I LAICI NELLE
ATTIVITÀ-AZIENDE DEI RELIGIOSI
DIPENDENTI MA NON SOLO
“Mutue relazioni” particolarmente problematiche tra
religiosi e laici nelle opere con risvolti aziendali. Sempre più indispensabile
la presenza di laici professionalmente qualificati. Una convinta apertura al
carisma, da laici e non da semi-religiosi, nella condivisione della
spiritualità e della missione. _Un nuovo ruolo per i religiosi.
L’ecclesiologia di
comunione, contrassegnata da una relazione più convinta e sincera tra
religiosi/e, sacerdoti diocesani e laici, è oggi un dato, almeno teoricamente,
acquisito anche da parte dei religiosi. I tanti documenti programmatici, le
tante “carte d’intenti” o “di comunione”, le tante “regole di vita”, lo stanno
a testimoniare. Soprattutto nel campo della condivisione della spiritualità,
della riflessione sulla parola di Dio, della formazione, della missione, stiamo
assistendo a esperienze in continuo aumento. Forse, però, gli entusiasmi più
promettenti è facile coglierli sul versante dei laici. I religiosi sono più
restii a lasciarsi coinvolgere. Soprattutto per la loro formazione, la loro
mentalità e le loro più o meno secolari tradizioni, queste nuove frontiere
dell’ecclesiologia di comunione, sono spesso più annunciate e auspicate che
compiute.
RELAZIONI
COMPLESSE
Le “mutue relazioni”,
soprattutto tra religiosi e laici, già problematiche a livello spirituale e
pastorale, assumono dimensioni molto più complesse in tutte quelle attività con
risvolti aziendali nelle quali, detto in parole molto semplici, da una parte ci
sono i proprietari (religiosi), dall’altra i dipendenti (laici). Per la
direzione e l’animazione di tutte queste attività, un tempo, bastavano i
consacrati. Ai laici, quando c’erano, erano generalmente riservati ruoli
esecutivi e sussidiari. «Il livello d’identificazione della vita religiosa con
le sue istituzioni era allora impressionante».1_ Si viveva sostanzialmente in
funzione dell’istituzione, con tutti i ruoli direttivi saldamente in mano ai
religiosi.
Questa situazione, però, si
è andata modificando molto rapidamente. I cambiamenti sul piano sociale e
culturale hanno coinvolto anche molte delle attività dei religiosi. Dagli anni
’60, infatti, è andata abbattendosi sulle congregazioni, maschili e femminili,
spesso in forma rapida e violenta, la crisi delle vocazioni. Non solo, ma sotto
la spinta a volte spietata della concorrenza e della modernizzazione della
società, poi, si è andata imponendo anche alle istituzioni gestite dai
religiosi l’esigenza di indilazionabili aggiornamenti tecnologici e
professionali. È facile comprendere, allora, come questa ondata abbia finito
con il mandare fuori gioco tutti quei religiosi e quelle religiose mentalmente
e culturalmente impossibilitati ad aggiornarsi e a convertirsi a una mentalità
lontanissima da quella di tutta la loro vita.
Nel momento in cui si è
incominciato, più per necessità che per convinzione, a coinvolgere i laici,
l’operazione si è manifestata subito in tutta la sua complessità. Non perché
mancassero laici professionalmente preparati. Spesso, anzi, lo erano anche
molto di più degli stessi religiosi. Fino a che punto, però, ci si poteva
accontentare della loro qualificazione professionale in assenza di un
coinvolgimento più diretto nel carisma e nella missione del proprio istituto
religioso?
Anche senza accorgersene i
religiosi potevano essere spontaneamente portati a esigere dai loro
collaboratori laici comportamenti in tutto e per tutti simili ai propri. Non
era facile rendersi conto di aver a che fare con persone con un differente
stile di vita, con esigenze, domande e attese esistenziali spesso molto diverse
dalle proprie. Quando mai, infatti, un consacrato si è venuto a trovare nella
condizione di perdere notti intere a causa dello stato febbrile di un figlio
piccolo o nell’attesa del rientro a notte tarda di quello più grande dopo aver
partecipato a una festa con gli amici?
È facile rimproverare ai
collaboratori laici un eccessivo attaccamento al denaro e una scarsa
disponibilità a prolungare oltre il dovuto il proprio tempo di lavoro. Un
laico, però, che intendesse rispondere a tutte le richieste di “generosità” e
di disponibilità avanzate nei loro confronti, a volte, dai religiosi,
difficilmente riuscirebbe ad assicurare a sé stesso e alla propria famiglia
tutto l’impegno e il tempo dovuti. È impensabile pretendere da un laico una
dedizione “notte e giorno” all’opera, quando la “gratuità totale” è molte volte
un problema anche per gli stessi religiosi.
