PER UNA COMPRENSIONE DEI VOTI RELIGIOSI
NELLA LUCE DELLA REDENZIONE
La pratica dei
consigli evangelici è ben di più di una semplice osservanza di norme e di
regole. Essa unisce a Cristo e inserisce la persona che li professa nel mistero
della Redenzione. Una vita così vissuta assume quindi un vero e proprio carattere
redentivo.
I consigli evangelici di povertà, obbedienza e castità per il regno di Dio
sono delle opzioni evangeliche, delle scelte che simboleggiano e rendono
visibile la decisione dei consacrati di voler vivere in pienezza la loro
consacrazione battesimale. Pur avendo un contenuto comune, la loro attuazione
concreta assume però le sfumature delle diverse spiritualità e dei vari carismi
che conferiscono loro una nuova ricchezza.
Nelle considerazioni che seguono la pratica di questi consigli è vista
soprattutto in rapporto all’opera della Redenzione, come cioè i voti sono un
modo di cooperare con Cristo al suo amore redentivo. Ciò appare in maniera
molto chiara, per esempio, nella spiritualità di sant’Alfonso dei Liguori, ma è
una prospettiva presente anche in tutti gli altri carismi.
A guidarci in questa riflessione è una suora redentorista tedesca, sr.
Anneliese Herzig, in un interessante articolo apparso nel numero recente della
rivista della Conferenza dei superiori maggiori della Germania.1
Per sant’Alfonso dei Liguori, scrive la religiosa, i consigli evangelici
costituiscono uno strumento efficace per “continuare l’esempio del nostro
Redentore Gesù Cristo” e rappresentano una risposta d’amore al Signore che per
primo ci ha amato. Tenendo presente questa prospettiva che è di redenzione e di
liberazione bisogna pertanto stare attenti a non tornare a una concezione dei
voti basata sul legalismo o sul formalismo o altre cose del genere. Secondo
sant’Alfonso ad essere centrale è infatti la persona di Cristo. Se si vuole
infatti comprendere la sua spiritualità è necessario tenere presente che per
lui lo sguardo decisivo non si riferisce alla Redenzione come categoria
astratta, ma alla persona del Redentore. Chi con la professione abbraccia i
consigli evangelici unisce la sua vita a quella del Redentore e in forza di questo
vincolo essa assume un carattere redentivo.
Ma accanto a questa visione che possiamo definire cristologica dei voti,
altrettanto decisiva è per lui anche la prospettiva antropologica. Il numero
“tre” dei voti esprimono la totalità delle vita umana. Chi pertanto si impegna
in una vita di povertà, castità e obbedienza manifesta la volontà e il
proposito di donarsi totalmente a Dio, senza alcuna riserva. Di conseguenza
egli non appartiene più a se stesso o ad altri, ma solo a Dio per mezzo di Gesù
Cristo. Cristo deve essere perciò il solo “Maestro” della sua vita (cf. Mt
23,8). E ciò vale non solo per il singolo membro, ma anche per l’intera
congregazione. Per i redentoristi, sottolinea sr. Anneliese, non è superfluo
notare che essa si chiama “Congregazione del Santissimo Redentore” oppure
istituto delle “Suore missionarie del Santissimo Redentore”. Basta questa
denominazione per capire che noi apparteniamo al Redentore. E questa totale
“consacrazione” al Redentore – come singoli e come congregazione – costituisce
la nostra prima e più importante testimonianza. Perciò è nostro ardente
desiderio di appartenere a Cristo, per poter portare frutto (cf. Rm 7,4).
STRUMENTI
DI REDENZIONE
Ma in che modo i tre consigli evangelici possono essere intesi come strumenti
di redenzione? Ciò apparirà chiaro se li esaminiamo singolarmente.
Prendiamo anzitutto la povertà. Dio, scrive sr. Anneliese, attua la sua
opera di salvezza non “dall’alto”, ma “dal basso”, attraverso la “povera” vita
di un uomo, il quale, come scrive Paolo nella seconda ai Corinti 8,9 “da ricco
che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo
della sua povertà”, o come afferma in Fil 2,55-11 “spogliò se stesso, assumendo
la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana,
umiliò se stesso...”. Ne deriva che anche la nostra partecipazione all’opera
della redenzione deve attuarsi “dal basso”, ponendoci allo stesso livello
dell’altro, e non come su una torre di vedetta. E anche per noi vale il fatto
che la redenzione si compie nonostante la nostra povertà e la nostra debolezza
in quanto esseri umani, poiché Dio “manifesta la sua potenza nella debolezza”
(2 Cor 12,9). Il riconoscimento della nostra povertà e indigenza è la
condizione per rendere visibile che la Redenzione è opera di Dio e non nostra.
La famiglia redentorista è chiamata a stare vicina ai poveri e abbandonati.
