INTERROGATIVI SULLA MISSIONE

L’AD GENTES IN TRANSIZIONE

 

Che cosa sta diventando la missione ad gentes? L’autore se lo chiede dopo avere analizzato l’evoluzione che la missione ha avuto lungo i secoli fino agli attuali cambiamenti in atto nella Chiesa e nel mondo e i nuovi interrogativi posti alla teologia.1

 

L’enciclica del papa Giovanni Paolo II Redemptoris missio, su “la permanente validità del mandato missionario della chiesa” si propone di rilanciare il fervore missionario nella chiesa che in questi anni sembra essere diminuito. Per questo Giovanni Paolo II ripropone il fondamento teologico della missione, quale è stato rielaborato nel concilio Vaticano II2 e presenta gli ambiti e gli orizzonti della missione insieme con i mezzi per realizzarla.

Sotto l’intera enciclica si percepisce una preoccupazione che qua e là emerge in modo esplicito: nella chiesa si è indebolita la motivazione per l’impegno missionario e questo ha indebolito lo “slancio missionario della chiesa verso i non cristiani” (2b). In realtà il problema è più complesso e non è bastata neppure l’enciclica Redemptoris missio caratterizzata dalla fede e dall’entusiasmo di papa Giovanni Paolo II a rinnovare l’impegno missionario: se è vero che «la spinta missionaria è sempre stata segno di vitalità, come la sua diminuzione è segno di una crisi di fede» (2b), la chiesa tuttavia sta ancora cercando di situare se stessa in questo tempo di rapidi cambiamenti che è il nostro.

 

LA TRANSIZIONE CONTINUA

QUALE FUTURO?

 

All’origine della crisi della missione degli anni 1960 e 1970 non ci sono solo problemi teologici: la decolonizzazione e il nazionalismo, l’accesso alla maturità ecclesiale di numerosi territori di missione, insieme a un drastico calo del personale missionario (che ha colpito le chiese del nord del mondo) ha fatto cambiare rapidamente il contesto della missione facendo nascere molti interrogativi sull’urgenza e la ragione della missione, interrogativi che in qualche caso hanno portato a chiedere e proporre una moratoria sulla missione, specialmente in Africa. Nel campo cattolico il simposio del SEDOS3 del 1981 ha segnato una svolta affermando che non era lo scopo della missione a fare problema, ma la maniera di vivere la missione. Si trattava quindi di un problema degli agenti della missione ad gentes e non delle idee teologiche sulla missione. E ciononostante la crisi continuava, tanto che una diecina d’anni dopo il papa ha scritto Redemptoris missio. La missione era entrata in una transizione che, a tutt’oggi, non è ancora conclusa. È opportuno perciò rivenire sul problema: a che punto è la missione ad gentes, e dove sta andando? Come sarà la missione nel futuro?

Nessuno di noi può predire il futuro, ma sulla base di ciò che vediamo ora, possiamo formulare, con prudenza e riflessione, delle ipotesi su ciò che potrebbe essere il futuro della missione e soprattutto sulle sfide che essa pone agli istituti e agli organismi che intendono impegnarsi in essa. Per farlo dobbiamo vedere anzitutto da dove viene il problema. In primo luogo esamineremo i fattori che hanno creato questo clima d’incertezza, poi le condizioni che hanno contribuito a formare la missione ad gentes che conosciamo, per concludere con delle previsioni sulla direzione che prenderà la missione ad gentes.

 

ALLE RADICI

DEL PROBLEMA

 

Per cominciare questa ricerca, cerchiamo di vedere le ragioni dell’attuale transizione. La missione ad gentes è passata attraverso tre tipi di cambiamenti che si riferiscono alla teologia della missione, al mondo dove la missione si svolge, agli agenti della missione. Vediamoli uno a uno.

 

Cambiamenti nella teologia della missione

 

Negli ultimi cinquanta anni ci sono stati nella teologia dei cambiamenti di prospettiva significativi che hanno avuto delle ripercussioni sulla concezione della missione ad gentes. Questi cambiamenti, in un modo o nell’altro, hanno la loro origine nella riflessione teologica del concilio Vaticano II. Va detto subito che questi cambiamenti vengono sì dal concilio e con il concilio, ma non sono sempre la legittima deduzione di ciò che il Vaticano II intendeva dire. Lo hanno fatto notare sia Paolo VI che Giovanni Paolo II, e lo ha ripetuto anche Benedetto XVI che chiede di rileggere con maggior attenzione e oggettività i testi conciliari. Tre serie di mutamenti meritano la nostra attenzione.

