INCONTRO MONACI E MONACHE
VALLOMBROSANI
UN PRIMO PASSO PER CAMMINARE INSIEME
Dopo oltre tre secoli monaci e monache benedettini
vallombrosani si sono incontrati per riprendere un rapporto iniziato nel 1066 e
poi interrotto. Nella riscoperta della comune tradizione carismatica sono
emersi concreti percorsi di condivisione e riflessione.
Un primo passo per
riprendere un rapporto che da tre secoli le vicende storiche avevano interrotto
è stato compiuto dai monaci e dalle monache vallombrosani in occasione del
recente capitolo generale della congregazione che si è tenuto dal 19 al 29
giugno scorso.
A spingere a riprendere i
fili di una comunione vissuta in tempi lontani è stato non solo il numero
ridotto dei due rami, ma anche una rinnovata volontà di tornare allo spirito
delle origini, quando per vari secoli i due rami avevano camminato insieme; e
ciò è anche in armonia con gli attuali orientamenti della Chiesa.
Fondata nel 1036 da s.
Giovanni Gualberto, la congregazione vallombrosana vide già durante la vita del
fondatore la nascita di monasteri femminili che adottarono le costituzioni
della giovane riforma, sorta con l’intento di riportare i monaci a una
osservanza più stretta della Regola di san Benedetto. Per molti secoli le
monache furono affidate alla cura dei loro confratelli, i quali, del resto,
furono sempre particolarmente solleciti nei loro confronti, forse anche per la
venerata memoria della badessa Itta del monastero di S. Ellero, che donò a san
Giovanni Gualberto il terreno su cui sorge fino ad oggi l’abbazia.
Nel XVII secolo, quando
tutti i monasteri passarono sotto la diretta responsabilità del vescovo
diocesano, le monache vallombrosane cercarono di opporsi a tale cambiamento,
testimoniando così il forte legame con i monaci; dovettero però cedere di
fronte all’autorità ecclesiastica, in alcuni casi esercitata dai vescovi in
modo che oggi potremmo definire un po’ disinvolto. La rottura del legame
giuridico segnò anche la fine di ogni rapporto con i monaci e questo fu uno dei
fattori del crescente isolamento dei monasteri femminili.
Occorreva attendere la seconda
metà del XX secolo per cogliere i primi segni di cambiamento con la Sponsa
Christi di Pio XII (1950), che raccomandava la creazione delle federazioni di
monasteri, i quali così iniziano a uscire dall’isolamento secolare, e poi con
il concilio Vaticano II, a partire dal quale il rinnovamento ha coinvolto
sempre più le comunità femminili, anche se in alcuni casi con un po’ di
lentezza.
DALLA POVERTÀ
ALLA COMUNIONE
Dunque, dopo tre secoli
durante i quali non c’erano state relazioni “ufficiali”, l’abate Lorenzo Russo
volle riservare nel capitolo generale del 2001 una giornata all’incontro tra
monaci e monache, con l’intento di rinnovare la comunione vissuta in tempi
passati. Gli anni trascorsi dal 2001 a oggi, anche se non hanno prodotto
cambiamenti concreti, sono stati un tempo necessario perché maturasse negli uni
e nelle altre il desiderio di condividere l’esperienza che si sta facendo,
ognuno nelle diverse realtà di vita.
La giornata di
Vallombrosa dedicata a questo argomento è stata anche una occasione di incontro
tra le monache, che per lo storico isolamento e le diverse situazioni
giuridiche attuali, non avevano avuto in precedenza la possibilità di uno
scambio di idee e aspirazioni come in questa occasione.
“La povertà ci unisce”, è
stato detto. È inutile nascondersi la verità: quella che ci fa sentire più
vicini è la povertà numerica e la ricchezza di anni! La congregazione
vallombrosana conta 70 monaci e le comunità femminili sono costituite da 40
monache circa. Grazie alla riduzione del numero dei monaci e monache e dei
candidati, stiamo scoprendo come la nostra testimonianza evangelica sarebbe più
ricca e credibile se fondata sulla fede nel Signore Risorto e sull’agape
fraterna. Allora quello che ci unisce non è la mera povertà numerica, ma quella
particolare forma di indigenza che è l’amore, che ci fa scoprire come tutti e
ciascuno abbiamo bisogno degli altri per vivere.