Questa chiamata, sottolinea sr. Anneliese, ci spinge a vivere da poveri in
mezzo ai poveri, non solo come singoli, ma anche come congregazione. Ma noi non
siamo solo quelli che danno e insegnano, ma anche coloro che ricevono e
imparano – da Dio e dai poveri. Non solo noi evangelizziamo i poveri, ma siamo
anche da loro evangelizzati. La solidarietà è quindi una dimensione decisiva
della nostra povertà. “Solidarietà” è amore al prossimo; essa ci sprona a
prendere parte alle lotte dei poveri e dei deboli di questo mondo e ci unisce a
coloro che sono senza speranza e sono abbandonati. Fa parte della nostra
povertà anche l’assoggettarci alla comune “legge del lavoro” e cooperare al
nostro sostentamento.
Ma la povertà evangelica non consiste soltanto nel condividere i beni
materiali, bensì anche nella condivisione del nostro patrimonio spirituale.
L’esperienza di essere noi stesse amate e redente costituisce per noi una
ricchezza decisiva da condividere, sia all’interno della comunità sia con le
persone con cui ci troviamo in cammino.
Di una povertà così intesa fa parte anche la condivisione con gli altri del
tempo e, quando necessario, il mettere in secondo piano i propri interessi per
il bene degli altri.
La missione della famiglia redentorista richiede, da ciascuno e da
ciascuna, prontezza, flessibilità e disponibilità ad andare in altri luoghi
dove è necessario il servizio di annuncio della Redenzione. Ciò può significare
anche immergersi in una cultura che non è la propria e operare in essa. Solo
quando saremo convinti che la nostra cultura non è perfetta, ma altrettanto
“povera” (e altrettanto “ricca” come le altre), potremo incontrare altre culture
e mentalità con un atteggiamento di stima.
Vivere la “povertà redentiva” vuol dire percorrere la via della kenosis,
dell’abbassamento, della spogliazione, come ha fatto il Redentore. È stato il
suo amore appassionato a indurlo a tanto. Allo stesso modo, un amore
appassionato al Redentore e agli uomini ci porterà a questa kenosis. Ci
troveremo così spesso di nuovo a fianco dei “perdenti”, a incontrare
opposizione e a rinunciare a qualsiasi forma di considerazione.
CELIBATO,
CASTITÀ, VERGINITÀ
Il celibato trova la sua ragione d’essere e la sua motivazione nel suo
orientamento al regno di Dio. Possiamo anche dire: il celibato è motivato e
trova il suo riferimento nella Redenzione. Un celibato scelto per tutta la vita
richiede pertanto di purificare le nostre motivazioni attraverso un processo di
conversione affinché esso sia veramente un segno del nostro amore appassionato
a Dio e alle sue creature, la molla, come diceva sant’Alfonso, di ogni
annuncio, di ogni agire veramente redentivo.
Castità
La castità non riguarda solo la sessualità umana. Consiste anche, per
esempio, nel rispettare la dignità dell’altro, nel non aver vergogna di
accettare i propri limiti del pudore e di rispettarli. Vuol dire anche
rispettare la persona dell’altro e la sua volontà. Nel Vangelo, in alcuni
passaggi, si dice che Gesù chiedeva alle persone bisognose: “Che vuoi che io ti
faccia?” (cf. Mc 10,51) Questa domanda indica come Gesù avesse rispetto dei
poveri e dei bisognosi in quanto persone, come creature amate da Dio, dotate di
una loro volontà. La castità in questo senso costituisce un aspetto decisivo
della nostra missione nel senso che significa non umiliare i poveri quando
ricevono un aiuto. Essi non devono subire violenza nella loro volontà quando
chiedono un aiuto e quindi non devono essere posti sotto tutela. In effetti
anche Dio ha attuato così la sua opera di Redenzione in Gesù Cristo: egli non
ci fa violenza, al contrario, ci mette in grado di stare in piedi e di
diventare suoi collaboratori, “di amare insieme con lui”...
Verginità
La vergine è un simbolo di speranza e di attesa. Essa sa che la sua vita
trova il suo compimento solo attraverso un altro, lo sposo. In quanto persone
vergini, viviamo nella convinzione che c’è qualcuno che viene, il quale porterà
a compimento la nostra vita. Nel nostro impegno per gli altri non siamo noi a
portare loro una liberazione assoluta, ma è il nostro Dio, in Gesù Cristo, che
attuerà la Redenzione definitiva. Questa convinzione ci consente di saper
attendere, di avere pazienza ed essere aperti a lui e alla sua azione
redentrice. Essa ci aiuterà nei momenti di insuccesso e di frustrazione. Ci
impedirà anche di pensare di essere indispensabili.
