A cento anni dalla prima Settimana sociale dei
cattolici italiani (Pistoia 1907), in un paese “a scartamento ridotto”, una
riflessione corale sulle sue prospettive di crescita e sul contributo dei cristiani.
La memoria storica come punto di partenza per un rinnovato impegno nell’oggi.
Sono trascorsi cento anni
dalla prima Settimana sociale dei cattolici italiani, promossa da Giuseppe
Toniolo (1845-1818) e celebrata a Pistoia nel 1907. E proprio in quest’anno
centenario i cattolici ritornano a Pistoia, città che, assieme a Pisa, dal 18
al 21 ottobre ospiterà la 45ª Settimana sociale che avrà come tema Il bene
comune oggi: un impegno che viene da lontano. Si tratta di un tema denso di
implicazioni in un momento in cui il nostro paese sta andando alla deriva.
«Inutile dire l’attesa
che nutriamo verso questo appuntamento, nel quale verrà opportunamente messa a
fuoco quell’idea di bene comune che è stato uno dei cavalli di battaglia più
qualificanti il nostro cattolicesimo sociale, e che nella dottrina del concilio
Vaticano II, come nel magistero più recente del papa, ha trovato una
trattazione così illuminante da imporsi come ossatura di ogni successivo
sviluppo». A esprimersi così è stato mons. Bagnasco nella Prolusione per il
consiglio permanente della CEI del 17-19 settembre scorso. Attesa tanto più
viva in quanto la Settimana sociale si pone nel solco del 4°convegno ecclesiale
nazionale che si è tenuto a Verona, nell’autunno del 2006, le cui linee operative
sono ora contenute nella Nota pastorale dell’episcopato, intitolata Rigenerati
per una speranza viva:
Il Documento preparatorio
alla Settimana sociale poggia su due idee forti: la memoria del contributo dei
cattolici alla società italiana (nn. 2-12) e le nuove responsabilità
nell’attuale momento storico e in vista del futuro (nn. 13-28).
I CATTOLICI
E L’ITALIA
È importante tenere
presente anzitutto la “memoria storica” per riconoscere che esiste uno stretto
legame tra passato e presente che stimola i cattolici a continuare a essere
protagonisti nella nostra società con la forza della loro dottrina sociale e il
loro fattivo impegno. «Agli occhi della storia, leggiamo infatti nel Documento
preparatorio, non si può non riconoscere che i cattolici hanno dato un apporto
fondamentale alla società italiana e alla sua crescita, nella prospettiva del
bene comune. È necessario alimentare la consapevolezza non solo fra i cattolici
ma in tutti gli italiani, del fatto che la presenza cattolica – come pensiero,
come cultura, come esperienza politica e sociale – è stata fattore fondamentale
e imprescindibile nella storia del paese e in questa prospettiva le Settimane
sociali svoltesi nel corso di un secolo costituiscono un tassello
oggettivamente significativo e rilevante».
Nella seconda parte
dell’ottocento, una volta superata la fase che vide i cattolici né eletti né
elettori, a causa delle vicende risorgimentali, si sentì l’esigenza di dare un
contributo progettuale alla società italiana. Grazie anche alla riflessione
delle Settimane sociali i cattolici furono impegnati nella formazione ai
sentimenti di appartenenza e di lealtà allo stato, così come nella educazione
all’etica civile. Da qui l’attenzione alla società civile. L’unico caso nel
quale l’attenzione fu rivolta verso la società politica (Lo stato secondo la
concezione cristiana, Roma 1922) segna l’inizio del contributo all’evoluzione
da una democrazia elitaria a una più aperta e popolare (cf. il movimento
intorno a don Sturzo).
Durante il fascismo,
diversi cattolici continuarono a dare il loro apporto al bene comune con
Settimane (1926-1934) dedicate a temi formativi, per alimentare una riserva
morale e culturale rispetto alla massificazione del tempo, e preparare il
terreno per i futuri sviluppi della democrazia italiana. Dopo la fine della
seconda guerra mondiale si creano condizioni nuove e diverse. Il contributo
delle Settimane sociali è rilevante, a cominciare dalla XIX (Firenze1945),
nella quale furono disegnate linee progettuali per l’appuntamento della
Costituente e fu offerto un contributo alla redazione della Costituzione del
1947.
