme di sequela di Cristo. E questo va detto anche se i livelli di rigore sono generalmente più alti rispetto a quelli degli istituti tradizionali, soprattutto maschili. Basti pensare ai ritmi di preghiera, anche notturna, decisamente più monastica e molto curata nel canto, nel coinvolgimento delle persone, non priva di un certo estetismo, i frequenti digiuni, la pratica del silenzio, certe norme assai ristrette nel campo della povertà personale. Sono tutti comportamenti accompagnati, per la verità, anche da una certa “enfasi” nelle pratiche tradizionali di pietà, soprattutto per quanto riguarda la devozione mariana e l’Eucaristia, generalmente al centro della loro preghiera comunitaria. Se nei confronti del mondo e della società prevalgono, di solito, un certo disinteresse e la distanza da ogni impegno politico-sociale o di partecipazione a movimenti di protesta, rispetto alla Chiesa gerarchica è ampiamente assunto un sincero atteggiamento di rispetto e di comunione. Le uniche difficoltà sembrano riguardare solo i rapporti con i propri vescovi, non sempre in grado di cogliere la novità del carisma di queste comunità.

Dall’indagine emerge anche un certo ridimensionamento delle accuse di de-istituzionalizzazione rivolte alle nuove comunità. Se è vero che si vive spesso in strutture molto povere o addirittura “in concessione” da parte di altri enti, in altri casi vengono gestite scuole e consistenti strutture di accoglienza per l’animazione e l’accompagnamento spirituale.

Alla domanda sul perché del loro “successo”, la risposta andrebbe ricercata, per lo più, nel loro stile di vita contrassegnato dalla povertà, dalla fraternità, dalla gioia, dalla freschezza del carisma, dal senso ecclesiale del fondatore, da un certo status giovanile, dall’atteggiamento di accoglienza e di ospitalità, dalla contemplazione e azione insieme, dalla riscoperta della dimensione umana e dello spirito di famiglia, dalla compresenza di fratelli e sorelle in una stessa comunità.

Si tratta di «forme alternative di vita consacrata che non risentono dei limiti e delle stanchezze delle forme tradizionali», commenta Oviedo. I membri di queste comunità sono convinti di una loro specifica identità, quanto meno diversa, più aggiornata e attuale rispetto a quella dei membri degli istituti tradizionali. In alcuni casi viene apertamente affermato di essere questo “il futuro” della vita consacrata.

 

IL PROBLEMA

DELLE COMUNITÀ MISTE

 

È indubbio che il tratto più evidente e innovativo di queste nuove realtà è quello della compresenza di maschi e femmine, un aspetto, questo, di “non facile comprensione” per chi le vede dall’esterno. Di fronte alla domanda di come sia possibile vivere la vita consacrata in comunità miste, la risposta punta subito sulle «mutate condizioni dell’alterità sessuale nelle nostre società», per cui, oggi è possibile quello che non lo era cinquant’anni fa. È un fatto di verifica quotidiana che le nuove generazioni sono cresciute all’interno di schemi sempre più diffusi di coeducazione nelle scuole e di compresenza nei posti di lavoro. All’interno della Chiesa stessa la realtà dei vari movimenti ecclesiali ha sicuramente favorito un rapporto maschi-femmine ben diverso rispetto al passato.

«Comunque sia, le cose non sono così semplici», commenta Oviedo. E questo obbliga i responsabili delle nuove comunità a mettere in atto alcune indispensabili strategie, come il prestare una maggiore attenzione al momento della selezione dei candidati, un maggior controllo della situazione al fine di evitare un eccessivo coinvolgimento affettivo, un maggiore rigore e dei ritmi molto più impegnativi di preghiera, di digiuni, di silenzio e di altre più appropriate misure disciplinari.

Non dovrebbe essere una sorpresa per nessuno il fatto che si siano già verificati alcuni “fallimenti” del progetto, come nel caso di quelle coppie che hanno poi finito con l’abbandonare la fraternità. È indicativo il fatto, però, che non sembrano tanto i problemi affettivi a provocare crisi e a generare instabilità e tensione, quanto piuttosto quelli organizzativi e di gestione del potere – soprattutto tra sacerdoti da una parte e donne dall’altra – all’interno di queste nuove realtà.