La presenza di
professionisti laici è oggi sempre più urgente per far fronte a tutte le
logiche di mercato a cui, volenti o nolenti, sono esposte e spesso condizionate,
anche le opere dei religiosi.
È vero, le opere aziendali
dei religiosi dovrebbero perseguire finalità umanitarie, culturali, e non a
scopo di lucro. Ma con queste loro attività vendono, di fatto, dei servizi in
campo scolastico-educativo, socio-sanitario, editoriale ecc. Necessitano,
perciò, di tutte le garanzie a livello professionale per assicurare un
equilibrio economico e finanziario, senza il quale anche la vendita dei servizi
avrebbe vita breve.
Quello che spesso nel mondo
dei consacrati si fatica a comprendere è il fatto che oggi anche solo
un’organizzazione non governativa (Ong), una organizzazione non lucrativa di
utilità sociale (Onlus), una cooperativa, una qualsiasi istituzione religiosa o
meno impegnata nel campo della solidarietà, non hanno futuro senza una solida
base anche professionale.
IRONIA
DELLA SORTE
I religiosi dovrebbero
seriamente convincersi che tutti i professionisti laici coinvolti nelle loro
opere, non possono essere considerati semplicemente dei “cari amici” di famiglia.
E invece, questo “paradigma mentale” è ancora molto duro a morire. Un contratto
non può essere mai stipulato solo in base a simpatie personali. Il rischio
reale, in casi del genere, è quello di ritrovarsi poi persone inefficienti in
funzioni nevralgiche. Troppo spesso si confonde la professionalità con il
dilettantismo. Quante volte, ancora, si confonde la pazienza con la
compiacenza, rimandando sine die cambiamenti anche urgenti e molto necessari.
La paura e la mancanza di una certa audacia vengono spesso legittimate come
atteggiamenti prudenziali.
Sembra una ironia della
sorte. Negli anni ’70 e ’80, molti istituti hanno devoluto una parte rilevante
dei proventi delle proprie opere per scopi di beneficienza e di solidarietà.
Animati da una precisa e radicale opzione evangelica, hanno spesso abbandonato
scuole, ospedali e pensionati. Oggi invece, cosa sta accendendo? Non pochi
istituti rischiano di chiudere le proprie opere, non a causa di una scelta
evangelica e profetica, ma solo per la scarsa o nulla professionalità con cui
vengono gestite.
Volendo guardare con
speranza al futuro, si impone un deciso salto di qualità, incominciando proprio
dal discorso spesso ideologico e perverso del dilettantismo che sta portando
molte opere verso una morte “lenta e graduale”. Non ci si deve illudere. Una
gestione professionalmente qualificata è oggi indispensabile per garantire una
continuità a quelle opere ancora in grado di esprimere il carisma di fondazione
di un determinato istituto religioso.
Non basta neanche la
semplice professionalità dei propri collaboratori e, meno ancora, un risultato
economicamente attivo per legittimare le attività aziendali dei religiosi. Non
tutte le proposte di gestione professionale di un’opera possono essere
automaticamente conciliate col carisma di un istituto religioso. La radicalità
evangelica delle proprie scelte e delle proprie attività, anche in questo
campo, impone un qualcosa di più.
Nel momento in cui un
istituto religioso dà vita a un’opera con delle specifiche prestazioni di
servizi e con dei conseguenti risvolti aziendali e commerciali, deve sapere
che, anche senza volerlo, scende in una specie di “fossa dei leoni” in cui
tutto è fondato sulla competizione e la concorrenza. Sul portone d’ingresso di
un’opera religiosa si possono mettere tutte le insegne “ispiranti” che si
vuole, ma se la prospettiva con cui ci si muove è quella del successo, del
potere, del denaro, la fedeltà al Vangelo è compromessa in partenza.
Anche per questo la scelta
dei collaboratori laici è un’operazione molto delicata. È importante, da pare
loro, anzitutto, ripetiamo, una seria qualificazione professionale. Insieme
alla conoscenza teorica è indispensabile anche tutta l’abilità necessaria per
sapersi muovere con competenza a livello gestionale ed esecutivo nelle opere in
cui si è coinvolti. Questo lo si può facilmente verificare dalla presenza o
meno in loro di una disponibilità ad apprendere, ad aprirsi al nuovo e a
comunicare anche con lo specifico modo di essere di una istituzione religiosa.
Più delicato ancora,
invece, è il problema della loro formazione umana e della loro dimensione
religiosa personale. Non dovrebbero assolutamente mancare alcuni valori umani
fondamentali come la trasparenza, l’onestà, lo spirito di collaborazione e la
bontà. Alla maturità umana si dovrebbe accompagnare, poi, una maturità
cristiana, anche senza la pretesa, almeno iniziale, di una fede robusta e priva
di punti interrogativi. Si dovrebbe essere molto cauti e prudenti nel
coinvolgere professionisti laici “devoti” e “pii”, privi, però, delle qualità
necessarie per far fronte responsabilmente al lavoro che è loro richiesto.
