DOPO LA MARCIA DEI MONACI

LA BIRMANIA NON RESTI SOLA

 

Più che mai il popolo della Birmania ha bisogno che parliamo di quanto sta accadendo nel paese. Il silenzio significherebbe un’ulteriore condanna al suo tragico destino. Fino a quando la coscienza mondiale dovrà tollerare queste dittature spietate e pronte a tutto pur di tenere in mano il potere?

 

Ci voleva la marea zafferano dei monaci buddisti riversata sulle strade della Birmania (dal 18 giugno 1989 denominata ufficialmente dal regime militare Myanmar) per risvegliare l’intorpidita coscienza del mondo sulla tragedia che questo paese sta attraversando, oppresso da una dittatura militare che a definire brutale e tirannica dà solo una pallida idea di ciò che laggiù avviene. Cosa chiedevano questi monaci buddisti – nel paese ce ne sono circa 300 mila – scendendo nelle piazze? Libertà e democrazia, per i circa 50 milioni di abitanti del loro paese, valori completamente cancellati da quando nel 1974 i militari hanno occupato il potere instaurando un regime oggi guidato dal presidente il generale Than Shwe e dal primo ministro il Thein Sein. La maggior parte dei ministeri sono capeggiati da ufficiali dell’esercito, ad eccezione del ministero della sanità, dell’educazione e del lavoro, che sono in mano a civili.1

In poco più di tre decenni questo governo militare, del tutto illegittimo e corrotto, legato tra l’altro a filo doppio con il sistema della droga e del riciclaggio del denaro sporco, è riuscito a ridurre un paese che negli anni ’50 era classificato tra i più ricchi del sud-est asiatico in uno dei dieci più poveri del mondo, con una mortalità infantile pari al 99%, una durata della vita media di 55 anni.

 

UNA CATENA

DI ORRORI

 

Non è la prima volta che il popolo birmano cerca di scrollarsi di dosso il regime militare che lo opprime. Si ricordano, per esempio, le dimostrazioni del 1988 soffocate anche allora con le armi, con la differenza che quelle erano state promosse dagli studenti, mentre queste hanno avuto come protagonisti i monaci buddisti. Nel 1990 si erano tenute le elezioni politiche nel paese, vinte a stragrande maggioranza dalla National League for Democracy, movimento guidato dal premio Nobel Aung San Suu Kyi, ma il regime rifiutò di accettarne il risultato, mise in prigione i vincitori, soffocando ogni speranza di cambiamento. Da quel momento la repressione si fece ancor più dura. Nel 1996, scrive la fonte tedesca Missio – organismo che si occupa della missione della Chiesa nel mondo, con sede ad Acquisgrana – ha avuto inizio l’esodo forzato della popolazione dello stato Shan. Circa 300 mila persone sono state cacciate dai loro villaggi che sono stati rasi al suolo, il loro bestiame abbattuto e distrutti i raccolti e i boschi. Più ancora, i terreni sono stati disseminati di mine per impedire per molto tempo il ritorno degli abitanti. Nel 2000 gli esodi forzati furono ulteriormente incrementati, accompagnati da spaventosi massacri delle popolazioni dei villaggi.

Drammatica anche la descrizione che fornisce Benedict Rogers, un attivista inglese per la difesa dei diritti umani, autore anche del libro A Land Without Evil: stopping the genocide of Burma’s Karen people, il quale nel settimanale cattolico inglese Tablet del 6 ottobre scorso scrive: «Dal 1996 oltre 3.000 villaggi nella sola zona orientale della Birmania sono stati distrutti dall’esercito. Oltre un milione di persone vivono da profughi all’interno del paese, perché costrette ad abbandonare i loro villaggi sotto la minaccia dei fucili. Vivono nella giungla senza sufficiente nutrimento, senza medicine o riparo. Circa 70 mila bambini sono stati presi dalla strade e costretti a unirsi all’esercito. Più di 1200 prigionieri politici continuano a languire in carcere...». Tra questi figura anche Aung San Suu Kui, messa agli arresti domiciliari nel 1989, senza tenere nessun conto che nel 1991 sia stata insignita del Premio Nobel per la pace. Fu anzi nuovamente condannata agli arresti domiciliari nel settembre del 2000 fino al maggio del 2002. Ora si trova nuovamente agli arresti.