 

a) Tutta la chiesa è soggetto della missione ad gentes e non solo i missionari

 

specialisti della missione. La missione è quindi diventata un’attività normale e ordinaria di ogni chiesa particolare e non è più un’attività speciale tra gli altri impegni della chiesa. La base teologica di questa “normalità” sta nelle missioni trinitarie verso il mondo (missio Dei). Ogni chiesa è “sacramento universale di salvezza” e la missione è quindi lo scopo stesso dell’esistenza della chiesa. Questa affermazione teologica, in se stessa, non pone problemi. Il problema non sta a livello della teologia, ma al livello della sua comprensione e della strategia missionaria: se tutta la chiesa è per la missione, qual è allora il ruolo specifico degli istituti missionari e dei missionari inviati ad gentes? Le risposte dovrebbero venire da un’ecclesiologia di comunione che riconosce la pluralità dei carismi. Non siamo ancora arrivati là e resta il fatto che molti missionari ad gentes si sono sentiti demotivati e la vocazione ad gentes non attira più i giovani come una volta.

 

b) Annuncio e dialogo. Il secondo cambiamento riguarda le forme della missione evangelizzatrice con l’introduzione del dialogo accanto al primo annunzio. Redemptoris missio tenta di stabilire una relazione tra questi due aspetti della missione e il documento Dialogo e annuncio pubblicato nel 1991 insieme dalla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e dal pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, pochi mesi dopo Redemptoris missio, vuole ulteriormente precisare questo rapporto in vista della pratica del dialogo interreligioso che nel frattempo ha preso piede nella prassi ecclesiale. È chiaro che la missione comporta l’annuncio del Vangelo a quelli che non l’hanno ancora sentito, ma l’importanza data al dialogo dal decreto Nostra ætate ha messo sul tappeto nuove questioni. Testimoniare rispetto per le altre tradizioni religiose e aprire con esse un dialogo invece di fare una difesa apologetica per provarne gli errori, rende problematica la missione. Teoricamente le relazioni tra annunzio e dialogo si possono spiegare, ma la pratica finisce per privilegiare l’uno rispetto all’altro con oggettivi pericoli di indifferentismo o di imposizione (e quasi proselitismo). La domanda allora è la seguente: se il dialogo rispettoso e giusto è veramente un valore e un fine da perseguire, ha ancora un posto il primo annuncio, tradizionalmente inteso, e a fortiori la missione ad gentes?

 

c) Il terzo cambiamento teologico deriva dal precedente. Il rispetto accordato alle altre religioni presuppone che si riconosca in esse un qualche valore salvifico. La presenza di elementi di santità e di verità è riconosciuta da Lumen gentium, Nostra ætate e Ad gentes. In ciascuno di questi documenti questo elemento salvifico è stato presentato e affermato, ma senza dare una ragiona teologica. Certo nel 1965 era troppo presto per farlo! Ogni volta i documenti citati affermano l’azione salvifica completa e unica di Gesù Cristo e i valori presenti nelle religioni non cristiane, ma come è possibile collegare queste due verità, la salvezza nelle altre religioni e la salvezza nel Cristo? Che valore diamo alle religioni non cristiane? Questo è ciò di cui si dibatte ormai da alcuni decenni (a partire dall’incontro di Assisi del 1986) e il dibattito non è ancora giunto alla sua conclusione. Senz’altro si tratta di un tema delicato, ma fondamentale per il futuro della missione ad gentes. Si deve chiarire necessariamente come si deve comprendere la salvezza in Cristo di fronte alle religioni del mondo. Infatti, se si può ottenere da Dio la salvezza all’interno delle altre religioni, qual è allora lo scopo dell’attività missionaria cristiana? Per quale ragione andare ad gentes? Secondo queste idee teologiche, è giusto (e fin anche legittimo) anche il semplice farlo?

Questi problemi, venuti tutti e tre dalla teologia della missione del Vaticano II, continuano a essere dibattuti, portando il Magistero a richiamare i principi della teologia conciliare (v. Dominus Jesus, agosto 2000). Sicuramente un giorno o l’altro si arriverà a una comprensione comune delle relazioni tra dialogo e annuncio e a una teologia cristiana del pluralismo religioso. Ma per ora la ricerca continua e le incertezze rimangono.