Ma vale proprio la pena, si chiede a un certo punto Oviedo, «pagare un prezzo così alto per vivere in comunità miste?». La sua risposta è sì! Non si può ignorare la ricchezza, anche affettiva, di una vita in comune tra uomini e donne. Anche di fronte alle ben note “crisi personali” – determinate spesso dal bisogno primario di un rapporto affettivo – sempre più frequenti all’interno degli istituti tradizionali, le riserve di questi ultimi nei confronti delle nuove comunità “miste” continuano a essere molto consistenti. Se è vero che le “fughe” – a volte in coppia – si sono già verificate anche nelle nuove comunità, non si dovrebbe sottovalutare il fatto che, in questi ultimi anni, è andato, purtroppo, aumentando il numero di candidati omosessuali diventati poi di fatto “membri di pieno diritto” negli istituti tradizionali. Le difficoltà, sembra dire in sostanza Oviedo, esistono sia da una parte che dall’altra. Vanno valutate per quello che sono. Sia nell’un caso che nell’altro, non sarà mai troppa l’opera di discernimento. Ma, onestamente, non si possono usare due pesi e due misure.

Sarebbe ingenuo, comunque, non vedere i limiti e le ambiguità delle nuove comunità. Non si può, infatti, chiudere gli occhi di fronte a certe tensioni e a certi squilibri, non solo numerici – generalmente nelle nuove comunità ci sono più femmine che maschi – ma anche organizzativi e istituzionali. Il passaggio, ad esempio, nella fase di approvazione da parte della competente autorità ecclesiastica, da una realtà più libera e carismatica ad un’altra necessariamente più istituzionalizzata e organizzata, «è stato assai traumatico e ha provocato l’abbandono di diversi membri della comunità». Anche se a volte la crisi è stata, invece, determinata proprio dal mancato riconoscimento, dalla delusione e dalla eccessiva lentezza delle procedure previste, la difficoltà principale, da quanto emerge dalla ricerca, è sempre quella connessa al passaggio da un governo carismatico a quello più istituzionalizzato. «Non è per niente facile risolvere il dilemma del governo in una entità mista», soprattutto quando accanto a consacrati/e celibi si aggiungono anche quelli coniugati. Il fatto, poi, che queste nuove realtà siano numericamente ridotte – la più numerosa pare quella delle Beatitudini con 500 consacrati celibi circa – è quanto mai difficile garantire la loro necessaria stabilità.

Non meno problematico è il loro rapporto con la vita consacrata tradizionale e con le realtà ecclesiali comuni, all’interno delle quali «non sempre si riesce ad aprire una “nicchia ecologica” o ad aprirsi un proprio spazio dove rendere effettivo il proprio carisma». Anche la breve storia di queste nuove realtà, in più casi, insegna che non poche di esse sono sempre rimaste numericamente allo stato embrionale. Con la morte del fondatore o in conseguenza di alcuni scandali, poi, non sono poche quelle che hanno dovuto chiudere i battenti. Se può essere vero, come si è già ricordato, che le nuove comunità non sembrano puntare più di tanto sulla eccellenza oggettiva del loro stile di vita, di fatto, però, nei loro comportamenti, è facile percepire un senso di autostima. Non mancano casi palesi di una propria consapevole superiorità nei confronti delle forme tradizionali» che, a loro avviso, non avrebbero più futuro.

Avviandosi alla conclusione, dopo aver precisato che il valore della sua ricerca è puramente esplorativo e che, a causa del ridotto numero dei casi esaminati, sarebbe quindi arbitrario parlare di risultati sicuri, Oviedo riprende la grande questione: fino a che punto le nuove fondazioni costituiscono una specie di segni dei tempi in grado di ispirare e suggerire un’inversione di tendenza all’attuale momento di crisi della vita consacrata tradizionale? È ancora troppo presto per una risposta convincente ed esaustiva. Non mancano, comunque, indicazioni, sintomi, tendenze configurabili già fin d’ora come “segni dei tempi” veri e propri. Oviedo arriva fino al punto da suggerire una possibile linea di discernimento: lì dove lo stile di vita delle nuove comunità diverge da quello degli istituti tradizionali, sarebbe quanto mai opportuno, da parte di questi ultimi, adeguarsi ai nuovi modelli, soprattutto nel campo della spiritualità, dei livelli di rigore, della flessibilità nel coniugare le forme di vita contemplativa con quelle di vita attiva, nei nuovi elementi di visibilità, nei nuovi stili di mobilitazione e missione. Perché, si chiede Oviedo, non vedere nelle nuove comunità una specie di laboratorio dove si confrontano e si verificano proposte diverse e alternative di vita consacrata? Certo, sarebbe assurdo, impensabile e controproducente pretendere dagli istituti tradizionali un adeguamento anche a livello di compresenza tra maschi e femmine tipico delle nuove comunità. Sarebbe già un passo molto significativo sapersi reciprocamente accettare, senza troppi pregiudizi. Si dovrebbe porre fine, una volta per sempre, ad atteggiamenti di reciproca delegittimazione. «Troppo spesso siamo stati testimoni di atteggiamenti di disprezzo nei confronti delle nuove forme», soprattutto quando queste sono nate da scissioni e da lacerazioni interne di alcuni istituti. Più deleterio ancora sarebbe il fatto di un’eventuale concorrenza in campo vocazionale, dato il numero sempre più scarso di candidati alla vita consacrata negli istituti tradizionali.

