IN ASCOLTO DEI GIOVANI
UN FUTURO MENO STERILE
Come intuire i nuovi
sentieri di Dio? È l’interrogativo che si pongono oggi molti giovani religiosi.
Le loro obiezioni alla situazione esistente, se lasciano intravedere la fatica
della ricerca, offrono anche intuizioni che aprono nuovi orizzonti di speranza.
Lo spunto per questa riflessione non è stata una lettera ma il fatto di
essermi incontrato con un gruppo di giovani religiosi/e di sette diversi
istituti, che a partire dall’amicizia nata tra loro in altre occasioni, si sono
dati appuntamento per riflettere alla pari su alcuni temi che li toccano da
vicino «dato che questo – hanno detto – non è più possibile nelle province di
ognuno, a motivo della debolezza numerica di chi per età, idee e voglia di
compromettersi, ricerchi vie d’uscita alla non facile situazione».
Non propongo un resoconto ma riflessioni su alcune consapevolezze, speranze,
interrogativi e soprattutto possibili linee di impegno di coloro per i quali il
futuro è sentito “maggiormente proprio”. Le prime constatazioni – nelle parole
dei convenuti – sono che «in questi cinquant’anni, in ambito ecclesiale,
eccetto che dalla vita religiosa, sono sorte da ogni parte nuove proposte di
vita discepolare capaci di incarnare il Vangelo nella vita reale e non soltanto
nelle parole... eppure la vita religiosa ha dalla sua parte persone libere e
votate a un progetto di vita che si direbbe al meglio in quanto a principi e a
storia millenaria di santi»; «… ricca di passato ma povera di prospettive per
il peso della propria inerzia ricondotta a sistema …si dice che il futuro sia
riposto in minoranze creative… ma il guaio è che lo credono solo le minoranze»;
«noi siamo minoranze? minoranza è quando c’è un rapporto, ad esempio, di tre a
dieci; se il rapporto è di tre a cento è solo residualità», «quanto detto ci
riempie di sofferenza da impotenza, che è pari allo scarto tra l’attualità dei
valori evangelici e l’incapacità della vita religiosa oggi, a esprimerli
secondo categorie convincenti»; «…ciononostante crediamo possibile un futuro
meno sterile anche perché stimolati da vari documenti “alti” della Chiesa che
invitano a «esplorare vie nuove per attuare il Vangelo nella storia» (VC 84);
per il fatto che «la storia della vita consacrata testimonia modalità
differenti di vivere l’unica missione» (Vita fraterna in comunità 10); dunque
«si potrà avere storicamente una ulteriore varietà di forme» (VC 3); anzi le
persone consacrate «sono obbligate a cercare nuove forme» (Ripartire da Cristo
12).
DALLA CRISI SE NE
ESCE SOLO IN AVANTI
A partire da queste affermazioni – che sono il riconoscimento da parte
della Chiesa della relatività storica di ogni forma – si deduce che dalla crisi
se ne esce solo in avanti; conseguentemente «crediamo sia urgente aiutarci a
individuare e attuare, sulla linea del possibile più che del perfetto, modi
d’essere fedeli al valore trasmessoci, ma con modalità nuove con cui esso possa
essere vissuto»; «in particolare il punto da cui partire è riflettere sulla
pensabile realizzazione concreta di una comunità evangelica con rapporti
realmente di tipo familiare»; «trasparente annuncio di un nuovo tipo di società
fraterna ed egualitaria»; «entro cui si tenda all’essere traduzione della
comunione prima di essere una entità giuridica»; «una fraternità in cui sia
data la preferenza al cammino di fede piuttosto che alla routine della
osservanza»; «comunità in cui se si parla di desiderio di forme di socialità
nuova non si sia rimandati ai tanti documenti, dichiarazioni, teorie… di questo
siamo saturi… ci sarà il motivo per cui ciò che si proclama non è quello che si
vive?». Attualmente nelle comunità – è stato inoltre detto – «non ci sono
contestazioni profonde e non ci sono rigidità frontali», «frutto di maggiore
comprensione o di affaticamento?».
È vero che nella comunità sono spariti molti conflitti, ma forse perché non
vi sono più ragioni chiare e definite che si confrontano, ma una nebulosa di
sentimenti e risentimenti che non permette di comprendere il senso della
contrapposizione rendendola opaca. In altre parole, i significati di fondo che
razionalizzano il conflitto (il perché) scompaiono, ma il conflitto rimane.