 

Cambiamenti nel mondo dove si fa la missione

 

Non sono solo i cambiamenti nel campo della teologia a seminare incertezze, anche quelli del mondo dove si svolge la missione ad gentes, contribuiscono a determinare la transizione della missione ad gentes. Ne accenniamo a due di loro.

 

1. Il primo di questi cambiamenti è l’emergenza della globalizzazione. Per quanto questo fenomeno assomigli all’espansione coloniale dell’Europa, la globalizzazione della fine del XX secolo, è differente per l’estensione, l’intensità dei legami che ha creato tra i popoli, la rapidità con cui l’informazione e i capitali circolano e per il suo impatto sulla cultura e sull’economia del mondo. Una prima cosa che sta cambiando a causa della globalizzazione (altre alla fine di questo esposto) è la nozione (oltre che l’importanza) di territorio e di stato-nazione. Grazie alla rete (web) informazione e capitali oggi attraversano senza passaporto le frontiere degli stati nazionali che, dal Trattato di Westfalia (1646) a oggi, hanno costituito la trama dell’economia politica. Oggi gli spostamenti e le migrazioni dei popoli, insieme con l’irruzione di una cultura globale all’interno delle comunità particolari, fa sì che una cultura coincida sempre meno con un dato territorio.

E anche se lo stato nazionale e il territorio culturale non spariranno mai del tutto, almeno per il momento, la loro importanza è molto ridimensionata. Che significato ha questo per una missione che si dice ad gentes, in un mondo che non è più nettamente diviso in gentes, in gruppi culturali e etnici? Gli istituti missionari ad gentes dovranno ridefinire i termini ad gentes e ad extra. Non si tratta più di lasciare la propria patria, ma di andare dagli altri, dai “diversi” cioè che non sono più soltanto in certi luoghi, ma che si possono trovare ovunque, anche nella propria città d’origine. Questo fa cambiare gli obiettivi della missione che non sono più né i territori di missione, né i popoli di missione e sposterà ovunque lo “scacchiere” delle missioni.

 

2. Un secondo fenomeno nuovo che si incontra nel mondo d’oggi è il radicalizzarsi dei conflitti, con forme di terrorismo internazionale e di scontri di civiltà e di interessi. Dalla “guerra fredda” tra est e ovest siamo passati alle molte guerre civili, al terrorismo internazionale sullo sfondo di un mondo di ingiustizie strutturali che non possono non interpellare la missione ad gentes. Che significato ha tutto questo per essa? Il mondo chiede oggi alla missione di assumere un ruolo di promotrice di comunione, in linea con la sua natura cattolica, di riconciliazione, di promozione di giustizia e di pace, pur rimanendo sempre nel suo ambito religioso. Chiede alla chiesa e alla missione di ritornare a casa sua dove si crescono le radici delle strutture di ingiustizia che si diramano nel mondo, per cercare di sradicarle. Spesso questo nuovo ruolo la porta a entrare in campi minati in cui deve essere pronta a dare la sua testimonianza evangelica che non è sempre per la fede, come nei tempi passati, ma per la carità e la solidarietà. Non è un caso che i martiri della missione in questi anni sono in continuo aumento.

Comunque si giudichino questi cambiamenti del mondo in cui si svolge la missione ad gentes, essi pongono delle sfide di particolare importanza per la missione, di cui bisogna tener conto quando ci si mette a progettarne il futuro.

 

Cambiamenti nei missionari

 

Dobbiamo infine vedere i cambiamenti nell’ambito dei missionari, gli agenti della missione, presbiteri, religiosi/e, e anche di quei laici/e volontari che si offrono alla missione per dei periodi e degli scopi limitati nel tempo. In questi ultimi trent’anni, gli istituti missionari, fondati nel secolo XIX e all’inizio del XX come società più o meno nazionali (divenute magari in seguito internazionali) per mandare missionari nel mondo, hanno visto crollare drasticamente il numero dei loro appartenenti, crescere l’età media, e diminuire il numero dei nuovi entrati. Che sarà di loro a medio e lungo termine? La speranza è riposta nei membri che provengono dalle ex-missioni ed entrano a prendere il posto dei loro evangelizzatori. Ormai la maggioranza dei nuovi vengono da queste regioni, mentre le risorse finanziarie che sostengono l’azione ad gentes vengono dai paesi che una volta inviavano il personale. Questa discrasia non finirà per condizionale lo sviluppo della missione ad gentes? Il fatto che questi nuovi missionari disporrà di mezzi più limitati dei loro predecessori non farà mutare la maniera di fare missione?

