RIFLESSIONI PSICOLOGICHE (2)

QUANDO UNO CI RIPENSA

 

Come aiutare una persona in crisi a essere più vera con se stessa e a operare scelte autentiche? Vengono qui suggeriti alcuni spunti operativi affinché l’individuo possa raggiungere una sufficiente maturità e padronanza di sé.

 

Una prima condizione fondamentale per la persona in crisi è la volontà – e la capacità – di sapersi ascoltare con accettazione, riconoscendo chiaramente ciò che sente e prova dentro di sé, quasi un permettere a se stessa di essere ciò che è. L’essere aperti alla realtà – compresa naturalmente la realtà che siamo noi stessi –, l’essere disposti a conoscerla e ad accettarla rappresenta sempre un presupposto basilare per la salute psichica e la possibilità di scelte autentiche nella vita. È l’atteggiamento di “libertà esperienziale”, per cui i bisogni, le emozioni e i sentimenti che sono in noi vengono chiaramente riconosciuti e coscientizzati, senza inibizioni e difese interiori. La maturazione personale è sempre frutto di sintesi, di integrazione e quando certi bisogni o emozioni non vengono integrati nel dinamismo globale della personalità (intesa come una totalità strutturata di bisogni, emozioni, motivazioni, in un’unità presieduta dall’io) nella prosecuzione di determinati fini, allora non si può parlare di comportamenti maturi e le scelte di vita rischiano fortemente di non essere autentiche.

Una persona che dicesse a se stessa, più o meno consapevolmente: “se fossi una religiosa virtuosa non dovrei provare queste difficoltà, non dovrei sentire certi desideri o avere certi pensieri...; e poi, se dovessi dire apertamente quello che sento, chissà come mi giudicherebbero...; a questo punto della mia vita è anche inutile soffermarsi a considerare certi problemi...”, si inibisce la percezione dei propri bisogni e sentimenti, si nega la ricerca della verità che rende liberi.

Val la pena sottolineare, comunque, che questo sforzo di fare la verità può non essere facile: esso suppone sicurezza emotiva, capacità introspettiva, volontà di perseverare con pazienza e sopportare la sofferenza della possibile ansia (scopre la verità chi è capace di “portarla”).

In rapporto a quanto appena richiamato, appare chiaro che normalmente il dialogo e il confronto con una persona che sappia ascoltare e capire – una guida spirituale, lo psicologo, una persona amica ricca di esperienza... – è molto importante, se non indispensabile. Confrontarsi con una guida costringe in qualche modo a riflettere più obiettivamente su di sé e diventa più difficile “barare al gioco”, cercare alibi o scorciatoie.

Richiamata l’importanza di una guida, non si deve comunque mai dimenticare che, anche nei momenti di crisi, la responsabilità per la propria crescita è sempre della persona. Certe carenze nella formazione possono essere motivo anche permanente di difficoltà nella vita, ma non possono costituire degli alibi né è realistico pensare che i nostri problemi scomparirebbero se dovessero mutare certe circostanze della nostra vita (se non ci fosse quel determinato superiore, se ci venisse assegnato quel determinato ruolo, se si potesse cambiare di comunità...). Infatti, i sentimenti che una persona prova non sono determinati dalla realtà, ma da come ella vede, sente e interpreta la realtà stessa.

 

ALLA LUCE

DELLA FEDE

 

Per affrontare adeguatamente la crisi è pure necessario che la persona raccolga e tenga presenti tutti i dati della propria situazione attuale e li valuti alla luce della fede, in quanto, come è stato precedentemente ricordato, si dà per scontato che la persona consacrata si ponga il problema della scelta di vita sempre come persona credente.

