CREDERE, VIVERE, DONARE

MISSIONE SCAMBIO DI DONI

 

La missione, come noi oggi la intendiamo, è uno scambio di doni; scambio di vita in una reciprocità vitale di esperienze vissute, di possibilità di fede. Alla base stanno “reciprocità” e dialogo nello scambio con dei partner, sia qui da noi, sia nel sud del mondo. Dare vuol dire anche ricevere.

 

In un tempo come il nostro di silenzio religioso, di aggressiva globalizzazione e di emarginazione dei deboli è ora di parlare del Dio della vita, che si volge ai poveri e di proporre in maniera nuova, ossia di introdurre negli “aeropaghi” della società mondiale, la notizia della verità e del carattere liberatore del Vangelo. Missione vuol dire quindi globalizzazione della buona notizia del valore e della dignità di tutti senza distinzione, invito alla liberazione e alla speranza.

In una situazione del genere cosa vuol dire allora essere chiesa missionaria, vivere una spiritualità missionaria? Se lo è chiesto p. Hermann Schalück, da vari anni impegnato nella organizzazione tedesca Missio, di Aquisgrana, parlando nell’ottobre dello scorso anno a una giornata di studio, a Vienna, sul tema L’orientamento missionario del nostro lavoro.

A suo parere vuol dire anzitutto invitare la gente a riflettere, a porsi certe domande di fondo su che cosa dà significato alla loro vita, su che cosa per essa è importante oppure no. Ad esempio: in che cosa credi? Per che cosa vivi? In una specie di inchiesta fatta dalla Missio, scrive p. Hermann, è risultato che ci sono tante persone desiderose che si parli loro di Dio e della fede. A volte sembra che aspettino solo un cenno.

Vivere la spiritualità missionaria vuol dire anche superare i tabù sociali e culturali, significa volgere uno sguardo attento verso ogni forma di vita, verso la creazione e ogni situazione di rottura e di minaccia. Vuol dire saper cogliere l’azione di Dio in altre persone di diversa esperienza di vita e anche di altre culture e religioni e apprezzarle quali possibili strumenti di arricchimento della propria esperienza di fede e di vita; vuol dire incontrare l’altra cultura, e dire che il nostro Dio è un Dio della vita; è uno che non abbatte, ma libera e rialza tutti coloro che sono prostrati e oppressi, un Dio che invita tutti senza distinzione alla mensa della vita. Una comunità missionaria vive dell’esperienza di un Dio che in Gesù Cristo vuole far conoscere a tutti la “via retta” e donare ad essi “vita in pienezza”.

 

CHI DÀ È ANCHE

COLUI CHE RICEVE

 

Oggi essere chiesa missionaria, prosegue p. Schalück, significa comprendere il mondo e la creazione come un intreccio di vita che proviene dalla mano di Dio. La consapevolezza della missio Dei in Gesù Cristo e nel suo Spirito permette di avere uno sguardo solidale verso “l’altro”, vicino e lontano che sia. Rende consapevoli della responsabilità reciproca verso tutti, crea solidarietà interpersonale, ma allaccia e rafforza anche una rete di intrecci sul piano mondiale. In una parola: la fede genera solidarietà. La fede nel Dio della vita crea spazi di vita per una comune responsabilità.

La missione, come noi oggi la intendiamo, è uno scambio di doni. Uno scambio di vita in una reciprocità vitale, di esperienze vissute, di possibilità di fede. La missione perciò non può essere descritta soltanto attraverso concetti di collaborazione allo sviluppo, come “aiuto ad aiutare se stessi”. Nella nostra concezione della missione è tempo quindi di dare risalto al problema che sta al cuore della fede, della Chiesa e della missione, quello della “reciprocità” e del dialogo nello scambio con dei partner, sia qui da noi, sia nel sud del mondo. Anche noi siamo e rimaniamo prima di tutto ricevitori, “ascoltatori della Parola” (K. Rahner), persone a cui costantemente viene rivolta la parola di Dio dalla Scrittura e dalla bocca degli altri, in particolare dei poveri, siamo invitati alla conversione. Soltanto a partire da questo presupposto siamo in grado di trasmettere la buona novella, siamo “credibili” e autorizzati a farlo. Il “dare” doni materiali (e anche la loro raccolta), per quanto sia necessario, nel contesto della spiritualità missionaria non è un fatto occasionale. È piuttosto il riconoscimento di un debito di riconoscenza. I cristiani di fronte a Dio che ci rende partecipi della “pienezza della vita” in Cristo (Gv 10,10) sono anche sempre persone che ricevono. Quello che donano, la testimonianza della loro speranza, come anche il sostegno materiale, è un donare ad altri ciò che essi stessi “senza merito” hanno ricevuto. A questo proposito occorre ricordare la parola di sant’Ambrogio il quale ha detto che nella condivisione dei beni viene restituito ai poveri quello che in definitiva appartiene ad essi. Chi dona e offre l’aiuto con questi sentimenti, si lascia egli stesso aiutare, riceve molto non solo riconoscenza e soddisfazione personale. Nell’esperienza del dono della Chiesa universale è implicito qualcosa di più profondo, qualcosa della grazia di una libertà più reale profonda: Dio è più grande del nostro cuore, di ogni grettezza e di una fede presa alla lettera. Farne l’esperienza allarga l’orizzonte, toglie l’ansia e libera da una visione ristretta della fede. Il suo Spirito riempie la terra. Egli suscita forme di espressione, melodie, teologie, forme di comunità e di ministeri come vuole. La nostra esperienza europea di Chiesa e di fede non può essere la norma assoluta per gli altri. Noi siamo parte di un tutto più ampio. E abbiamo sicuramente ancora molto da imparare.