Ci sono altri due cambiamenti che gli istituti missionari ad gentes devono affrontare. In certe regioni dove hanno svolto la loro opera di evangelizzazione, i missionari si trovano ora integrati nella chiesa locale che hanno fondato, senza aver più un vero ruolo nella prima evangelizzazione. E per varie ragioni non riescono a tirarsi fuori da queste situazioni. Un secondo cambiamento è il sorgere in questi territori di nuovi istituti missionari ad gentes che sembrano fare la concorrenza agli istituti tradizionali e che entreranno nella missione. Quali saranno gli atteggiamenti e i punti di vista di questi missionari che vengono dalle regioni dell’Africa o della Corea del Sud? Certamente questi nuovi missionari, praticamente soli sul campo, adotteranno uno stile e delle priorità, non peggiori, ma certamente diversi da quelli dei loro predecessori. Sarà possibile un’intesa?

Tutti questi cambiamenti, nella teologia, nell’ambiente mondiale e negli istituti missionari, giocano un ruolo, non sempre immediatamente visibile, ma reale, nella maniera di formulare le questioni sulla attuale missione ad gentes e soprattutto nella maniera di fare progetti per quella di domani. Ritorneremo su questo punto nella terza parte.

 

L’INFLUSSO

DELLA SITUAZIONE STORICA

 

C’è un elemento della storia che ha contribuito – quasi senza essere percepito – a dare forma alla missione ad gentes nei due ultimi secoli, un elemento non nuovo, ma che merita di essere considerato nelle sue componenti e conseguenze, perché può dare qualche idea utile per la missione del futuro. Si tratta della colonizzazione.

Gli studiosi della storia della missione ad gentes sanno che l’impegno della chiesa nella missione ad gentes non è sempre stato presente. Dopo la prima espansione della fede cristiana nei primi secoli, si è atteso fino al tempo degli ordini mendicanti per riprendere la strada della missione ed è solo nel XVII-XIX secolo che il mandato missionario di Gesù (Mt 28, 18-19) ha rimesso in moto in modo irreversibile la missione.

Una seconda constatazione: raramente l’attività missionaria ha camminato da sola senza utilizzare le risorse della società civile dove è sorta, ma si è servita, secondo le epoche e i luoghi, delle infrastrutture esistenti. Già l’apostolo Paolo per i suoi viaggi usava la rete di comunicazioni stradali dell’impero romano. Non c’è quindi da scandalizzarci troppo se l’azione missionaria, ripresa in concomitanza con i viaggi degli europei fuori d’Europa alla fine del XV secolo, si sia legata ai piani di espansione della Spagna e del Portogallo prima e della Francia, dell’Olanda e dell’Inghilterra poi. Certo un altro discorso si vede fare per il metodo di trasmissione, a volte impositivo e prepotente, mutuato dalla colonia. Ma questo è un altro discorso.

 

L’impatto della colonizzazione

 

La storia comune della colonizzazione e della missione è stata raccontata sia

dagli avversari che dai difensori della missione e non è necessario rifarla qui. Vale però la pena di insistere sul fatto che i progetti espansionistici dell’Europa hanno fornito l’infrastruttura per una missione ad gentes organizzata e concertata. L’impero coloniale ha fornito non solo l’infrastruttura necessaria per il trasporto, la protezione e anche l’appoggio finanziario ai missionari, ma ha anche contribuito a organizzare la missione sia a casa che nei paesi di missione. Senza ridurre la missione ad gentes a un sottoprodotto della colonizzazione (sarebbe ingiusto oltre che semplicistico), si può affermare che oltre dall’impegno personale dei missionari, gli istituti missionari hanno tratto profitto dalle conoscenze e dallo stile del potere coloniale oltre che dalla retorica militare dei costruttori degli imperi coloniali. È vero che i missionari ad gentes sono stati spesso critici della colonizzazione e hanno difeso le popolazioni locali contro i coloni e possono vantarsi di aver salvato le culture locali mettendo per iscritto le lingue indigene parlate, quando la colonizzazione le indeboliva o distruggeva. Ma dalla colonizzazione hanno tratto anche indicazioni che possono essere istruttive per il nostro tempo. In particolare tre cose che la convergenza tra colonizzazione e missione ha creato e che sono sempre attuali.

