LA SITUAZIONE IN PALESTINA E LIBANO

NON SI VEDE UNA VIA D’USCITA

 

C’è una certa assuefazione dietro alle notizie che giungono dalla Palestina e dal Libano. La gente e i mass media sono distratti da altre cose, spesso futili, e ci si dimentica della tragedia che da anni si sta consumando in queste terre. Dobbiamo rassegnarci all’impotenza o attaccarci alla speranza?

 

«Ciascuno di noi dovrebbe essere incoraggiato ad assumere la propria diversità come la somma delle sue diverse appartenenze, invece di confonderla con una sola, eretta ad appartenenza suprema e a strumento di esclusione, talvolta a strumento di guerra»: difficile non farsi prendere dalla malinconia, nel rileggere queste parole dello scrittore libanese Amin Maalouf dal suo libro L’identità, mentre il suo stato, una volta di più, torna alla ribalta delle cronache mondiali per un’ennesima fiammata di violenze intestine. Ma è tutta quella regione che, al contrario degli auspici di Malouf, dà prova di un’assoluta incapacità ad uscire dalla tragedia in cui è immersa da quasi sessant’anni.

Un po’ di pena, forse appena un po’ di compassione: ecco, in realtà, l’esito sulla nostra opinione pubblica delle notizie che nel corso dell’estate 2007 hanno ripreso a giungerci da un paese ancora inesistente eppure diviso in due tronconi (Palestina), un paese esistente in profonda crisi di moralità politica ed esistenziale (Israele), ed uno fintamente normale ma in realtà spezzato in fazioni eterodirette, in cui le forze dell’ONU cercano a fatica di sorvegliare un improbabile ordine sociale (Libano). Pena, compassione, ma forse soprattutto assuefazione. Perché, sotto sotto o forse addirittura apertamente, ormai, serpeggia in molti l’idea che il conflitto israelo-palestinese, con i suoi inevitabili riflessi nell’intera area del Medio Oriente ma anche ben oltre, non abbia possibilità di sbocchi positivi in tempi ragionevoli. E che, al massimo, esso possa essere preso da sfondo per una classica polemica ferragostana, com’è puntualmente capitato in occasione delle parole di Romano Prodi sulla necessità di fare i conti anche con Hamas, per intravedere la ripresa di un processo di pace.

 

SCENARIO

ATTUALE

 

Da metà giugno esistono di fatto due realtà politiche palestinesi separate (una novità, lo vedremo, solo relativa). La divisione è sancita nelle cose, ma non rappresenta unicamente l’assetto di una dimensione interna: la vera e propria guerra civile che oppone dall’inizio di quest’anno le due fazioni palestinesi (Hamas, che ora ha monopolizzato il potere sulla striscia di Gaza, e ciò che resta dell’OLP, col presidente Abu Mazen in vistosa difficoltà, appoggiato dagli USA ma asserragliato in Cisgiordania) è la coda di un lungo conflitto che si sta combattendo da almeno vent’anni per la leadership interna. Parallelo all’altro conflitto con Israele, il cui culmine è stato segnato dalle due Intifade, dopo le illusioni di pace a metà degli anni novanta. La morte di Yasser Arafat, il leader storico dell’OLP, nel novembre 2004, ha impresso un’accelerazione a tale processo, ma non si può dire che l’abbia causata: in buona sostanza, essa ha reso evidente un conflitto che va ricondotto a motivazioni strutturali di vario tipo, tra l’identitario, il culturale e il politico. Un conflitto che, come osservano i commentatori più attenti, ha un atto d’inizio preciso risalente esattamente ad un quarto di secolo fa, nell’estate 1982, e riguarda la dimensione di abbandono e di vuoto che i palestine­si, da allora, hanno colto attorno a sé.

Come ricorda lo storico David Bidussa, di cui recupero qui una serie di puntuali analisi comparse sul Secolo XIX, è appunto nell’agosto ’82 che, dopo un lungo assedio, Arafat abbandonava Beirut e si stabiliva a Tunisi con il suo stato maggiore. Quell’espulsione rappresenta la nascita di un ciclo politico nuovo: scompare il ceto politico dirigente sul territorio e nel corso degli anni ottanta prende corpo un nuovo ceto politico fondato sul rapporto sacrale con la terra. Se nel 1948 (con la cosiddetta guerra dell’indipendenza per Israele, da un lato, ma anche la nakba, cioè il disastro per il popolo palestinese, dall’altro) la fuga e la cacciata, e comunque la sconfitta, furono costituite da un insieme di storie personali, di famiglie e di villaggio, che si consumarono in uno spazio di pochi chilometri, lo stesso non accadeva nel 1982. Numericamente nel ’48 furono coinvolte molte più persone rispetto all’82, ma quella fuga non ebbe la stessa valenza politica. Nell’82 i palestinesi non si spostarono, semplicemente rimasero senza guida politica che se ne andò via. Negli anni successivi, in quel vuoto, una nuova classe politica si presentava sullo scenario, nel tentativo evidente di sostituirsi alla precedente.

