LA NOTA PASTORALE CEI
DOPO VERONA
È L’ORA ANCHE DEI
RELIGIOSI
Da una prima lettura, la vita consacrata sembra quasi
ignorata. Ma in una prospettiva di vera comunione ecclesiale anche i consacrati
non possono non sentirsi pienamente coinvolti. La missione della Chiesa è anche
la loro missione.
Al termine di un incontro
di formazione permanente con un gruppetto di frati minori dell’Emilia Romagna,
nel marzo di quest’anno, dopo aver parlato della presenza-assenza dei religiosi
al convegno ecclesiale di Verona e di una sempre più diffusa allergia nel
leggere e dare il giusto valore ai documenti capitolari, alle lettere
programmatiche dei propri superiori maggiori e a quelli dei nostri vescovi in
generale, un simpatico e non giovanissimo religioso mi ha chiesto di
suggerirgli un “fioretto”. Mi è venuto spontaneo raccomandargli la lettura
della Nota pastorale dei vescovi italiani sul dopo-Verona, non appena sarebbe stata
pubblicata.1 Ho tutte le ragioni di credere che il “fioretto” sia stato
mantenuto. Non so, però, con quali esiti.
L’efficacia della lettura
di un documento del genere varia secondo gli interessi e gli stati d’animo di
chi lo legge. Ho provato a pormi nella condizione più semplice e immediata di
un religioso che si trova di fronte a un documento dei propri vescovi. Sul
piano dei contenuti, dell’analisi contestuale della Chiesa e della società
italiana in cui viviamo e su quello delle proposte pastorali, non credo di
essere il solo a pensare che quanto detto nell’ultima Nota della Cei, sia più
ampiamente esposto e articolato già negli orientamenti pastorali del 2001,
Comunicare il vangelo in un mondo che cambia. Del resto, non a caso, proprio
nel secondo capoverso della presentazione della nuova nota, c’è un esplicito
invito a leggerla “in coerenza e in continuità” con gli orientamenti pastorali
di inizio millennio.
L’ORA
DEI LAICI
Fin dalla prima lettura
degli “orientamenti” del 2001, ero stato personalmente sorpreso dalla sincerità
dei nostri vescovi quando, in tutta onestà, hanno provato a interrogarsi
sull’efficacia di tutti i loro convegni e documenti. Dopo aver ricordato come
le loro proposte pastorali di questi ultimi trent’anni abbiano avuto come tema
di fondo “la centralità dell’educazione alla fede e della sua comunicazione”,
ad un certo punto hanno il coraggio – non proprio molto frequente nei nostri
ambienti ecclesiastici e religiosi – di chiedersi: «La comunicazione delle
proposte che abbiamo formulato, anche attraverso convegni e documenti, è stata
comprensibile per la gente e ha saputo toccare il cuore?... E noi vescovi
abbiamo saputo dare gli impulsi necessari perché i nostri stessi orientamenti
pastorali non restassero lettera morta?» (n. 44).
Forse quel simpatico e
non giovanissimo francescano che mi aveva chiesto di suggerirgli un “fioretto”,
ma insieme a lui anche tutti quei religiosi e religiose che sicuramente hanno
letto la Nota del dopo-Verona, non si sono sentiti “toccati nel cuore” più di
tanto. Ad una prima e affrettata lettura, infatti, i consacrati potrebbero
sentirsi, anche questa volta, “tagliati fuori” dagli interessi e
dall’attenzione dei nostri vescovi. Infatti, se il metro di valutazione in tal
senso è quello dei riferimenti espliciti alla vita consacrata, va detto subito
che non ce ne sono più di cinque o sei. Ma per quanto limitati possano essere
questi riferimenti, non sarebbe onesto imputare ai vescovi italiani una
disattenzione nei confronti della vita consacrata. Semmai sarebbe, invece,
imputabile ai consacrati la propria disattenzione qualora rileggessero il
documento solo alla ricerca di quanto viene detto o meno nei loro diretti
confronti.
SCELTE
DI FONDO
Come tutti i precedenti
convegni ecclesiali italiani, anche quello di Verona aveva come scopo
fondamentale quello di accelerare l’ora dei laici, «rilanciandone l’impegno
ecclesiale e secolare». Ma, guarda caso, proprio in questi ultimi decenni,
nelle agende dei lavori capitolari di tutti gli istituti religiosi di vita
attiva c’è una riscoperta attenzione ai laici. In alcuni casi, questa
attenzione può essere dettata dalla speranza di garantirsi, in qualche modo,
una più facile sopravvivenza delle proprie opere sempre più compromesse dalla
mancanza di vocazioni. Nella maggioranza dei casi, però, non si può negare in
tanti istituti religiosi la ricerca di una solida e convinta comunione
ecclesiale a partire dalla condivisione del proprio carisma con i laici.