Rogers scrive di aver viaggiato in Birmania o ai suoi confini 18 volte. L’ultimo viaggio l’ha effettuato solo poche settimana fa e descrive così l’esperienza vissuta. «Sono giunto ai confini dell’India con la Birmania per incontrare la gente fuggita dallo stato Chin. Numerose sono i racconti di lavori forzati e di stupri. Ho incontrato un ragazzo che, all’età di tre anni, era stato messo in prigione in una cella umida, buia, senza finestre con il pavimento di terra e privato di cibo e di acqua per otto ore semplicemente perché suo padre era un attivista dell’opposizione. Ho incontrato un uomo il cui figlio è ora paralizzato in seguito alle torture inflittegli dai soldati. Ne ho incontrato un altro che era stato appeso a testa in giù per una notte intera, frustato e sballottato contro una colonna. Ho potuto ascoltare dei racconti quanto mai crudeli riguardanti le prigioni della Birmania. Prigionieri costretti a mangiare feci e topi; prigionieri su cui era stato posto un giogo come ai buoi e costretti ad arare i campi, e legati con stretti ceppi di ferro. In una prigione dello stato di Chin i carcerati erano stati incoraggiati dalle loro guardie a fuggire. Ma era una trappola. Immediatamente presi, per dare un esempio agli altri furono sospesi sopra un fuoco ardente, ripetutamente frustati e quindi immersi in un tubo di acqua salata. Nessuno sopravisse».

Ma la catena degli orrori ha ora aggiunto un nuovo spaventoso capitolo ai misfatti fin qui commessi con la repressione delle manifestazione dei monaci, sulla quale i militari non hanno esitato a sparare. Leggiamo su l’Avvenire del 9 ottobre: «Non pensate che le uccisioni si siano fermate – si legge in un appello uscito dal paese. Le atrocità del regime proseguono in località isolate, lontane dagli occhi indiscreti e dai mass media, nella notte e tra solide mura. Ci sono tuttavia testimonianze e fotografie di come, dopo aver torturato gente comune e studenti, le unità investigative e gli uomini dei servizi segreti li carichino su camion nel mezzo della notte e li portino su strade isolate. Qui a volte i prigionieri ancora vivi vengono gettati sulla strada e allineati per poi far passare su di essi autocisterne. I corpi, resi irriconoscibili, sono gettati in fosse scavate dagli stessi aguzzini, che così fanno scomparire gli oppositori una volta per tutte...Fonti locali, riprese da Asia-News, confermano l’esistenza di un forno crematorio alla periferia di Yangon, dove i militarti gettano, oltre ai cadaveri degli oppositori, anche i detenuti feriti gravemente e arrestati durante le dimostrazioni antiregime di queste settimane...». Sottolinea il giornale: «siamo in presenza di un regime folle che ora mostra la sua faccia più bestiale e le sue atrocità peggiorano di giorno in giorno».

 

LA PROTESTA

DEI MONACI

 

È in questo clima che deve essere compresa la marcia di protesta dei monaci. Finora, secondo un immagine antiquata del buddismo, si pensava che questa religione costituisse una fuga dal mondo, per concentrarsi solo in se stessi, dimenticando ed escludendo qualsiasi impegno sociale. Ma la sollevazione dei monaci contro il regime di Rangoon ha dimostrato quanto questa immagine fosse falsa. Come ha osservato un servizio del Semig, a commento delle vicende attuali, «è evidente che quanto accade mostra esattamente il contrario; mostra che il radicamento nella dimensione interiore della preghiera e della meditazione può dare il coraggio di affrontare sistemi di potere dotati di una schiacciante superiorità materiale». Fa parte, del resto, della concezione stessa della vita propria del buddismo di interessarsi degli altri. Il monaco buddista, mentre rinuncia agli allettamenti del mondo, e in particolare a quelli dell’io, sa che la sua esistenza non esiste separata dagli altri, ma in interdipendenza con tutto ciò che vive e con tutta la realtà. Per questa ragione, tutto ciò che accade lo riguarda e chiama in causa la sua responsabilità. Perciò afferma: «Io sono chiamato al servizio degli altri, a donare me stesso agli altri, a prodigarmi per il bene di chi è inseparabile da me».