Per poter pensare di
costruire un futuro insieme, occorre innanzitutto riscoprire le fondamenta
solide della tradizione comune, così si è iniziato riflettendo sul particolare
dono dello Spirito Santo, il cosiddetto “carisma”, che il Signore ha affidato a
Giovanni Gualberto. E proprio l’azione dello Spirito, come ossatura del ritorno
alla Regola Benedicti con una fedeltà e attenzione rinnovate nel momento in cui
Giovanni Gualberto inizia un novum institutum, è la prima peculiarità
individuata nella relazione introduttiva di P. Giuseppe Casetta, monaco
vallombrosano che nell’ambito del capitolo è stato eletto nuovo abate generale,
che ne dà una definizione dal sapore provocatorio: «con la Regola oltre la
Regola, dove quell’“oltre” sta a indicare la dimensione dello Spirito, perché –
come dice S. Paolo – “la lettera uccide, lo spirito dà vita”» (2Cor 3,6). Lo
Spirito possiamo incontrarlo “all’opera” nella vita del fondatore, attraverso
la lettura “con apertura di mente e di cuore” delle biografie che i suoi primi
discepoli ci hanno lasciato e nella storia della congregazione e dei monasteri,
lungo la quale il carisma si è incarnato adattandosi alle varie epoche e
sensibilità. Tornare alle fonti, quindi, non è una operazione archeologica, che
riporti alla luce quello che era, perché così si diventa reperti da museo:
forse ammirati, ma senza vita, cioè morti.
COMUNIONE MONASTICA
PER L’UNITÀ DELLA CHIESA
Padre Casetta si è quindi
domandato quale possa essere la nostra presenza nella Chiesa in quanto monaci.
Citando la lettera inviata da Paolo VI alla congregazione di Vallombrosa in
occasione del IX centenario della morte di san Giovanni Gualberto, ha
sottolineato la particolare sensibilità del santo verso i bisogni spirituali
del suo tempo: «benché monaco, egli partecipò pienamente e nel modo più vero
alla vita della Chiesa, e insieme con i suoi discepoli ebbe un ruolo di primo
piano nelle gravissime vicende da cui la chiesa di Firenze… era particolarmente
travagliata. Dalla sede di Vallombrosa, come da un’eccellente specola, guardava
alle immense necessità della Chiesa… le cure che egli prodigò nell’istaurare la
disciplina monastica, le dispiegò anche nel riformare i costumi del clero,
inculcando la necessità della vita comune e la radicale povertà».1 «Giovanni
Gualberto combatteva le eresie attraverso un programma di vita austero e
immediatamente visibile, noi – sull’onda lunga del suo carisma – potremmo farci
compagni di viaggio di tanti uomini e donne, giovani e non, attraverso uno
stile di vita che rende credibile la proposta di fede». Questo, per esempio,
nei confronti di laici «cosiddetti “ricomincianti”, coloro cioè che hanno abbandonato
la fede e poi in qualche modo si sono riaffacciati». Lo stesso impegno fu e
potrebbe di nuovo essere rivolto alle necessità spirituali del clero.
Passando a considerare
gli elementi che hanno caratterizzato fin da principio la vita di Vallombrosa e
della congregazione, p. Casetta ne ha individuati due: spiritualità di
comunione e quella che ha definito spiritualità incarnata. La prima, anche se è
un valore evangelico e in quanto tale riguarda la Chiesa tutta, si presenta
come «un qualcosa di fortemente caratterizzante questa prima comunità
gualbertiana: la sottolineatura della comunione fraterna, vinculum caritatis,
come materiale fondamentale di questa nuova costruzione». Quella che in genere
si definisce “vita comune”, caratteristica del monachesimo cenobitico, spesso
non è però comunione di vita, che non nasce automaticamente per i voti emessi o
per condivisione di residenza, essa chiede invece «una conversione: passare da
Babele a Pentecoste… occorre che ciascuno si affidi totalmente a Dio e si lasci
guidare dal suo Spirito, ma nello stesso tempo mantenga alta la vigilanza e
l’attenzione attraverso un autentico e persistente impegno di preghiera». Per
spiritualità incarnata si intende il tentativo di trovare un equilibrio
spirituale tra componenti diverse e solo apparentemente opposte della vita
monastica, delle quali p. Casetta fa solo alcuni esempi significativi: «la vita
di preghiera ma anche il lavoro concreto per mantenersi, la solitudine
dell’eremo ma anche la koinonia del vivere insieme, la stabilitas loci ma anche
la mobilitas, l’ascesi monastica ma anche la lotta contro le eresie, la Regola,
le prescrizioni dei 4 concili – direbbe san Giovanni Gualberto – ma anche un
lasciarsi portare dalla creatività e dalla novità dello Spirito». Oggi, come agli
inizi del secondo millennio, i monaci e le monache vallombrosani sono
interpellati dalla necessità di scoprire «nuove vie di inculturazione del
carisma non come semplice riproduzione del passato, ma come radicamento pieno
all’origine, nelle mutevoli condizioni di una società post-moderna e
globalizzata e nelle nuove attese dello Spirito».