– La convergenza di colonizzazione e missione ha prodotto l’associazione della nozione di missione ad gentes a quella di territorio. Questa configurazione geografica della missione è stata reale a partire dalla fondazione di Propaganda Fide a Roma (1622) consolidandosi poi nello jus commissionis che è durato fino al concilio. Lasciando il modello antico in cui si cercava di convertire il sovrano per battezzare il suo popolo, la missione ad gentes cominciò a pensarsi come la cristianizzazione di un territorio e un territorio veniva affidato ai diversi istituti missionari. Questo ha permesso di organizzare la missione in modo ordinato e programmato.

– La convergenza di colonizzazione e missione ha messo in moto il binomio evangelizzazione e promozione umana: con l’annunzio del Vangelo la missione ad gentes si proponeva di portare alle popolazioni anche l’educazione, le cure mediche e la formazione tecnica secondo il modello europeo. Oggi si tende a parlare piuttosto di giustizia sociale e di difesa dei diritti della persona umana, ma in entrambi i modelli, quello vecchio e quello attuale, l’evangelizzazione è pensata come un’infrastruttura sulla quale si appoggia un impegno di sviluppo sociale che corrisponde all’evangelizzazione strettamente intesa.

– La convergenza di colonizzazione e missione ha offerto alla relazione tra i missionari e le popolazioni delle immagini o metafore per parlare della missione: allora usava l’espressione “guadagnare le anime a Cristo”, “strapparle al dominio di Satana”, “estendere il regno della chiesa”. Erano espressioni ispirate al mondo militare che rispecchiavano quelle usate dai colonizzatori. Bisogna riconoscere che tali immagini o metafore hanno strutturato l’immaginario collettivo a proposito della missione ad gentes.

 

Quali lezioni dobbiamo trarne?

 

Da questa convergenza di colonizzazione e missione ci sono delle lezioni che anche oggi possono ancora aiutarci a meglio percepire e formulare l’avvenire della missione ad gentes? Eccone alcune che sembrano utili per la riflessione che stiamo facendo.

– Una delle caratteristiche degli aspetti geo-politici e macroeconomici del mondo attuale è la globalizzazione. Essa, pur differente dalla colonizzazione, presenta anche molte somiglianze con la creazione degli imperi coloniali, soprattutto del XIX-XX secolo. Non è un caso che essa si sia affermata proprio nel momento in cui si dissolvevano gli imperi coloniali. Una caratteristica del fenomeno della globalizzazione è la moltiplicazione degli impegni e la facilità degli spostamenti, relativamente rapidi e a buon mercato, che permette di progettare e portare a termine dei progetti ben identificati e precisi in un tempo limitato.

Questo toccherà anche lo stile della missione e dei missionari del futuro, i quali saranno richiesti dalle chiese particolari di offrire dei servizi precisi per dei progetti determinati, in coerenza con il carisma ad gentes, per tempi limitati e senza pesare sulla chiesa particolare con presenze massicce e permanenti come nel passato. Un altro apporto del mondo della globalizzazione alla missione è il volontariato per un periodo determinato in missione. Una volta i missionari partivano per sempre e i ritorni a casa erano rari. Oggi in un tempo in cui l’organizzazione economica dà per scontato che si cambi impiego parecchie volte nell’arco della vita, suggerisce un nuovo servizio missionario, limitato nel tempo, perché mirato su obiettivi limitati e tuttavia specifici, che possono essere però moltiplicati.

