RIFLESSIONI PSICOLOGICHE
PER I MOMENTI DI CRISI (1)
QUANDO UNO CI RIPENSA
La crisi in se stessa non è né negativa né
positiva. Una personalità sufficientemente matura non evade di fronte alla
crisi; essa è segno di una personalità che si evolve. È il modo con cui il
soggetto l’affronta che può rappresentare un approccio costruttivo e positivo
oppure negativo.
Momenti difficili nella
vita capitano a tutti e per i motivi più vari. In questa breve riflessione
vorrei soffermarmi su quella particolare situazione, caratterizzata normalmente
da forte tensione e sofferenza, che si crea quando la persona consacrata ha la
sensazione di aver fatto una scelta di vita sbagliata e si interroga seriamente
su quale strada prendere per il futuro.
È naturale immaginare che
tale situazione possa presentarsi ogni volta con sfumature e caratteristiche
diverse: ogni persona ha la sua storia e il suo percorso di vita è unico. Da
questo punto di vista sembrerebbe non realistico proporre considerazioni e
suggerimenti generali che possano valere per tutti. D’altra parte può essere
utile tentare una riflessione che possa fornire qualche orientamento generale
sia alle persone direttamente interessate sia a coloro che, per motivi diversi,
hanno una qualche responsabilità nei loro confronti.
CHE COSA
S’INTENDE CON CRISI?
Il termine “crisi” è
usato con accezioni diverse e in contesti assai vari. In questa riflessione uso
il termine “crisi” in riferimento alla situazione di una persona che si trova a
ripensare seriamente la scelta di vita fatta negli anni passati – e ciò in
seguito alla percezione che il non soddisfacimento di uno o qualche bisogno
fondamentale le provochi un persistente e forte senso di frustrazione sempre
più duro da sopportare. È lecito parlare di vera e propria crisi se e nella
misura in cui lo stato di tensione e sofferenza dura a lungo; è persistente,
diffuso e non limitato ad alcuni momenti o periodi; non vi è una qualche
circostanza particolare che possa, almeno in buona parte, spiegare la
difficoltà che la persona sta vivendo; lo stato attuale di vita è sentito dal
soggetto sempre più insoddisfacente e come un ostacolo alla piena realizzazione
della propria vita.
La crisi rappresenta un
momento particolare nel processo evolutivo della persona e si verifica quando
più tendenze sono tra loro in conflitto. Psicologicamente si presenta come
momento di profonda incertezza e confusione. Di per sé, la crisi non è né
negativa né positiva: è semmai il modo con cui il soggetto l’affronta che può
rappresentare un approccio costruttivo e positivo o, al contrario, negativo.
Una personalità sufficientemente matura non evade di fronte alla crisi, ma
l’affronta e cerca nuovi e migliori adattamenti. La crisi è espressione e segno
di una personalità che si evolve, di un organismo che si sviluppa; da questo
punto di vista, non è corretto pensare che una persona che si trova in crisi
sia senz’altro una persona poco virtuosa o trascurata o che si impegna poco,
anche se in certi casi questi dati potrebbero essere presenti (un approccio di
tipo moralistico, valutativo, sarebbe sempre fuori luogo, perché ciò che
importa di fronte a situazioni difficili è anzitutto cercare di capire).
Due domande almeno
conviene porsi: perché una persona entra in crisi (fattori)? A quali condizioni
è possibile affrontare realisticamente e positivamente i momenti di crisi?
PERCHÉ UNO
ENTRA IN CRISI
I fattori che possono
aiutare a capire – almeno in parte – perché una persona a un certo momento
della sua vita entra in crisi sono molteplici e normalmente non agiscono in
modo isolato, ma si condizionano a vicenda. Un elenco, certamente incompleto,
potrebbe comprendere i seguenti:
– scelta vocazionale
basata su motivazioni non autentiche. Ad esempio: una scelta dettata da un
(inconscio) bisogno di compiacere qualcuno, dal timore di certe responsabilità,
da una visione non corretta e realistica della vita consacrata. In altri casi
non vi è stata una scelta chiara e sicura di un piano di vita particolare (la
vita consacrata), accompagnata dalla consapevolezza di poter sviluppare e
soddisfare le tendenze e i bisogni collegati con questo piano di vita e
contemporaneamente di dover accettare la rinuncia cosciente alla soddisfazione
di quei bisogni che non sono compatibili con il piano di vita scelto
(soddisfazione mascherata di certi bisogni, ad esempio affettivi);
– mutamenti profondi
subentrati nella persona con il trascorrere degli anni. Ad esempio: progressivo
affievolimento della propria fede; consapevolezza sempre più acuta di
particolari bisogni che in passato erano meno avvertiti dal soggetto, come il
bisogno della maternità o il bisogno di intimità con una persona dell’altro
sesso; atteggiamenti profondamente diversi nei confronti della vita; nuove e
improvvise responsabilità nei confronti di qualche famigliare; sviluppo di
qualche competenza “professionale” particolare, che porta la persona consacrata
a una percezione diversa della propria identità (ad esempio, si sente anzitutto
medico, insegnante, psicologo, assistente sociale...);
– scarsa attenzione nel
seguire una “regola di vita” funzionale al benessere personale. Essa può
riguardare, ad esempio, l’equilibrio tra lavoro e riposo; una certa “gerarchia”
e ordine di importanza tra le varie responsabilità e compiti da svolgere;
l’equilibrio tra preghiera e ministero; il corretto rapporto tra attività e
momenti di riflessione (il risultato può essere un senso di svuotamento e
inutilità);
– trascuratezza e scarsa
attenzione alle condizioni che sostengono e rendono normalmente possibile
l’impegno di consacrazione. Ad esempio: la coltivazione di un’amicizia
autentica con Gesù, sostenuta dalla meditazione della parola di Dio,
dall’assiduità alla preghiera e ai sacramenti; l’affidamento a una guida
spirituale; la custodia dei sensi; il saggio uso dei mass media (compreso l’uso
di internet); la cura nel coltivare relazioni interpersonali autentiche,
soprattutto con le persone dell’altro sesso (evitando forme di pseudoamicizia o
rapporti a carattere transferenziale); l’impegno nel coltivare l’amicizia con i
confratelli/consorelle. Sempre è necessaria una certa disciplina, interiore ed
esteriore, se si ha a cuore la propria “igiene mentale”;
– esperienze
particolarmente difficili e frustranti durante la vita religiosa. Ad esempio:
la percezione di un eccessivo immobilismo da parte del proprio istituto, la
sensazione di aver subito torti o profonde ingiustizie, la delusione per non
aver avuto la possibilità di coltivare particolari aspirazioni (di tipo
professionale) o attitudini, una prolungata e (quasi) insanabile situazione di
aperto conflitto con un superiore.