IL RUOLO
DEI RELIGIOSI
Sta ai religiosi, a questo
punto, fare la differenza derivante direttamente dalla loro esperienza di fede
e dalla loro carità. Senza ostentazione, attraverso i loro atteggiamenti
quotidiani dovrebbero saper testimoniare la semplicità, il disinteresse, la
gioia, la gratuità, la dedizione e la fedeltà, anche in termini di orario, al
proprio lavoro, il rispetto della dignità anche dei più modesti tra i
collaboratori, l’amore a Dio. Quando un professionista laico dimostra
seriamente di fare di tutto per migliorare la sua competenza professionale e
manifesta un’apertura di fondo al carisma di fondazione di quel determinato
istituto religioso in cui lavora, onestamente non gli si può chiedere di più.
Non è assolutamente
ragionevole esigere da tutti i collaboratori laici un’adesione indiscussa alla
“spiritualità” e alla “missione” dell’istituto. Certe persone, osserva Murad,
potrebbero manifestare un’adesione al carisma per pura convenienza,
specialmente quando si aggira il fantasma della perdita del posto di lavoro e
quando si ha a che fare con religiosi vanitosi, insicuri o autoritari.
Spetta alla sensibilità dei
religiosi saper articolare in modo originale il rapporto dei laici con il
carisma dell’istituto. Lo possono fare solo a condizione di saper dedicare
tempo, energie e risorse nell’aiutare i professionisti laici più sensibili e
disponibili ad approfondire il senso della loro vita cristiana. Di fronte al
calo inarrestabile delle vocazioni religiose, di fronte al rischio della
scomparsa addirittura dell’istituto, non ci sono alternative a questa
delicatissima e urgente opera di formazione e di discernimento. Questa è una
delle grandi “sfide” di fronte alle quali si trova oggi la vita consacrata. Ma
quanti religiosi ne sono pienamente consapevoli e sono in grado di assumersene
fino in fondo tutta la responsabilità e tutte le conseguenze?
Molti laici non sopportano
più oggi una formazione cristiana fatta di luoghi comuni. Hanno bisogno di
persone che siano un vero riferimento per il proprio cammino di fede. Sono
affascinati da consacrati che prendono sul serio le loro domande esistenziali,
anche senza attendersi immediatamente le risposte. È già fondamentale un
semplice atteggiamento di ascolto. Quanto sarebbe utile che alcuni istituti
promuovessero insieme e più convintamente la formazione cristiana e
l’accompagnamento dei loro professionisti laici. Sarebbe sicuramente una
strategia vincente per potenziare persone e risorse. Diventerebbe una scuola di
vita anche per i religiosi. Quanti di loro, infatti, possono dire di conoscere
a fondo le sfide della vita dei laici, le loro difficoltà e l’impegno di vivere
la fede nella realtà quotidiana, nella complessità del mondo di oggi? In questo
reciproco arricchimento, i laici imparerebbero a lasciar cadere più facilmente
pregiudizi e visioni stereotipate e percepirebbero i consacrati come uomini e
donne normali, pellegrini nella fede come loro, anche se con un’opzione di vita
differente.
Il passo più audace e più
difficile da compiere, soprattutto da parte dei religiosi, spesso anche
involontariamente troppo attaccati al potere, osserva Murad, rimane comunque
quello di affidare a dei laici, professionalmente qualificati e in piena
sintonia con il carisma di un istituto, la gestione vera e propria di una
determinata opera. Sarebbe fin troppo facile scommettere sul conseguimento di
risultati non certo inferiori a quelli raggiunti sotto la direzione dei
religiosi. Il risultato, però, più importante e imprevisto in casi del genere,
sarebbe un altro. Finalmente i religiosi si potrebbero dedicare a tempo pieno
alla formazione dei laici stessi e al compito prioritario
dell’evangelizzazione. In qualunque loro ministero, i consacrati dovrebbero
presentarsi soprattutto come “guide esperte di spiritualità” (VC. 52). Se anche
in passato lo sono sempre stati, oggi lo si dovrebbe essere con una marcia in
più, fino a fare della “formazione delle coscienze”, come ricorda la nota della
Cei dopo il convegno di Verona, uno dei “primi obiettivi del discernimento
ecclesiale” (14).
Angelo Arrighini
1 Cf. A. Murad, “Le
mutue relazioni tra religiosi e laici nelle istituzioni professionali”,
Testimonio 220 (2007).