Ad esempio, un religioso di 35-40 anni si rende conto che la sua scelta di consacrarsi a Dio non è stata basata su motivazioni autentiche: è giusto e saggio indurlo semplicemente a lasciare il suo impegno di consacrazione? Se ci si rifà al significato che ha la vocazione, sembra di no. La vocazione, infatti, è un ideale di sé colto nella fede e realizzato in una situazione concreta; è una forma di esistenza e di “presenza” al mondo. Essa è qualcosa di dinamico, non qualcosa che si può avere o non avere; è un processo vitale che accompagna tutta la nostra vita. La vocazione implica porsi di fronte a una situazione con lucidità, in qualsiasi momento della vita. Quel religioso, dunque, dovrebbe dire a se stesso: “ora mi trovo in questa determinata situazione, ci sono tutti quei problemi che sto cercando di individuare con chiarezza, sento determinati bisogni, ho determinate responsabilità verso la comunità (la Chiesa, le persone che si sono affidate a me...), sono un religioso (anche questo è uno dei dati della situazione attuale!...). Tutto ciò mi impedisce di mettermi a decidere come se fossi ancora all’epoca dell’entrata nella vita religiosa, e quindi come se nella mia vita non fosse capitato niente”. Sarebbe, infatti, una soluzione irrealistica: il riconoscere che allora si è proceduto a una scelta sbagliata non giustifica che oggi si proceda a una scelta che sarebbe semplicemente una reazione a un fatto passato e che potrebbe facilmente essere a sua volta un’altra scelta sbagliata.

Questo modo di affrontare il problema può togliere molta di quella angoscia che prende la persona quando si rende conto di aver agito in base a motivazioni inconsce e non autentiche; inoltre l’aiuta a superare un atteggiamento di tipo infantile che consiste nello scaricare sul passato la responsabilità e le difficoltà delle scelte di oggi. Si è, infatti, chiamati a decidere oggi, con tutti i dati della situazione attuale da un punto di vista umano e soprannaturale, come se fosse la prima volta: la responsabilità di tale momento non può essere tolta da nessuno, la chiarezza decisionale di oggi non è la stessa che si è avuto in passato (quando magari si è fatto meglio che si è potuto).

 

GLI SBOCCHI

POSSIBILI

 

Più precisa è la lettura e la diagnosi della realtà, quindi più è chiara e lucida l’analisi delle cause che possono aver portato alla crisi, più è facile individuare linee concrete di impegno e i passi da compiere. In definitiva, gli sbocchi possibili sono sostanzialmente due: o si decide di continuare nel cammino di consacrazione che si è intrapreso oppure si decide di fare una scelta diversa.

Nel primo caso si tratterà, a volte, di coltivare con maggiore cura e assiduità la propria vita spirituale (se si vuole che una persona consacrata sia contenta di essere tale è necessario che la sua relazione personale con Cristo sia intensa anche dal punto di vista affettivo) o di accogliere con libertà e convinzione una determinata obbedienza o di troncare una relazione ambigua o di riscoprire il significato biblico-teologico della consacrazione nutrendo il proprio spirito con letture adeguate ecc.

Nel secondo caso, la persona, collocandosi sempre nella prospettiva di voler compiere la volontà di Dio nella sua vita e di rispettare le norme che la Chiesa prevede in questi casi, deve essere disposta ad affrontare responsabilmente le fatiche che una scelta diversa di vita può comportare (ricerca di nuovi adattamenti, impatto con l’ambiente circostante, problemi economici..), senza complessi e senza recriminazioni.

È importante in ogni caso che la persona prenda coscienza della necessità di arrivare a prendere, entro ragionevoli limiti di tempo, una decisione definitiva e si adoperi per uscire da uno stato di incertezza la quale, se non viene affrontata con volontà e determinazione, rischia di diventare una crisi strisciante che è negativa sia per il soggetto interessato che per la comunità. Se è cosa negativa decidersi in modo precipitoso e superficiale, è altrettanto pericoloso rimandare continuamente il momento di una decisione definitiva: la situazione va guardata in faccia con realismo e sincerità, ma dopo un certo periodo di tempo (valutato soprattutto in base alla necessità di aver ben chiari tutti i dati del problema e di pervenire a una valutazione pacata e realistica di essi) è doveroso porre delle scadenze alla decisione, consapevoli della fatica che può comportare il superare inerzie, paure, diffidenze, resistenze dell’ambiente. Ognuno di noi nella vita finisce generalmente con il trovarsi là dove, almeno un po’, lui stesso ha voluto: ognuno cerchi, dunque, in tutta sincerità di fare ciò che ritiene più idoneo per sé e più opportuno per gli altri di fronte ai quali ha una responsabilità, accettando se occorre qualche sacrificio, disposto a rispondere di quello che fa o accetta, come di quello che rifiuta. Se si sceglie di continuare nel cammino che si è intrapreso, conviene impegnarvisi con decisione sapendo che non serve lamentarsi o recriminare; se, invece, si ritiene in coscienza di non poter continuare in una scelta fatta a suo tempo, allora è segno di serietà e senso di responsabilità fare una scelta diversa, senza sottrarsi alle conseguenze che essa comporta.