Probabilmente ci si sta abituando a dire comunità anche se scarseggiano le
comunicazioni reali e allora ci si appaga di strumenti esteriori di comunione.
Ma la sensibilità attuale non si accontenta del valore strumentale della
comunità. Il progetto religioso «deve delinearsi su un tessuto di pienezza
umana, su un’esistenza carica di una certa gioia di vivere. Una gioia che sa
soffrire, una gioia matura, adulta e senza leggerezze. Allora le rotture
appaiono in una luce positiva e rinviano a una libertà, non a una nuova cattività,
quella della tristezza, della serietà dalle sopracciglia sempre aggrottate, del
vuoto di spontaneità, della riservatezza puritana dei sentimenti. … Ciò senza
niente di artificiale o di adolescente. Una felicità solida, coraggiosamente
acquisita, senza infiorettature, la felicità che consiste nel sentire e nel
manifestare che quel che si vive ne vale la pena e permette di essere
pienamente uomo e donna».1
È POSSIBILE
OFFRIRE NUOVI SEGNI?
Altra riflessione è stata data alla domanda: in quali spazi della vita e
della cultura di oggi è possibile offrire segni nuovi? È stato risposto: «lo
scopo delle scelte apostoliche proprie di ogni carisma, oltre al “servizio”
devono rispondere alla domanda di cristianità, investendo sul kerygma anziché,
soltanto, sulla conservazione della religiosità»; «… molte delle nostre
attività sono risposte adatte a un tempo in cui la gente era carente di beni di
cui vivere (sapere, salute, educazione), oggi la gente, e in particolare il
giovane, è carente più che altro del perché vivere»; «siamo richiesti di
portarci a essere fermento, che comporta l’esserci negli spazi nel dinamismo
della vita ecclesiale»; «il futuro è in esperienze che siano un intreccio fra
ecclesiologia e vita consacrata»; «…e attività apostoliche fatte insieme,
complementariamente tra istituti diversi». Qui i vari apporti si sono fatti
narrazione di esperienze innovatrici sulla linea dell’auto-mutuo-aiuto che
stanno dando frutti. In effetti sono varie le esperienze in vari paesi d’Europa
ma più ancora in America latina espresse collaborativamente tra istituti con
carisma simile: anch’io ho incontrato tali esperienze e ho riportato una buona
impressione riassumibile nell’espressione di varie sorelle che dicevano: non
abbiamo nostalgia dell’operare precedente; da queste forme non ritorneremmo
indietro anche se inizialmente indotte dalla necessità ora siamo spinte
dall’efficacia di esse.
CON LE SOLE NORME
NON SI VA AVANTI
Circa la consapevolezza della situazione bisogna ammettere che i/le giovani
sono coscienti d’essere in un tempo in cui i punti di contatto tra la cultura
attuale e le forme storiche di vita religiosa sono molto pochi e questo li
spinge a sottoporre a esame varie forme di vita e molti presupposti culturali,
senza nulla togliere al merito delle generazioni precedenti per aver
contribuito a costruire “una grande storia”. In verità in questo momento con le
sole norme e consuetudini quasi sacralizzate, provenienti da mondi arcaici non
si va da nessuna parte. Già molti anni fa K. Rahner diceva: «Il futuro della
Chiesa non può essere pianificato attraverso l’applicazione di principi
generali riconosciuti». La novità non viene più legittimata ricorrendo
unicamente alle origini o alle tradizioni. Cos’è mancato e che cosa manca oggi
per tradurre in mandato la sfida attuale? In grembo ai sette istituti di cui si
parla, in questi ultimi sei anni, sono sorte e accettate nella loro valenza
innovativa tre sole esperienze. Altre due sono state messe in attesa, da parte
dei rispettivi Consigli che pur condividendone i contenuti e modalità, hanno
invitato a soprassedere per far maturare i tempi, il progetto e l’insieme
dell’istituto.
Il termine maturare può istintivamente rimandare a ciò che un tempo Esopo
ha scritto «Una volpe affamata vide dell’uva che pendeva da un pergolato e
tentò d’afferrarla. Ma non ci riuscì. Non è ancora matura, disse allora, e se
ne andò. Così anche fra gli uomini, c’è chi non riuscendo, per incapacità, a
raggiungere il suo intento, ne dà la colpa alle circostanze». La favola mette in
luce che sotto il termine immatura talvolta si possono nascondere ostacoli
mentali o la mancanza di coraggio di spiccare il salto, preferendo ancorare i
piedi a terreni conosciuti. E se invece ci fosse qualcuno che quel salto
saprebbe e vorrebbe farlo?