CONDIZIONI
PER AFFRONTARLA
Affrontare positivamente il
momento di crisi significa, da un punto di vista psicologico, disporre di
risorse personali e ambientali tali da riuscire a fare una scelta di vita che
permetta al soggetto di sentirsi persona soddisfatta nonostante bisogni
insoddisfatti. Da un punto di vista di fede, affrontare positivamente la crisi
significa per una persona consacrata creare le condizioni affinché possa
sentire con sufficiente tranquillità di star facendo la volontà di Dio – una
sensazione che è fonte di pace profonda.1 In definitiva, si dice la stessa cosa
anche se si parte da una prospettiva diversa. Questa riflessione è condotta a
partire da una chiara visione di fede circa la vita e le opzioni fondamentali
che una persona è chiamata a compiere.
Prima di proporre qualche
spunto operativo, è opportuno richiamare un’osservazione di carattere generale.
La crisi è sempre un fatto soggettivo; d’altra parte, sia nella sua insorgenza
che nella sua evoluzione essa può essere notevolmente condizionata anche da
fattori culturali. A questo riguardo, almeno due aspetti della cultura
contemporanea meritano di essere richiamati per l’influenza che possono
esercitare sulle esperienze di crisi delle persone consacrate, e non solo di
queste persone. Anzitutto, il disorientamento valoriale della nostra società, a
proposito del quale il card. Ratzinger ebbe a dire qualche anno fa: «Credo che
ci troveremo ancora di fronte a un lungo periodo di confusione».2 In secondo
luogo, una marcata cultura della soggettività, che porta a una “soggettività
gonfiata”, con un conseguente straripamento della norma. Il card. Martini,
parlando a giovani preti durante un corso di esercizi spirituali e riflettendo
sui possibili motivi delle incoerenze che stanno alla radice di piccoli e
talora grandi cedimenti esistenziali, apparentemente inspiegabili, afferma:
«C’è tuttavia una fragilità che forse è ancora più tipica della coscienza
contemporanea e della civiltà occidentale moderna e postmoderna. È talmente
sottile e ricca di valori che facciamo fatica ad analizzarla a fondo. Voglio
parlare del gonfiarsi canceroso della soggettività... Credo che si possa
parlare di gonfiamento canceroso della soggettività quando la coscienza
(personale o di gruppo, perché questo è un difetto anche dei gruppi) tende, per
esempio, a divenire solipsista, assumendo se stessa come misura unica delle
proprie azioni. Così, l’unica coerenza che si cerca è, in fondo, quella con i
propri sentimenti, con le proprie emozioni. Gli esiti che ne derivano,
sconcertanti nella loro apparente innocenza, si esprimono, di fronte a impegni
presi e a parole date, nei seguenti termini: Non me la sento più! La fede, la
Chiesa, la celebrazione della messa non mi dicono più niente! Con quella
persona ho chiuso perché non mi dice più nulla!... Al fondo c’è la “norma suprema”
dei propri sentimenti».3 Tutto ciò spiega un difetto fondamentale della
coscienza umana oggi presente nella nostra cultura, quello di ritenersi
costituiti dalle proprie relazioni di scelta e non dalle relazioni di chiamata:
“Ciò che manca è l’umiltà di riconoscere la verità, che mi interpella e che non
sono io a scegliere”.4
Aldo Basso
1 «E “n la sua
volontade è nostra pace”» (Dante, Paradiso, III, 85).
2 J. Ratzinger, Il
sale della terra, Torino, Paoline, 1997, p. 267.
3 C.M. Martini,
Qualche anno dopo: riflessioni sul ministero presbiterale, Casale Monferrato,
Piemme, 1987, pp. 20-22.
4 J. Ratzinger,
ibidem, p. 266.