COESIONE SOCIALE
E LAICITÀ
In un contesto in rapido
mutamento, si diversificano poi le forme di presenza: nascono esperienze
associative nuove, si sperimentano nuovi modi di impegno solidaristico (cf. il
mondo del volontariato), e le Settimane conoscono un periodo di pausa. Nel 1988
si pongono le condizioni per una loro ripresa, come «spazio privilegiato per i
cristiani laici, ai quali compete primariamente l’impegno nelle realtà
terrene». Temi nuovi intanto si impongono: costruzione dell’Europa; tensioni
tra stato unitario e localismi; rapporti fra stato e società democratica in una
società che vede la nascita di nuovi poteri auto-referenziali come quelli
economici, mass-mediali, scientifico-tecnologici; scomparsa del partito
democratico-cristiano. Nei primi anni novanta il percorso delle Settimane
sociali si intreccia con lo sviluppo del Progetto culturale orientato in senso
cristiano, una dinamica di ricerca, di risposta, di proposta e di
comunicazione, tesa a far emergere il contenuto culturale
dell’evangelizzazione.
La seconda idea
fondamentale della Settimana, secondo il Documento preparatorio, si collega
all’esigenza di non relegare il cattolicesimo nell’ambito privato. Questo
comporta che, dentro la Chiesa oggi si ricominci daccapo ad accumulare idee,
cultura, progetti, ma anche a sperimentare esperienze, per evitare la
tentazione dello “straniamento dalle sorti del nostro paese” (G. Rumi),
indicata durante il convegno ecclesiale di Verona.
Occorre ribadire che,
nella prospettiva cattolica, sussiste una concezione di laicità che vede il
pluralismo all’interno di un comune vincolo sociale. In tale concezione la
laicità non è un’ideologia, o un’idea di parte, ma la casa comune in cui
trovano forza i valori in sé non negoziabili, che vanno comunque proposti
affinché siano condivisi da ogni persona di buona volontà. La legittima e
necessaria separazione della sfera statale da quella religiosa, non può
significare che la convivenza civile e le sue istituzioni siano indifferenti
per la fede.
In particolare le giovani
generazioni vanno aiutate a ripartire dall’idea di bene comune: «Secondo una
prima e vasta accezione, per bene comune s’intende “l’insieme di quelle
condizioni della vita sociale che permettono, sia alle collettività sia ai
singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più
celermente” (GS 26). Il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni
particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di
ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è
possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro.
Come l’agire morale del singolo si realizza nel compiere il bene, così l’agire
sociale giunge a pienezza realizzando il bene comune. Il bene comune, infatti,
può essere inteso come la dimensione sociale e comunitaria del bene morale»
(Compendio della dottrina sociale, 164).
Mentre il bene totale può
essere reso con l’immagine di una somma, i cui addendi costituiscono i beni
individuali (o dei gruppi sociali), il bene comune è paragonabile al prodotto
di una moltiplicazione. In una somma se anche alcuni addendi si annullano, la
somma totale resta comunque positiva. Invece, con il prodotto di una
moltiplicazione, l’annullamento anche di un solo fattore azzera l’intero
prodotto. Insomma non si può sacrificare il bene di qualcuno per migliorare il
bene di qualcun altro, e ciò perché quel qualcuno è pur sempre una persona
umana. Per la logica del bene totale, invece, quel qualcuno è solo un individuo
(soggetto con particolare funzione di utilità).
QUESTIONE SOCIALE
E ANTROPOLOGICA
Per rispondere alle sfide
della post-modernità occorre allora uno sforzo di discernimento che muova
dalla consapevolezza che la “questione sociale” s’intreccia in modo
indissolubile con la “questione antropologica”. Il bene comune insomma non va
confuso né con il bene privato, né con il bene pubblico. L’interesse di ognuno
si realizza insieme a quello degli altri, non già contro (come accade con il
bene privato) né a prescindere dall’interesse degli altri (come accade con il bene
pubblico). Nessuna convivenza umana può durare ed essere fonte di realizzazione
delle persone, se tutti pretendono di ricevere (da opportunista o da assistito
cronico) oppure se tutti i rapporti sono ridotti allo schema di un contratto.