PREOCCUPAZIONI
E INTERROGATIVI
Il motivo poi dell’incontrarsi tra giovani alza il velo su una situazione
carica di preoccupazione e di interrogativi. Per prima cosa la progressiva
riduzione numerica dei giovani: i/le presenti erano 14 su 20, che sono il totale
dei professi tra i 25 e 38 anni in questi sette istituti del nord che
complessivamente contano circa 660 membri, con età media prossima ai settanta.
Vale a dire che ci sono circa 3 giovani per provincia religiosa il cui
territorio va da una a nove regioni. Se poi in ordine alla progettualità si
sottraggono gli «acclimatati» – così hanno detto – ne rimangono circa 2,5.
Questo sta a dire che il dialogo progettuale trova sempre meno spazi, non
perché manchino strumenti canonici (capitoli; conferenze interprovinciali o
altro), ma perché questi possono soltanto mettere in luce degli indizi ma sono
impotenti nell’impiantarli non potendo disporre di persone capaci per età e
voglia di nuove evenienze.
Dalla impossibilità di incontrarsi tra confratelli della stessa provincia è
nata la scelta di appuntamenti tra giovani di carismi diversi che stanno a
indicare il bisogno – che è di tutti – di sviluppare risposte di significato
per la propria vita attraverso relazioni significative. Ciò risponde anche al
bisogno di essere riconosciuti: non ci può essere benessere se non vi è
riconoscimento in senso soggettivo e sociale: se non mi riconoscono gli altri,
tanto meno mi sentirò riconosciuto. Ora, più di un tempo, il luogo in cui si
sperimenta un notevole legame sono i gruppi di riflessione e di condivisione; è
il microcosmo sociale di elaborazione di un progetto, di uno stile di vita, il
luogo dove le persone riescono a percepirsi appartenenti a uno stesso insieme
ideale; qui riescono a farsi strada nuove tracce di senso perché c’è maggiore
libertà da ogni sorta di discorso a priori e dalla enfatizzazione del concetto
di tradizione.
FRA TRADIZIONE
E TRADIZIONI AGGIUNTE
La parola tradizione ricorrente di quando in quando, a un certo momento ha
dato la stura a vari, vivaci interventi: «intendiamoci – disse una sorella – la
tradizione è quella che ci ha fatto scegliere un dato carisma, ma oggi le
tradizioni aggiunte potrebbero anche essere origine di crisi di vocazioni per
il fatto che troppe storicizzazioni si sono introdotte nella tradizione,
appesantendola. Mi sembra la storia – ha continuato – di quel guru che aveva un
gatto, il quale disturbava durante le cerimonie. Allora incaricò un discepolo
di legare il gatto prima di ogni incontro. Poi il guru morì e si continuò a
legare il gatto. In seguito anche il gatto morì e si andò a comperare un altro
gatto da legare prima dei riti».
Fedeltà alla tradizione significa invece saper integrare il nuovo in modo
da realizzare un processo in cui sia possibile essere un altro rimanendo se
stessi, accettando che la vita religiosa si incammini verso nuove sintesi, come
avviene per l’umanità. Infatti è vero che una certa idea di identità
tradizionale è un mito: la nostra identità è fatta di memoria e di oblio; più
che nel passato va cercata nel suo costante divenire, è un lavoro di
costruzione sempre aperto alla cultura. Oggi non siamo ciò che erano gli
italiani settant’anni fa o cento e non siamo ciò che sarà l’italiano medio tra
cinquant’anni. L’identità della tradizione è la somma di molteplici identità
“accomodate” dalle esperienze e dalle istanze di gruppo, raggiunte nel corso
dello sviluppo. Oltre a questo oggi la fatica maggiore per ogni istituto è
quella di credere che non è possibile costruire nulla se non si fa spazio alla
cosa che si vuole costruire. Fare spazio significa de-struere ciò che occupava
quel posto fino a quel momento: non c’è creatività che non passi attraverso una
avveduta destruttività. All’interno della forma antica costruita con l’accumulo
di cose fatte, di consuetudini chiamate tradizioni non c’è spazio per altro
ancora.
Cozza Rino csj
1 J.M. Tillard, Davanti a Dio e per il mondo, 441.