 

UN’IMPRONTA MISSIONARIA

AL NOSTRO LAVORO

 

Il termine “missione” ha avuto una storia molto variabile. È rimasta la convinzione circa il modo di intendere la missione elaborata dalla fondatrice francese dell’Opera della propagazione della fede, Pauline Marie Jaricot, nata a Lione nel 1799. A suo parere, essere cattolici non voleva dire limitarsi a una determinata missione, ma pensare e agire in maniera universale, “sostenere le missioni di ambedue i mondi”, dell’oriente e dell’occidente, del nord e del sud. Oggi noi non parliamo più di missioni, ma dell’unica missione di Dio, che si è resa concreta con l’invio di Gesù in questo mondo, di cui la Chiesa è partecipe: la cattolicità della Chiesa assume forma nella sua missione universale che supera ogni confine – sia linguistico, culturale, religioso o di altra natura – poiché la salvezza è per tutti gli uomini senza eccezione. Si tratta di portare la buona novella di un Dio che si è impegnato con i poveri al di là dei confini della Chiesa fino a quelli del mondo.

Missione, invio, è un termine basilare della Bibbia, della Chiesa, della teologia e della spiritualità. Non il fine, bensì la ragione per cui esiste la Chiesa. Perciò non possiamo rinunciare ad essa nonostante tutte le difficoltà storicamente condizionate. Al contrario. Nell’attuale contesto mondiale, caratterizzato dal pluralismo religioso, dall’indifferenza e non ultimo dalle esperienze di violenza motivate religiosamente, dobbiamo formarci una nuova mentalità. Dobbiamo, come scrive il teologo americano Roberto Schreiter, «assumere il linguaggio dell’universale, per valorizzare tutto ciò che tende al locale e creare istituzioni che proteggano la vita umana e l’intera comunità umana». Questa esigenza universale non ha niente a che fare con una pretesa di dominio e di arroganza cristiana. Piuttosto contiene un’insofferenza di fronte a ogni ingiustizia e ogni irrinunciabile affermazione del significato universale della dignità e dei diritti umani, fondati sulla immagine e somiglianza di Dio dell’uomo.

Sono convinto che nella sollecitudine e corresponsabilità per la irradiazione missionaria delle nostre chiese e comunità cristiane e la trasmissione della fede in contesti molto complessi abbiamo bisogno oggi soprattutto di dialogo, inteso come incontro libero da ogni angustia, a partire dal nostro atteggiamento di vita, nutrito dalla fede. In definitiva per i cristiani si tratta di creare molti piccoli e grandi spazi di incontro, di comprensione, di riconciliazione, di interazione e di dialogo. Ma non vi sarebbe niente di più falso che ricavarne un invito al livellamento e all’indifferenza, a partire da una concezione dialogica della fede e della chiesa missionaria.

Incontrare l’altro nel dialogo vuol dire anzitutto confermare la propria identità ed essere consapevoli del proprio limite. Dialogo vuol dire soprattutto confessare che Dio è più grande di ogni discorso che lo riguarda, di ogni culto e ogni religione. Infine, elemento essenziale della spiritualità del dialogo, è l’ammissione che i fini parziali da raggiungere – superamento della povertà, affermazione della giustizia e della pace – e il comune fine globale escatologico, quello di vedere il mondo e la creazione riconciliata in Cristo, stanno al di là delle nostre possibilità e possono essere promossi solo attraverso una responsabilità comune.