Padre Casetta ha dedicato
l’ultima parte della sua relazione alla presentazione dei monasteri femminili
dal punto di vista storico e giuridico, nella prospettiva di un possibile
futuro ritorno a un legame sia spirituale che giuridico.
Nel dibattito che è
seguito, gli interventi si sono trovati concordi sulla necessità, prima di
giungere a qualsiasi tipo di relazione giuridica, di un percorso, anche
abbastanza lungo, che porti i monaci e le monache a conoscersi, per potersi
così aprire a una accoglienza reciproca e di koinonia. È stato evidenziato come
spesso, per la conoscenza superficiale che si ha degli altri, non si riesce ad
accettarsi per quello che siamo, i monaci spesso misurano le monache su
stereotipi astratti e lo stesso fanno le monache, giudicando i monaci
soprattutto in base a quello che sono capaci di fare per loro o per quello che,
nel loro pensiero, dovrebbero fare e non fanno.
SI APRE
UN NUOVO CAMMINO
Come primo passo in
questo cammino di avvicinamento è stato proposto da alcune monache un
questionario, che mira a portare ogni membro della congregazione e dei
monasteri femminili a interrogarsi personalmente sul carisma vallombrosano e
sul proprio atteggiamento nei confronti dei confratelli e consorelle, in modo
da situarci come persone, comunità e congregazione, per poter poi iniziare il
vero e proprio itinerario di dialogo, che potrà articolarsi attraverso incontri
e sessioni di lavoro comune. Rispetto al passato una delle novità più rilevanti
che nella Chiesa ci si trova ad affrontare e dover costruire è il ruolo della
donna; le prospettive da cui affrontare questo problema sono diverse: a volte
le donne, anche nella Chiesa, sono tentate da un certo atteggiamento
femminista, mentre gli uomini possono cadere in un vago paternalismo, pensando
che sono loro che devono costruire o concedere un ruolo alla donna. Uno degli
obbiettivi che potrebbe prefiggersi il cammino di dialogo e di accoglienza tra
componenti diverse del monachesimo è quello di scoprire insieme quale posto
possa e debba occupare oggi la donna nella comunità ecclesiale concreta che è
il monachesimo vallombrosano. Questo potrebbe aiutare anche i monaci a scoprire
in modo nuovo il proprio ruolo, accogliendo in questo anche il contributo delle
monache, con la loro peculiare sensibilità. Sulla base di questo diverso
rapporto potrebbe maturare anche una forma di legame giuridico paritario, che
in certi ambienti trova ancora resistenze e suscita dubbi.
Un buon contributo a
questo processo potrà venire dalla componente brasiliana e indiana della
congregazione. I monaci dei monasteri del Brasile hanno presentato con
entusiasmo l’esperienza che già si fa nel loro paese, dove i monaci e le
monache benedettini sono riuniti in un’unica congregazione con pari dignità,
con il risultato, voluto e cercato, di uno scambio e una comunione costruttive
e stimolanti per tutti. L’intervento di alcuni monaci dei monasteri dell’India
ha evidenziato come la loro diversa cultura possa dare una spinta al
rinnovamento della vita nei monasteri, rimasta un po’ “ingessata” da tradizioni
storiche che non appartengono in realtà alla autentica tradizione monastica che
è la Regola di s. Benedetto.
Sr. Roberta Lanfredini
monaca vallombrosana
1 Paolo VI, Lettera
all’Abate generale dei Vallombrosani, 10 luglio 1973, in AAS 65 (1973) 434-436.