 

NASCITA DI UN NUOVO

CETO POLITICO

 

Dentro una stagione politica che ha registrato l’espansione del radicalismo religioso islamico sulla scia delle nuove parole d’ordine lanciate dalla rivoluzione khomeinista in Iran del ’79, ciò che è accaduto negli ultimi due decenni è la costruzione di un nuovo ceto politico che nasce, per così dire, dal basso, estraneo sia al notabilato che nel 1948 diserta la battaglia, sia alla classe politica sostanzialmente laica dei primi vent’anni dell’esilio. Iniziò a declinare, 25 anni fa, la possibilità di rafforzamento di un ceto politico palestinese di governo formato nell’esilio, laico e secolarizzato. Chi rimaneva sul territorio dava voce ad un’opinione pubblica sempre più frustrata: si tratta dell’area religiosa, radicale, fatta di piccola borghesia urbana e commerciale, di figli di notabili declassati, di nuovi intellettuali interni, capaci di connettere il ritorno all’islam risvegliato anche su scala mondiale al recupero della propria dignità calpestata.

Una miscela politica, culturale e identitaria certo presente in molto mondo arabo islamico, ma che nel caso palestinese ha finito per produrre una forte lacerazione interna: da una parte, per la presenza di un’intellettualità laica e occidentalizzata, con tanti giovani che dopo aver studiato nelle università europee sono rientrati in patria, dall’altra, perché i palestinesi sono una realtà costruita per un quinto di cristiani. Parlare di identità palestinese come identità islamica, dunque, implicava inevitabilmente introdurre dei conflitti interni destinati ad accrescere le spaccature sociali e culturali, anziché sanarle.

Quello cui stiamo assistendo ora è pertanto un conflitto politico interno, ma nel contempo è anche la lotta per chi esprimerà il centro del – futuro, futuribile – stato palestinese. Stato che oggi risulta strutturalmente diviso in due (e non solo geograficamente) tra striscia di Gaza, vero brulichio convulso di frustrazioni ad altissima densità di concentrazione di individui, e la Cisgiordania, dove il confronto deve ancora avvenire. Il fatto è che uno stato non si costruisce solo valutando il benessere individuale, relativo dei propri cittadini. Occorrono almeno un esercito, un apparato economico, una struttura produttiva, un’idea di economia nazionale, un apparato di autogoverno e una classe dirigente, un sistema dei partiti e di strutture di rappresentanza sociale, una produzione culturale: tutti elementi che per ora non ci sono e che le drammatiche scene di Gaza dimostrano che non ci saranno a breve… Certo, l’immobilismo dell’amministrazione Bush al riguardo, dopo le tante promesse disattese al tempo della guerra in Afghanistan e poi della guerra iraqena contro Saddam, non è estraneo alla situazione venutasi a creare. Ma non è facile immaginare che, da lì, si avvii un’azione capace di produrre novità, di volare alto, come sarebbe necessario.

 

LA CRISI

DI ISRAELE

 

Dall’altra parte, si è citata la crisi di Israele, i cui segnali non emergono da oggi, e tocca, alla rinfusa, una lunga serie di crisi specifiche, a partire da quella delle istituzioni politiche: il cui dato più eclatante è stato, negli ultimi mesi, l’inchiesta a carico del presidente Moshe Katzav con l’accusa di molestie sessuali e il recente passaggio di consegne ad un padre della patria, l’ultima figura della generazione storica, quel Shimon Peres che ha così finalmente coronato con la presidenza un proprio antico sogno personale. E poi, la crisi dell’esercito e di quell’idea di purezza delle armi che ha rappresentato uno dei miti fondanti della società ebraico-israeliana fin dai suoi inizi, unita all’effetto senza risultati del ritiro unilaterale da Gaza di due estati fa, che ha determinato la convinzione dell’inutilità del confronto con i palestinesi (raffigurata simbolicamente dal muro antiterrorismo eretto non di rado all’interno del territorio altrui). Ancora, la percezione di una minaccia costante nei confronti della propria esistenza, da parte sia dei martiri kamikaze dell’islam palestinese sia dell’Iran di Ahmadinejad, che ambisce a diventare la nuova potenza della regione mediorientale; ma anche, e forse soprattutto, la sensazione, sempre più diffusa e generalizzata, di essere un paese senza domani. La percezione di accerchiamento, di odio generalizzato, ha fatto il resto, e attualmente Israele è soprattutto una nazione stanca, che fatica a credere al proprio futuro. Eppure, al tempo stesso, è un paese che dà voce a figure pubbliche di alto valore etico, capaci di pronunciare parole in piazza come quelle dello scrittore David Grossman quando, di fronte a centomila persone, la sera del 4 novembre scorso chiedeva al premier Ehud Olmert di compiere un gesto politico. Vale a dire, di dichiarare il massimo della propria disponibilità, obbligando l’avversario a scegliere il dialogo oppure ammettere di non volerlo affatto perché non gli interessa né convivere, né coabitare. La sfida di Yitzhak Rabin nel ’93, in fondo, non fu altro che questo. Olmert, però, non ha scelto questa direzione, per paura, per debolezza, per incapacità di produrre una visione e un percorso che consentano di superare l’abisso che si trova davanti la propria gente.