Quali implicazioni di
ordine pratico discendono dall’accoglimento della prospettiva centrata sul bene
comune? Innanzitutto si richiede, come già detto, un grande sforzo di
discernimento nello spirito del Vaticano II. Sforzo di fronte all’emergere
della cosiddetta questione antropologica che è il nuovo nome della questione
sociale. In particolare siamo invitati a percepire come la causa della persona
non sia più scomponibile in diritti individuali e diritti sociali.
Si deve anche prendere
atto che la morale cristiana sia oggi divisa in due parti, favorendo così una
nuova dolorosa frattura del tipo “guelfi e ghibellini”, che attraversa anche le
comunità parrocchiali e religiose. Una parte guarda ai grandi temi di pace, non
violenza, giustizia, sollecitudine per i poveri del mondo e rispetto del
creato; un’altra parte è quella che si batte per vita umana, famiglia e
matrimonio. Ebbene, ha futuro, come ha sottolineato papa Benedetto XVI, solo un
approccio antropologico ed etico del cristianesimo capace di integrare le due
parti, nella logica di un personalismo solidale.
Quanto detto assume
spessore nuovo dentro la crisi della “laicità della modernità”, incapace di
offrire risposte sufficienti a questioni nodali: relazione tra valori morali e
loro traduzione in leggi, indicazioni per gestire la multiculturalità,
armonizzazione delle legittime pluralità di opinioni in un contesto politico
unitario, diverse visioni culturali all’interno del paese nella cosiddetta
“ragione pubblica”. Oggi d’altronde la laicità corrisponde a una sorta di
indifferenza rispetto a qualsiasi ipotesi valoriale perché pochi sono i criteri
plausibili e condivisi.
A questo punto si deve
prendere coscienza di un dilemma: o la democrazia vive nei limiti di una pura
questione procedurale, razionale, e allora si salvaguarda la nozione di
laicità, oppure la democrazia deve proporsi un fine fuori di sé (il bene
comune) e allora l’indifferenza sui valori non è più sostenibile. Quando lo
stato accettasse la concezione procedurale della democrazia, ciò
significherebbe impedirsi ogni potere di intervento in questioni rilevanti
come: la struttura e il ruolo della famiglia, la giustizia distributiva, la
manipolazione genetica, la determinazione di ciò che fa la differenza tra
l’umano e il non umano.
Da ciò scaturisce che impegno
per il movimento cattolico italiano è quello di denunciare la posizione di chi
si rifà all’etica utilitarista in materia di bio-politica. Si tratta di
dimostrare che non è possibile difendere l’universalismo di un modello di
welfare e prenderne poi le distanze quando si passa a discutere della vita
umana. In questo senso occorre ripensare lo stato sociale senza che diventi
assistenziale o clientelare. Senza dimenticare infine che, come rivela l’ultima
indagine Censis, l’Italia è ormai diventata un paese con «mobilità a
scartamento ridotto»: le persone collocate ai livelli bassi della scala sociale
hanno oggi maggiori difficoltà a salire ai livelli più alti. La persona
inefficiente è tagliata fuori dalla cittadinanza, perché non ha titolo per
partecipare al processo produttivo.
Benedetto XVI al convegno
di Verona ha affermato: «La Chiesa non è e non intende essere un agente
politico. Nello stesso tempo ha un interesse profondo per il bene della
comunità politica, la cui anima è la giustizia, e le offre il suo contributo
specifico. La fede cristiana, infatti, purifica la ragione e la aiuta a essere
meglio se stessa». Non si parla di Chiesa forza sociale né di unità politica
dei cattolici. Nondimeno si spinge perché il laicato cattolico torni a
reinventare reti di sicurezza o spazi pubblici di autonomia. In questo senso
vanno riletti gli sforzi di questi ultimi anni per rafforzare sentimenti e
atteggiamenti di comunione tra le diverse componenti ecclesiali, in particolare
tra le aggregazioni laicali. Per i cristiani si tratta di salvaguardare, senza
ambiguità, il collante interno ed esterno della fraternità, mostrando che
proprio il principio di fraternità credente è capace di ispirare scelte
concrete dell’agenda politica. «Senza la fede, i nostri figli non saranno mai
ricchi; con la fede, non saranno mai poveri» (beato Giuseppe Tovini).