Oggi noi parliamo di missione in un contesto in cui i nostri contemporanei considerano come fattori positivi le principali conquiste dell’illuminismo e della secolarizzazione – come per esempio la libertà, il diritto all’individualità, il primato della coscienza personale, la corresponsabilità nelle decisioni in politica e nell’economia, l’autodecisione del soggetto etico e morale. Un compito centrale della missione e della pastorale lo vedo nell’impegno a comprendere che il desiderio di libertà e di autonomia e il conseguente pluralismo aprono al cristianesimo del futuro molte possibilità positive. “Missione” come hanno affermato i vescovi tedeschi nella loro riflessione sulla missione universale «significa condividere con gli altri il Vangelo e aprirli alla vera libertà che è un segno caratteristico dell’immagine e somiglianza impressa da Dio nell’uomo. Proprio questo è il miglior servizio della Chiesa al mondo» (Allen Völkern sein Heil).

 

MISSIONE

E SALVEZZA GLOBALE

 

Non possiamo continuare a scomporre il nostro servizio missionario in un compito spirituale e in un compito socio-politico. La missione esige e promuove la salvezza globale di tutti gli uomini. Vive a partire dalla consapevolezza della missione salvifica di Dio in questo mondo, il quale si è schierato dalla parte dei poveri, prima che gli uomini e i cristiani lo potessero fare. Perciò il nostro servizio allo sviluppo del mondo è sempre anche un annuncio del nostro Dio, dell’amore shalom, della salvezza e guarigione. È, direttamente o indirettamente, sempre anche la buona notizia del Dio della vita, della libertà, giustizia e riconciliazione di tutti. Gesù è venuto ad annunciare la buona novella ai poveri e a liberare i prigionieri, a guarire i malati, a proclamare un anno di grazia del Signore (cf. Lc 4). L’attività della Chiesa, in quanto attività missionaria, deve essere orientata in tutte le sue manifestazioni «a superare le esclusioni e a rendere tutti partecipi della vita sociale».

Una chiesa missionaria deve, in maniera opportuna o importuna, farsi voce delle vittime della povertà e della violenza ed essere avvocata dei loro interessi. Di fronte ai numerosi segni di morte che tendono a soffocare e svilire l’umano nella sua profonda identità ed essenziale totalità è suo compito proteggere la vita, difenderla e promuoverla.

Allo stesso modo, l’agire umano che non voglia perdere la base di “umanità” non deve limitarsi solo alle finalità puramente intramondane, sociali e politiche. Deve sempre tenere viva l’attenzione e l’apertura verso il “centro del mistero”, di cui tutti noi viviamo (Karl Rahner).

Orientare in senso missionario la propria azione significa anche creare nel nostro mondo spazi di esperienza di Dio e insieme smascherare le “false divinità” del nostro tempo. Si tratta di un compito-profetico-critico. Ma esso potrà portare frutti duraturi solo se i cristiani che operano al servizio della missione e dell’evangelizzazione vivono una feconda spiritualità missionaria. L’irradiazione missionaria e la “fecondità” presuppongono uno “sguardo” contemplativo profondo che metta in rapporto con Dio e con Gesù Cristo, con la creazione e gli uomini. Lo sguardo fa vedere ciò che mi fa realmente vivere in maniera significativa, ciò che merita di essere il centro e il fondamento della mia vita.

Esercitarsi un una spiritualità missionaria significa perciò anche imparare a tacere e cercare di capire ciò che lo Spirito oggi dice alla sua Chiesa attraverso gli altri, non ultimo attraverso le altre religioni. Soltanto in questo atteggiamento può avere successo l’inculturazione del messaggio cristiano ed essere fruttuosa. La lettura dei segni dei tempi potrà riuscire solo in questo modo. L’evangelizzazione diventerà allora un costante tentativo di rimanere in armonia con il piano globale di salvezza di Dio che supera ogni religione e teologia.

Sono convinto di questo: non potrà esserci nessun rinnovamento nella Chiesa e anche in campo sociale che non abbia il suo inizio nella contemplazione. In definitiva si tratta, nell’interrogarci circa l’orientamento missionario del nostro lavoro, di vedere se noi, anche nel nostro oggi così difficile e nell’ignoto domani, siamo in grado di conservare, promuovere e ulteriormente sviluppare una “cultura di vita spirituale-sacramentale”. Ci sono delle forze salutari e correnti di vita che consentono di tenere viva realisticamente una visione di un mondo migliore e più giusto. Per i cristiani ciò significa interpretare in base alla parola della Scrittura i segni dei tempi, celebrare la memoria del Risorto, fino a quando egli ritornerà e, nell’interpretazione dei segni dei tempi, sapere anche che forse verrà “un tempo nuovo con segni nuovi”. “Il nuovo viene. Non lo vedete?”.