L’attentato del 24 giugno in Libano, costato la vita a cinque militari della missione ONU di nazionalità spagnola e colombiana, ha chiarito, poi, che non sono sopiti i venti di guerra anche in Libano. La situazione della terra dei cedri è cresciuta progressivamente nelle settimane fra giugno e luglio: dapprima il voto alle Nazioni Unite per la commissione d’inchiesta sull’assassinio Hariri, cioè una prima velata accusa alla Siria di essere dietro a quell’uccisione. Quindi la ripresa degli scontri nella zona nord del Libano intorno a Tripoli, e gli scontri all’interno dei campi profughi. Di seguito, altri attentati a Beirut con la morte violenta del deputato antisiriano Walid Eido e di suo figlio Khaled. Un assassinio che, secondo Walid Jumbatt, leader del partito socialista progressista ed esponente storico del fronte antisiriano in Libano, punterebbe a mettere in minoranza numerica, prima ancora che politica, il governo Seniora che ora – dopo la morte di Eido – gode di soli tre voti di maggioranza e perciò vede a rischio la sua stabilità e la sua continuità.

Il quadro appare non solo incerto ma turbolento, e il contingente Unifil ha il problema di darvi una risposta, di fermezza ma non di pavidità (l’attentato infatti è avvenuto in un territorio direttamente controllato da Unifil e, stando ad una ricostruzione attendibile, è stato eseguito da un commando penetrato in un territorio che Unifil doveva garantire smilitarizzato, ed è avvenuto al confine con il territorio israeliano). In sintesi, tutte le garanzie che Unifil dovrebbe fornire sono state non solo colpite, ma ridicolizzate. Il problema è dunque oggi quello di sapere non solo quale funzione e quale efficacia abbia la presenza Unifil in quel territorio, ma soprattutto se – volendo rimanervi – quale replica e quale azione mettere in campo: questione che tocca l’ONU nel suo complesso, ma tocca anche il governo italiano, perché in prima istanza oggi siamo noi italiani ad esprimere il comando della missione su quel territorio, dopo il semestre di comando francese.

 

QUALCOSA SI MUOVE

SUL PIANO INTERNAZIONALE

 

Nel frattempo, sul piano internazionale, qualcosa si sta muovendo, sia pure frammentariamente e, almeno all’apparenza, senza quella spinta che occorrerebbe per prendere per le corna un toro così furioso. C’è stata la decisione del Quartetto (USA, UE, Russia e ONU) di affidare al leader britannico Tony Blair, concluso il mandato in patria, la responsabilità delle politiche mediorientali; ed è affiorata l’ipotesi di una nuova conferenza internazionale, dopo quella ormai lontana di Madrid del ’91, che riesumi in qualche modo, almeno parzialmente, la defunta Road Map, rilanciata da un congresso promosso dal Gruppo socialista europeo svoltosi a Bruxelles qualche tempo fa (la base potrebbe essere il Piano arabo di pace di Beirut 2002, con l’obiettivo di garantire a Israele il riconoscimento da parte di tutti gli stati arabi in cambio della restituzione dei Territori occupati nel ’67, con la creazione di uno stato palestinese con capitale Gerusalemme Est, nonché una soluzione equa e concordata del problema, annoso, dei rifugiati). Non mancano, naturalmente, un gran numero di ostacoli, e resta aperta la necessità di un confronto specifico con la Siria. Staremo a vedere chi, e come, batterà un colpo…

Che dire, per concludere? In primo luogo che, ovviamente, per il cristiano la barra deve restare ferma sulla virtù bambina (ma sempre teologale!) della speranza, anche quando – come in casi simili – verrebbe da dire che si tratta di una spes contra spem. Per questo, mentre ci si deve augurare che prevalga finalmente la disponibilità al compromesso che – come argomenta lo scrittore israeliano Amos Oz nel suo prezioso Contro il fanatismo – non è una parola sconveniente come ritengono alcune anime belle, ma una risposta realista all’attuale cul de sac, sarà utile riprendere le considerazioni fatte a proposito della situazione in Medio Oriente dal cardinal C.M.Martini, che dopo la fine del suo episcopato ambrosiano ha scelto di vivere la preghiera e l’intercessione per la pace direttamente a Gerusalemme. A suo parere, infatti, l’unica strada per superare l’idolo perverso della violenza è imparare a guardare il dolore dell’altro, che è così spesso speculare al proprio: “La memoria delle sofferenze accumulate in tanti anni alimenta l’odio quando essa è memoria soltanto di se stessi, quando è riferita esclusivamente a sé, al proprio gruppo, alla propria giusta causa. Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà anche la memoria della sofferenza dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora essa può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace”.

B. S.