I “nemici” della verginità sono la rassegnazione, la mancanza di speranza,
la noia della vita, il tedio, la paura della morte e l’innamoramento di sé. La
verginità non resta aggrappata alle delusioni, non impiega le sue energie
all’indietro, nel passato, ma si protende verso il futuro. Vale quindi anche
per noi persone che vivono “verginalmente”: «La nostra visione non è ristretta
al presente... Dio fa nuove tutte le cose e noi siamo chiamati a lavorare
insieme con lui tenendo lo sguardo rivolto verso i cieli nuovi e le terre nuove
promessi da Cristo. Le persone vergini sono in grado di scoprire già come
presenti i segni nascosti del regno di Dio. La verginità come atteggiamento di
speranza e di attesa ci consente di muoverci con fiducia verso un futuro
sconosciuto.
Su questo cammino tuttavia corriamo dei rischi. Le cose materiali, il
lavoro e il successo possono renderci “sazi” e darci un falso senso di
pienezza. Ma solo colui che “ha fame”, come una vergine, può tendere a qualcosa
di meglio: volgere lo sguardo verso qualcosa di più grande. Solo questa
“visione” permette anche di annunciare la redenzione ai poveri e agli
emarginati».
Obbedienza
Obbedienza vuol dire molto di più che aderire ai superiori e alle loro
decisioni o vivere una vita di comunità ordinata. In effetti, nella vita
quotidiana a volte perdiamo il senso di una obbedienza più profonda. È perciò
importante vedere in che modo essa è posta al centro della nostra vita
spirituale, della Redenzione.
Lo scopo specifico dell’obbedienza religiosa, anche nelle sue forme
concrete, consiste nel trovare e compiere la volontà di Dio, sia come singoli
sia come comunità. Secondo 1 Tim 2,4, è volontà di Dio che “tutti gli uomini
siano salvi”. In quanto persone che hanno fatto voto di obbedienza, noi
cerchiamo questa volontà di Dio e siamo pronti ad attuarla anche quando ci
costa. In forza dell’obbedienza vogliamo donare la nostra vita per una
Redenzione in abbondanza.
Il Salvatore è il nostro unico “Signore”. È l’unico degno di un’obbedienza
senza restrizioni, poiché ciò che egli vuole, soltanto e unicamente, è donare
“la vita in pienezza” (Gv 10,10). Noi siamo perciò chiamati a fare di tutto per
conoscere la sua volontà. Egli, il Redentore, ci libererà da ogni ansia. In
questo modo avremo anche la forza, senza preoccuparci eccessivamente di noi
stessi, di protestare contro l’oppressione e di lottare contro l’ingiustizia,
quando ciò è necessario, nella luce del Vangelo e dell’annuncio della
Redenzione. «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo
grido a causa dei suoi sorveglianti» (Es 3,7). Con queste parole Dio si fa conoscere
a Mosè nel roveto ardente. Chi ode questo Dio che ascolta il grido del suo
popolo, chi è obbediente non potrà ignorare il grido dei poveri e dei
diseredati di oggi.
È interessante sapere che l’Antico Testamento non ha alcun termine per dire
“obbedienza”, ma usa parole che contengono sempre due elementi: “udire” e di
conseguenza “agire”. Esse costituiscono in definitiva un tutt’uno. Si può
addirittura affermare che il primo “obbediente” in assoluto è Dio: egli è colui
che sente e orienta la sua opera verso ciò che ode. Per noi, posti al suo
servizio, obbedienza significa perciò sentire e volgere la nostra azione verso
ciò che udiamo e percepiamo. Dobbiamo sentire “le grida silenziose” e i
“desideri inespressi” della gente per la loro liberazione e una vita più piena.
Dobbiamo ascoltare il grido di redenzione che risuona nell’abbandono e nella
frustrazione degli emarginati e degli esclusi.
Ma per agire realmente in maniera redentiva dobbiamo avere anche una
adeguata conoscenza ed esperienza del mondo. Perciò è necessario coltivare
fiduciosamente il dialogo con il mondo così da imparare da esso ed essere
attrezzati a servire gli uomini.
Obbedienza vuol dire infine mettere a servizio della missione della
congregazione tutte le nostre capacità e i nostri doni. C’è il pericolo infatti
di tenere nascosti i talenti o di riservarli soltanto per i propri interessi.
Il servizio nella sequela del Redentore il quale per amore ha dato tutto per
raggiungere l’uomo e chiamarlo all’amore richiede che anche noi sul suo esempio
abbiamo a dare tutto.
I tre voti, conclude sr. Anneliese, indicano che tutto ciò che noi
facciamo, le strutture e i regolamenti sono a servizio di queste altre
dimensioni. Se si vuole che questi aiuti esterni raggiungano il loro scopo e
cooperino a modo loro a creare un “ambiente redentivo” è necessario di tanto in
tanto compiere delle verifiche ed eventualmente mettere mano anche a un
rinnovamento. I consigli evangelici non sono quindi delle semplici regole da
seguire, ma una forma e una cultura di vita mediante la quale “continuiamo
l’esempio del nostro Redentore Gesù Cristo”.
1 Anneliese Herzig, «Das Beispiel unseres Erlösers Jesus
Christus weiterführen», in Ordens Korrespondenz 3 (2007).