– Quanto l’epoca della colonia faceva pensare alla missione in termini di territorio, altrettanto la compressione dello spazio creata dalla globalizzazione potrebbe farci vedere in un altro modo la missione ad gentes oggi. Già si sta interpretando in modo nuovo l’ad extra intendendolo come ad altera, verso gli “altri”. Se l’ad gentes non è iniziato che con la colonizzazione nel sec. XVI-XVII, perché nel terzo millennio non sarebbe possibile pensare gli obiettivi della missione in modo diverso? In questo senso Redemptoris missio ha allargato gli orizzonti della missione a quegli areopaghi moderni che fino ad oggi non sono stati affrontati dalla missione, come le periferie urbane, il mondo giovanile, soprattutto delle megalopoli, segnato dalla disoccupazione e dalla non-cittadinanza, il mondo dei mezzi di comunicazione di massa, i campi di impegno sociale per la pace, lo sviluppo e la liberazione dei popoli, ma anche il mondo dei diritti umani, delle minoranze, della promozione della donna e la difesa del bambino, la salvaguardia del creato (n. 37).

– Quali saranno le nuove immagini o metafore che daranno forma all’idea della missione domani? Dopo le metafore d’espansione e di conquista militare che hanno segnato la missione nel tempo della colonizzazione, oggi dovrebbero nascerne altre, come quella dell’inserimento nel mondo alla maniera del lievito nella massa, della compagnia e dell’accompagnamento come cammino con i poveri, soprattutto del dialogo (specialmente il dialogo di vita) e della convivialità, della solidarietà e delle riconciliazione. Questi termini fanno già parte del linguaggio missionario e potrebbero diventare “paradigmi” per la missione, complessa e difficile, di questi prossimi anni.

 

QUALE AD GENTES

NEL TERZO MILLENNIO?

 

Giunti a questo punto del nostro cammino, possiamo formulare la domanda che lo ha messo in moto: quali saranno le sfide alla missione ad gentes nel terzo millennio?

Abbiamo già visto che il fenomeno che maggiormente determina i cambiamenti del mondo scoperti lungo il percorso è l’emergere della globalizzazione come nuovo ordine del mondo. Essa è un fenomeno che non dobbiamo demonizzare, anche se è profondamente ambivalente e fa violenza a una grande parte del mondo, particolarmente ai poveri. La globalizzazione, oltre ad essere un elemento inevitabile della nostra epoca, è portatrice di nuovi tipi di comunicazione e di relazioni, diffonde nozioni e metodiche che possono avviare una nuova e diversa sistemazione del mondo. Il papa Giovanni Paolo II nel messaggio per la giornata mondiale della pace del 1997 ha parlato giustamente di una “globalizzazione della solidarietà” e di una “globalizzazione che non emargina” come obiettivi da raggiungere in questo prossimo futuro.

Pur coscienti delle sofferenze che la globalizzazione infligge ai poveri, dobbiamo riconoscere che essa è un fenomeno mondiale con cui dobbiamo fare i conti. Tanto vale cercare di evangelizzarla! Il cristianesimo ha sempre sofferto nella ricerca di forme di convivenza con il mondo, fonte di tensioni, conflitti e compromessi difficili.

Ci sono alcune caratteristiche della globalizzazione attuale con cui dobbiamo fare i conti: il potere di omogeneizzazione per cui il mondo si trova compresso e allargato nello stesso tempo e sottoposto a un processo di livellamento, il potere di frammentazione che, in certi gruppi locali, sgretola gli equilibri sociali, provoca delle resistenze e accentua conflitti identitari, e infine il potere di unificazione del mondo. Come si possono mettere questi aspetti della globalizzazione in relazione con la missione ad gentes? Quali strategie vengono suggerite per la missione ad gentes?

 

a) Per far fronte da cristiani al fenomeno dell’omogeneizzazione provocata dall’inter-comunicazione, gli istituti missionari (e più ancora la chiesa) possono usare le loro risorse di organizzazioni transnazionali e non governative per avvicinare i popoli, renderli coscienti di quello che hanno in comune, provocarli alla solidarietà della famiglia umana e tessere dei legami di aiuto materiale e di sostegno morale. Con la loro maniera di vivere e di fare gli istituti missionari possono mostrare alle organizzazioni transnazionali, oggi sempre più numerose e invasive, che non è inevitabile diventare strutture oppressive, che si può coniugare le risorse umane e materiali per migliorare la vita di tutta l’umanità.