Nell’ultima nota della
Cei i religiosi dovrebbero saper leggere e applicare alle proprie condizioni di
vita quanto viene detto a proposito di tutte le componenti del popolo di Dio.
Nel solco del concilio, anche in questo documento, vengono richiamate e
riproposte le “decisioni di fondo” con cui i vescovi avevano cercato di
qualificare il cammino ecclesiale della Chiesa italiana fin dagli orientamenti
pastorali del 2001. Si tratta di scelte centrali anche nella vita consacrata,
come quando si parla di “primato di Dio nella vita e nella pastorale della
Chiesa”, di “testimonianza personale e comunitaria”, di “pastorale che converge
sull’unità della persona ed è capace di rinnovarsi nel segno della speranza
integrale”.
Quando poi si accenna
agli uomini e alle donne del Risorto, per i quali l’Eucaristia domenicale «è il
cuore pulsante della settimana, sacramento che immette nel nostro tempo la
gratuità di Dio che si dona a noi per tutti”; quando, ancora, a proposito
dell’apertura all’universalità, la Chiesa italiana si sente interpellata dagli
immensi orizzonti della missione ad gentes, paradigma dell’evangelizzazione
anche nel nostro paese; quando, infine, i vescovi ci ricordano che «la via
della missione ecclesiale più adatta al tempo presente e più comprensibile per
i nostri contemporanei prende la forma della testimonianza, personale
comunitaria: una testimonianza umile e appassionata, radicata in una
spiritualità profonda e culturalmente attrezzata», non si sta forse parlando
anche dei consacrati?
Ad un certo punto – dopo
aver richiamato l’attenzione sul Progetto culturale orientato in senso
cristiano finalizzato a favorire un nuovo incontro tra fede e ragione, sul
discernimento, il dialogo ecumenico e il rapporto con persone portatrici di
altre sensibilità religiose, sulla questione antropologica, cioè della domanda
su che cosa sia e cosa significhi essere uomo, sulle tante possibilità offerte
dalla comunicazione e dall’arte, sulla sfida educativa, sulla sollecitudine per
il bene dell’uomo e della società – i vescovi italiani concludono dicendo:
«questo è il nostro programma: vivere fino in fondo la Pasqua di Gesù». Ma
questo, non dovrebbe essere anche il programma di tutti i consacrati?
Soprattutto nell’ultimo
capitolo, La Chiesa della speranza, anche i consacrati dovrebbero sentirsi
pienamente coinvolti nelle proposte operative indirizzate a tutto il popolo di
Dio. Anche per loro, infatti, dovrebbe essere fondamentale «curare la qualità
dell’esperienza ecclesiale delle nostre comunità, affinché sappiano mostrare un
volto fraterno, aperto e accogliente». Mentre negli ultimi anni si è insistito
molto sulla “testimonianza missionaria”, oggi sta emergendo un’ulteriore
sensibilità, quella di una pastorale «più vicina alla vita delle persone, meno
affannata e complessa, meno dispersa e più incisivamente unitaria». Nel cantiere
del rinnovamento pastorale in atto, vengono indicate con molta chiarezza alcune
prospettive al centro anche di tante ricorrenti riflessioni sulla vita
consacrata: la centralità della persona e della vita, la qualità delle
relazioni all’interno delle comunità, le forme della corresponsabilità
missionaria e dell’integrazione tra le dimensioni della pastorale, così come
tra le diverse soggettività, realtà e strutture ecclesiali.
Sono stati letteralmente
versati fiumi d’inchiostro, nella più recente letteratura sulla vita
consacrata, a proposito della priorità della persona sull’opera, sulle
strutture. Ebbene, i vescovi vengono a ricordare anche ai religiosi che il
cuore della pastorale è proprio la persona. Mettere al centro la persona,
infatti, significa non solo rinnovare in senso missionario la pastorale, ma
anche «superare il rischio del ripiegamento, che può colpire le nostre
comunità». Significa, ancora, «chiedere alle strutture ecclesiali di ripensarsi
in vista di un maggior coordinamento, in modo da far emergere le radici
profonde della vita ecclesiale, lo stile evangelico, le ragioni dell’impegno
sul territorio, cioè gli atteggiamenti e le scelte che pongono la Chiesa a
servizio della speranza di ogni uomo».
UNA PASTORALE
INTEGRATA
È fin troppo scontato,
nei documenti sulla vita consacrata, il discorso della “comunione”, della
“corresponsabilità”, della “collaborazione” come vie irrinunciabili, oggi, in
un sempre più corretto esercizio dell’autorità. Ebbene, ci ricorda la Nota
pastorale, queste sono le stesse tre parole che durante il convegno di Verona
sono risuonate come una “triade indivisibile”. Da qui l’invito dei vescovi a
«non sacrificare mai la qualità del rapporto personale all’efficienza dei
programmi», dal momento che «la comunione ecclesiale considera una
testimonianza all’amore di Dio il promuovere relazioni mature, capaci di
ascolto e di reciprocità». Tutto questo vale per i rapporti tra pastori e
laici, ma anche, aggiungiamo noi, tra pastori, laici e religiosi nel reciproco
ascolto, nella valorizzazione delle competenze e nel rispetto delle opinioni.