Al buddismo in Birmania – aderisce l’89% della popolazione. Si tratta della corrente Therevada, conosciuta anche come «Buddismo degli Anziani» o degli Sthavira (titolo onorifico per i monaci anziani.

Essa rappresenta nel paese una forza formidabile e può essere definita la “coscienza della nazione”. I monaci nella società birmana godono di altissima considerazione anche perché, oltre a esercitare una vera e propria leadership spirituale, si occupano del benessere sociale della popolazione. Le scuole monastiche svolgono un ruolo vitale nel colmare il vuoto educativo provocato dal regime, il quale, tra l’altro, spende più del 40% – secondo alcune fonti addirittura il 50% – del suo bilancio per finanziare l’esercito e riserva solo qualche spicciolo per individuo per provvedere all’istruzione e alla salute.

La giunta militare in passato ha usato la mano morbida contro i monaci, sapendo appunto di quanta considerazione essi godano presso la gente. Anzi ha cercato di strumentalizzarne la religione per opprimere le altre minoranze religiose, in particolare i cristiani e i musulmani, all’insegna di uno slogan che fa eco a quello di Hitler e dei nazisti: «Una razza, una lingua, una religione».

 

I CRISTIANI

DISCRIMINATI

 

Benedict Rogers, nell’articolo citato, scrive: il regime è xenofobo e nazionalista e ha come slogan: la razza birmana, la lingua birmana, la religione, che però è una forma distorta e pervertita di buddismo. Molti tra i Karen, Karenni, Chin e Kachin in particolare sono cristiani ed essi si trovano ad affrontare vari gradi di discriminazione, restrizione e persecuzione. Così come anche i musulmani Rohingya.

I cristiani Chin, per esempio, usavano innalzare delle croci sulle cime dei monti quale simbolo della loro fede, ma il regime li obbligò ad abbatterle e costruire al loro posto pagode buddiste. I militari hanno anche adescato bambini cristiani sottraendoli alle loro famiglie con la promessa di istruzione, e invece li hanno poi posti in monasteri buddisti per diventare novizi contro la loro volontà. Le chiese sono state distrutte e i cristiani obbligati a convertirsi. I soldati birmani sono spinti a sposare donne delle minoranze etniche, specialmente cristiane, per convertirle e diluire la loro etnicità. Se lo fanno, vengono promosse.

Anche se i cristiani possono esercitare liberamente il loro culto, è tuttavia impossibile costruire una nuova chiesa, restaurare o ampliarne una esistente, oppure tenere delle riunioni, eccetto il culto domenicale, Ai cristiani è negata anche la promozione nell’esercito al di là del rango di capitano ed essi sono discriminati anche nel servizio civile...

Le relazioni tra le comunità delle diverse religioni sono in genere buone ed esiste un’armonia tra la gente del paese. È il regime e l’uso scorretto della religione da parte del regime che fa problema. Recentemente, sottolinea Benedict Rogers, «è l’intero popolo birmano, di tutte le appartenenze etniche, a soffrire per mano di uno dei più brutali regimi del mondo».

I cristiani rappresentano complessivamente il 4% della popolazione, mentre i cattolici, in tutto sono poco più di 600 mila, ossia l’1,3% della popolazione. Tre sono seminari dove studiano circa 300 candidati al sacerdozio, un numero relativamente alto, al punto che la Chiesa non sarebbe in grado in questo momento di accoglierne di più, per mancanza di forze. Nei 20 ordini religiosi invece non si registrano più di 10 novizi all’anno.2

La collaborazione tra la chiesa cattolica e le altre comunità cristiane è particolarmente buona, soprattutto nel campo sociale. C’è per esempio una collaborazione nei progetti relativi alla sanità e nella lotta contro l’epidemia dell’Aids e nel campo della droga. Buoni sono anche i rapporti con i buddisti soprattutto sul piano diocesano e nella vita delle comunità.