 

L’AMBIENTE

COMUNITARIO

 

Se finora è stata sottolineata la responsabilità che compete alla persona stessa nell’affrontare i momenti di crisi, ciò non deve far dimenticare che anche l’ambiente comunitario – e i superiori in particolare – possono svolgere un ruolo importante nel favorire il superamento del momento di crisi. In concreto, ciò può significare diverse cose. Ad esempio:

– coltivare quegli atteggiamenti che possono aiutare la persona ed evitare invece quelli che possono accrescerne le difficoltà. Appartengono ai primi l’atteggiamento di accoglienza, di ascolto empatico, di vicinanza e sostegno affettivo; appartengono ai secondi l’atteggiamento di critica e giudizio, l’atteggiamento di evitamento, la tendenza a dare consigli o a consolare e a tranquillizzare, l’ansia e la preoccupazione anche esagerata per chi è in crisi (cosa che, normalmente, è rivelatrice di qualche problema o difficoltà della persona stessa che esprime questi sentimenti);

– essere disponibili a fornire, nei limiti del possibile, tutte quelle facilitazioni (incontri con esperti, possibilità di fare una esperienza particolare, aiuti economici, qualche deroga alle norme comuni...) che, nel rispetto dei diritti della comunità e delle norme comuni, possono aiutare la persona ad affrontare positivamente il momento di crisi;

– da parte di chi esercita l’autorità, in particolare, sapersi porre non come chi esercita burocraticamente un ruolo, ma come colui che ha veramente a cuore il bene delle persone e mira a responsabilizzarle. Si tratta di avere contemporaneamente attenzione e riguardo sia ai bisogni delle persone singole che a quelli dell’istituto: ciò significa, ad esempio, che sarebbe poco rispettoso esercitare sottili ricatti nei confronti di chi vuole ripensare la scelta fatta (“la congregazione ti ha dato un’istruzione, una laurea...; ha fatto tutto il possibile per accontentarti...”), così come lasciare che un membro della comunità, a motivo delle difficoltà che sta vivendo, continui oltre un ragionevole limite di tempo a non dare alla comunità quel contributo che potrebbe normalmente offrire. Non si può non segnalare, a questo riguardo, la grave responsabilità (anche perché si possono creare situazioni di scandalo) di qualche superiore che permette che la crisi strisciante di un membro della comunità si trascini all’infinito, senza adottare gli interventi necessari perché il soggetto arrivi a prendere una decisione definitiva e ad agire poi di conseguenza.

La riflessione che precede ha considerato la situazione di crisi essenzialmente come un fatto soggettivo della persona che ne è direttamente coinvolta. In realtà, dato che “nessun uomo è un’isola”, la sua situazione provoca anche, tanto o poco, qualche contraccolpo in coloro che vivono accanto a lei (comunità, istituto, superiori, parrocchia). Le reazioni possono essere assai diverse: disagio, irritazione, preoccupazione, ansia, senso di colpa, delusione; non si può escludere, in qualche (raro) caso, anche una segreta contentezza o senso di rivalsa (“forse è arrivato il momento che ce ne liberiamo!..., che se ne vada una buona volta per la sua strada!...”; “chissà che smacco per i superiori, che gli hanno sempre spianato la strada e portato in palma di mano!...”).

È naturale che tutti questi sentimenti possano condizionare le reazioni delle persone nei confronti di chi vive il momento difficile; è bene, dunque, che ciascuno ne sia consapevole, per tenerli sotto ragionevole controllo e non esserne condizionato più di tanto. Ciò vale, soprattutto, quando i sentimenti si manifestano con forte intensità (ad esempio: un senso di preoccupazione e di ansia molto intensi, una intensa delusione e rabbia nel vedere frustrati tutti gli sforzi per aiutare la persona in crisi); in questi casi conviene che la persona interessata concentri, almeno un momento, l’attenzione su di sé e si chieda quale significato essi hanno per lei, che cosa le metacomunicano: potrebbe arrivare a fare qualche scoperta interessante...

In definitiva, stando così le cose, la situazione di crisi vissuta da un confratello/una consorella interpella un po’ tutti e a ciascuno è chiesto di vivere il momento con atteggiamento di profonda umiltà, rispetto, comprensione, adorazione dei misteriosi disegni di Dio – “nelle cui mani sono i nostri giorni” (Sal 31,16).

 

Aldo Basso