Possono essere un appello a utilizzare le risorse disponibili per raggiungere le gentes ora disperse attraverso il mondo, i migranti e i rifugiati, quelle popolazioni ghettizzate nelle periferie delle megalopoli dove per prima cosa perdono la loro identità e cultura. I missionari dovranno cercare il modo di salvarsi da un’omogeneizzazione che tende a cambiare la loro maniera di pensare, le scelte e le relazioni e di salvare le culture che vengono erose e spesso soppresse dalla cultura globale che si sta diffondendo nel mondo attraverso la rete web e i mezzi della comunicazione di massa oggi onnipotenti. L’impegno per l’inculturazione assumerà sempre più importanza nel futuro della missione non solo per un radicamento autentico della fede, ma anche per la sopravvivenza delle culture nel mondo. Così pure la missione dovrà contribuire a una vera localizzazione delle comunità cristiane, perché assumano il volto locale e nello stesso tempo siano il segno di una realtà comune e universale che le rende autenticamente chiese di Dio.

 

b) In secondo luogo, il fenomeno della frammentazione che accompagna quello della globalizzazione, sollecita la missione ad gentes a farsi carico delle conseguenze di questa frammentazione che modifica la cultura e l’identità delle persone. Come fare per resistere agli attacchi della globalizzazione? Come intervenire nel settore dei mass media senza perdere la capacità critica? Come aiutare i rifugiati a ritrovare una patria e una memoria guarita e riconciliata? Un aspetto del tutto nuovo della missione del futuro sarà il suo impegno per la riconciliazione. In questo mondo segnato da conflitti civili, identitari e religiosi, la missione non si deve sottrarre alla sfida della riconciliazione e della ricostruzione del tessuto sociale. La missione sarà sempre più chiamata a contribuire con i mezzi a sua disposizione a restaurare la dignità umana e guarire una società profondamente ferita, offrendo la pace che viene dalla verità, dalla giustizia e dal ricupero dei valori genuinamente umani, che sono quelli del regno di Dio.

 

c) In un mondo che attendevamo unificato dai processi di globalizzazione e dalla caduta dei muri che lo dividevano in “blocchi” e che invece mostra tutte le sue fratture di tipo sociale, economico, religioso, dove la violenza cieca del terrorismo internazionale, alimentato da forme di fondamentalismo, e le guerre innumerevoli stanno portando la rovina invece dello sviluppo e della

crescita, la missione dovrà usare tutti i mezzi lasciati a lei

dal suo Fondatore per “abbattere il muro dell’inimicizia che ci separa” (Ef 2,14), perché “tutti ci apparteniamo” e quindi o ci salveremo insieme o insieme periremo.

Per quello che riguarda l’attuale possibilità di vivere insieme che ci viene offerta dalla globalizzazione, la missione ad gentes e i missionari dovrebbero sviluppare tutto quello che ha riferimento alla cattolicità della chiesa. Anzitutto la missione non si riferirà più soltanto ai cosiddetti paesi di missione, essa sarà sempre più missione di tutta la chiesa e in tutta la chiesa, una missione che cerca e raccoglie tutto il bene che trova per metterlo in circolazione. I compartimenti stagni che hanno caratterizzato la missione del passato, anche recente, sono destinati a scomparire. La missione dovrà essere adattabile, pur nella chiarezza della sua identità cristiana, e si farà dialogo con tutti, soprattutto con le tradizioni religiose non cristiane, in vista di stabilire la pace sulla terra. Sarà davvero una missione universale per i suoi soggetti, destinatari e obiettivi, capace di adattamento come richiede l’attuale momento culturale (la liquidità, di Z. Baumann). Non sarà una missione che si propone di fare molte cose, ma di essere nel mondo un segno della missione che Dio stesso ha pensato, di quell’amore con cui lui ha amato e ama il mondo e per il quale ha donato il suo Figlio unigenito (cf. Gv 3,16).

 

Gabriele Ferrari s.x.

 

1 Conferenza per il Seminario vescovile di Mantova, 28-29 settembre 2007. Questo testo è una libera rielaborazione di un conferenza su «Le sfide attuali alla missione ad gentes» del p. Robert Schreiter CPPS, docente della CTU di Chicago, tenuta a Maryknoll (NY) il 1 maggio 2000 alla riunione dei superiori generali delle società di vita apostolica.

2 L’enciclica è stata scritta in occasione del 25° anniversario del decreto conciliare Ad gentes e è da questo documento che vengono molte (più d’un quarto!) delle citazioni dell’enciclica.

3 Servizio di documentazione e studi fondato a Roma subito dopo il concilio da parte degli istituti missionari impegnati nella missione ad gentes.