 

MA DIETRO C’È

CHI HA DEGLI INTERESSI

 

Dopo questi ultimi avvenimenti, ci si domanda fino a quando il mondo potrà ancora tollerare queste dittature spietate. Purtroppo sarà difficile che le misure progettate dalle Nazioni Unite siano sufficienti per far cambiare linea alla giunta militare che governa il paese. Tanto più che dietro ad essa c’è una Cina, non solo interessata al petrolio della Birmania, ma timorosa anche che la sollevazione dei monaci buddisti finisca col “contagiare” i monaci buddisti del Tibet, paese sovrano e indipendente fino al 1950, governato dalla massima autorità religiosa del buddismo tibetano, il Dalai Lama, e poi invaso dal cosiddetto esercito di liberazione popolare facente capo alla Repubblica popolare cinese e dichiarato ufficialmente dal 1 settembre 1965 Regione Autonoma del Tibet. La regione conobbe durissime repressioni. Durante la cosiddetta Rivoluzione Culturale vennero uccisi circa 1,2 milioni di tibetani, 6.254 monasteri distrutti, circa 100.000 tibetani inviati nei campi di lavoro e deforestazione indiscriminata.

Anche l’altro gigante, l’India, ha i suoi interessi economici in Birmania ed è sceso a compromessi con il regime militare, se non altro per cercare di contrastare l’influenza cinese.

Probabilmente non sarà piaciuto molto ai governanti cinesi il messaggio che il Dalai Lama ha rivolto al popolo della Birmania in occasione dei recenti avvenimenti, che dice: «Dichiaro il mio sostegno e la mia solidarietà al recente pacifico movimento per la democrazia in Birmania. Sostengo interamente la sua richiesta di libertà e democrazia e colgo questa opportunità per fare appello alle persone che in tutto il mondo amano la libertà affinché sostengano tali movimenti nonviolenti. Desidero inoltre esprimere il mio sincero apprezzamento e la mia ammirazione per il grande numero di monaci buddisti che si battono per la democrazia e la pace in Birmania.

Come monaco buddista, faccio appello ai membri del regime militare che credono nel buddismo affinché agiscano in accordo con il sacro Dharma, nello spirito di compassione e di nonviolenza. Prego per il successo di questo pacifico movimento e perché presto sia liberata Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace».

C’è da augurarsi che dopo il grande clamore suscitato nell’opinione pubblica mondiale circa le vicende della Birmania, ora non torni il silenzio, come prima, poiché ciò significherebbe abbandonare il popolo birmano al suo destino, per di più in una condizione ancora più penosa e ulteriormente aggravata. Non crediamo, comunque, che la semplice “deplorazione” da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dell’ “uso della violenza contro dimostranti pacifici” messo in atto dal regime militare della Birmania e l’esortazione rivolta a tutte le parti interessate “a lavorare insieme per un ridimensionamento della situazione e per una soluzione pacifica” costituisca quel segnale forte che il mondo si attendeva. Con le semplici esortazioni e deplorazioni, in presenza di dittature, si va poco lontano.

A.D.

1Il paese è organizzato in sette Divisioni e sette Stati. Le Divisioni sono popolate prevalentemente da birmani, mentre gli Stati hanno particolari minoranze etniche (tra cui Shan e Karen). Gli Stati sono: Stato Rakhine, Stato Chin, Stato Kachin, Stato Shan, Stato Kayah, Stato Karen, Stato Mon; le Divisioni: Divisione di Sagaing, Divisione del Tenasserim Divisione dell’Irrawad­dy Divisione di Rangoon Divisione di Bago Divisione di Magway Divisione di Mandalay.

2I cattolici sono distribuiti in 14 diocesi, 296 parrocchie; 17 sono i vescovi e 540 i sacerdoti diocesani. A questi vanno aggiunti anche 34 sacerdoti religiosi, 105 fratelli, 1.488 suore, 477 laici missionari e 3.224 catechisti.