 

UN “LABORATORIO”

PER IL FUTURO

 

Prima delle conclusioni del convegno affidate a mons. Bertolone, ha preso la parola don Rocca dal quale ci si aspettava tutta una serie di dati statistici sulle nuove forme di vita consacrata. Dovremo pazientemente attendere la pubblicazione degli Atti per vedere qualcosa di più consistente al riguardo. Lì si è limitato a dire che queste nuove realtà, in tutto il mondo, sono centinaia, centinaia, centinaia il che rende particolarmente problematico il loro censimento. Ipotizzando poi alcune sue linee generali interpretative del fenomeno, quella per certi versi più sorprendente riguarda l’area geografica in cui nascono oggi in maniera predominante le nuove comunità. Nascono là dove, paradossalmente, stanno scomparendo in maniera più vistosa gli istituti tradizionali. Inoltre si avvicinano di più a questi che non agli istituti secolari. Mentre questi perseguono un inserimento nel sociale attraverso l’anonimato, senza vita comune, senza abito distintivo, senza un apostolato specifico, tutti questi elementi vengono invece assunti apertamente, senza nessuna esitazione, nelle nuove comunità. Il distacco dagli istituti tradizionali avviene a livello di apostolato e di opere. Mentre nelle nuove comunità i laici, anche se coniugati, sono coinvolti nella piena condivisione del carisma, della spiritualità, della vita comune, della missione, negli istituti tradizionali tutto questo non viene assolutamente richiesto.

Il fatto poi che il dicastero vaticano per la vita consacrata proceda con lentezza nell’approvazione delle nuove comunità, ha concluso don Rocca, non fa altro che confermare gli insegnamenti del passato. Quante volte le congregazioni sono vissute anche 150 anni e più prima di venire ufficialmente approvate. E, purtroppo, questo evento a volte tanto atteso e sospirato, finiva poi con lo spegnere, a volte, gli entusiasmi iniziali del carisma di fondazione.

L’intento principale del convegno, ha affermato mons. Bertolone, concludendo i lavori, era quello di rendere visibile l’importante realtà delle nuove forme di vita consacrata, diventate ormai un fatto non più trascurabile nel tessuto ecclesiale. Perché non vedervi l’inizio di una nuova stagione nella radicalità del dono totale di sé a Dio e ai fratelli e nella capacità di trasmettere il vangelo di Cristo nelle mutate condizioni sociali e culturali attuali, soprattutto in Europa?

Tutte le problematiche di ordine giuridico, dalla interpretazione del canone 605 al problema dell’autorità, alla natura clericale o laicale di queste nuove forme, sono ancora in piena evoluzione e non dovrebbero allarmare più di tanto e gli esperti in diritto canonico dovrebbero continuare nella ricerca e nella proposta di soluzioni più adeguate. La via pragmatica collaudata e seguita da tempo dal dicastero vaticano per la vita consacrata è comunque già in grado affrontare e risolvere non pochi problemi.

Sarebbe un peccato se il lodevole sforzo compiuto dalla Fraternità francescana di Betania in occasione del suo 25° di fondazione, rimanesse un unicum. Ma tale non sarà. Prima ancora che mons. Bertolone lo auspicasse, i responsabili delle varie nuove realtà di vita consacrata presenti al convegno si erano già in linea di massima accordati per un altro non immediato incontro. Se i tempi e il luogo non sono ancora stati decisi, è già stato chiarito invece il contenuto e lo spirito dell’incontro: una condivisione dei propri stili di vita e della propria spiritualità, una messa in comune delle proprie tradizioni liturgiche, non solo raccontate ma anche vissute dal vivo. In altre parole, si vorrebbe condividere proprio quei tratti fondamentali della loro esperienza di consacrati che questo primo convegno ha lasciato sostanzialmente da parte.

Angelo Arrighini