Il legame che esiste tra pastori e laici è talmente profondo che «in un’ottica
autenticamente cristiana è possibile solo crescere o cadere insieme». In questa
comune crescita o in questa comune caduta, ci permettiamo di aggiungere, non
possono non sentirsi chiamati in causa anche i religiosi.
Gli organismi di
partecipazione ecclesiale, come i consigli pastorali diocesani e parrocchiali,
osservano i vescovi, non stanno vivendo oggi una stagione particolarmente
felice. Eppure, aggiungono, c’è assoluto bisogno di questi luoghi «per
consentire a ciascuno di vivere quella responsabilità ecclesiale che attiene
alla propria vocazione e per affrontare le questioni che riguardano la vita
della Chiesa con uno sguardo aperto ai problemi del territorio e dell’intera
società. Quanti convegni, mi permetto di aggiungere, non sono stati organizzati
dai nostri superiori maggiori sul rapporto vita consacrata e territorio?
Ebbene, i vescovi vengono a ricordarci proprio questa esigenza. Infatti, la
partecipazione corale e organica di tutti i membri del popolo di Dio non è
semplicemente un obiettivo tra i tanti, ma «la via per raggiungere la meta di
una presenza evangelicamente trasparente e incisiva».
La strada da percorrere,
allora, è una sola: quella dell’integrazione pastorale fra i diversi soggetti
ecclesiali. Alla base di questa pastorale integrata troviamo proprio quella
spiritualità di comunione «che precede le iniziative concrete e purifica la
testimonianza dalla tentazione di cedere a competizioni e personalismi». Una
delle sfide di fronte alle quali si trova sempre più spesso la vita consacrata,
è il frequentemente irrisolto problema del rapporto tra comunità e individuo.
Quanto è difficile, anche tra i consacrati, “mettere in rete”, come leggiamo
nella Nota pastorale, le molteplici risorse umane, spirituali, culturali,
pastorali di cui si dispone. Anche la spinta a guardare con più fiducia alle
cosiddette “unità pastorali” non è dettata solo dalla mera esigenza di
fronteggiare la carenza di sacerdoti e meno ancora dalla costituzione di
“super-parrocchie”. Più semplicemente vuol andare «nella direzione di un
rapporto nuovo con il territorio, di una corresponsabilità diffusa, di
un’azione più organica e missionaria».
Perché non dovrebbero
sentirsi chiamati in causa anche i religiosi quando i vescovi tentano di
valorizzare sempre di più e sempre meglio la vocazione laicale? Perché non
sentirsi coinvolti nell’invito a creare nelle comunità cristiane «luoghi in cui
i laici possano prendere la parola, comunicare la loro esperienza di vita, le
loro domande, le loro scoperte, i loro pensieri sull’essere cristiani nel
mondo?». Perché non sentirsi ancora coinvolti, proprio come consacrati, nel
contribuire alla crescita spirituale e intellettuale, pastorale e sociale dei
laici e con i laici, in modo da favorire in loro una sempre più piena coscienza
ecclesiale che li abiliti ad un’efficace testimonianza nel mondo? In una
stagione come la nostra in cui attorno agli istituti religiosi stanno nascendo
tante “famiglie carismatiche”, perché i luoghi dei religiosi non diventano
scuole di spiritualità non solo per sé ma anche e soprattutto per i laici, nel
pieno rispetto della loro identità laicale?
Parlando delle “pietre
vive” della speranza poste dal Signore come segnali indicatori sulla strada
verso un’umanità nuova, i vescovi, concludendo, si rivolgono esplicitamente
alle famiglie cristiane, ai fedeli laici, ai presbiteri, ai missionari e ai
consacrati. Più che la molteplicità delle attività e delle iniziative, ciò che
conta è «la saldezza della nostra fede, la maturità della nostra comunione, la
libertà dell’amore, la fantasia della santità». Solo se si convinceranno che
tutto questo li riguarda molto da vicino, allora anche i consacrati sapranno
dire e portare, soprattutto con la vita, una parola di speranza a quegli uomini
e a quelle donne che, mai come oggi, sono «stretti dalla morsa
dell’inquietudine e del disorientamento».
Angelo Arrighini
1 “Rigenerati per
una speranza viva” (1Pt 1,3): testimoni del grande “sì” di Dio all’uomo. Nota
pastorale dell’episcopato italiano dopo il 4º convegno ecclesiale nazionale,
EDB, Bologna 2007.