UN IMPEGNO DI FORMAZIONE PERMANENTE

EDUCARSI  ALLA RELAZIONE

 

Per noi “persone di chiesa” s’impone una riflessione sul nostro modo di essere e sulla formazione che abbiamo ricevuta e che ancora diamo, perché la persona incapace di relazioni manca di qualche cosa d’essenziale che compromette l’intera personalità e l’efficacia della missione.

 

Chi di noi non si è imbattuto in qualche religioso o qualche prete, zelante e dedito alla preghiera, magari anche colto e ricco di iniziative pastorali e caritative, che tuttavia al momento dell’incontro con l’altro lascia l’impressione di essere, come si dice, un “orso”, ossia una persona asociale? Questa è, purtroppo, un’esperienza abbastanza frequente che non cessa di destare interrogativi, quando non scandalo, in coloro che ne prendono coscienza per la prima volta. L’uomo è relazione: ce lo dice l’antropologia, lo ripete la Bibbia e lo fa sentire il senso comune della gente che apprezza e cerca quelle persone con cui è possibile parlare e comunicare. Ma non sempre la persona riesce a sviluppare questa sua importante dimensione.

Quando questa relazionalità in noi “persone di chiesa” non appare, s’impone una riflessione sul nostro modo di essere e sulla formazione che abbiamo ricevuta e che ancora diamo, perché, a ben vedere, la persona incapace di relazioni manca in fondo di qualche cosa d’essenziale che compromette l’intera personalità e l’efficacia della missione. Quando si fa notare a qualcuno la sua incapacità di relazioni, la risposta che si riceve rimanda, in genere, al tempo della formazione accusando il fatto che a quel tempo o non si accentuava quest’aspetto della persona, perché non lo si riteneva necessario al ministero, oppure si ci difende affermando che si tratta di un’esigenza emersa recentemente, troppo tardi per rimediarvi. C’è del vero in queste affermazioni, ma ciò non giustifica la mancanza di relazionalità.

 

FORMAZIONE

O DEFORMAZIONE?

 

In realtà per molto tempo la spiritualità, o una certa spiritualità, riteneva che l’uomo “santo”, che cerca solo Dio, potesse fare a meno degli altri, non avesse bisogno di nessuno per arrivare a Dio. I formatori di allora assicuravano che il buon religioso, soprattutto il missionario, doveva essere in grado di star in piedi sulle sue gambe, senza contare su altri puntelli che non avrebbe mai trovato, inviato com’era in una terra inospitale. Così il modello della perfezione cristiana, religiosa e missionaria, e finalmente anche solo umana, tendeva inevitabilmente verso l’individualismo spirituale. La relazione era vista, al massimo, come il campo in cui esercitare la carità.

C’è forse da stupirsi che una formazione basata su questi presupposti abbia prodotto delle persone sicuramente consacrate a Dio, ma asociali, incapaci di vivere in compagnia con gli altri? Non potevano che essere delle persone per le quali l’altro è uno sconosciuto, uno che non è necessario e che, forse, è impossibile accostare; delle persone incapaci di lasciarsi amare e d’amare, le quali stanno bene quando sono sole; persone che pretendono d’amare tutti senza amare, alla fine, nessuno. Il risultato di questa formazione era, quasi necessariamente, la persona autosufficiente, che sa fare tutto da sola, quando non si vanta di essersi fatta da sola (!), la persona che ha sviluppato la dimensione razionale, ma non quella affettiva e che finisce per vivere nella convinzione che l’affettività – e perciò anche la sessualità – è una realtà ingombrante, difficile da gestire. Ma alla fine queste persone sono forse semplicemente delle persone sfortunate che rischiano di attraversare l’esistenza senza neppure sospettare quante potenzialità della loro persona lasciano inutilizzate. Doni del Creatore, come l’affettività vissuta bene, la sessualità integrata nella crescita della persona, che sono straordinari fattori di crescita e di sviluppo e, nel caso della missione, di una feconda evangelizzazione, rischiano di rimanere solo delle potenzialità non messe in atto, destinate a spegnersi.

 

RICUPERARE

LA RELAZIONALITÀ

 

La constatazione dei danni non basta. Questo è un campo proprio della formazione permanente, che ci impone di misurarci con questo bisogno di relazionalità che non è immaginabile si sviluppi da solo. C’è bisogno di una nuova formazione o di un supplemento di formazione. Oggi nella formazione si parla molto di relazione. E va bene, ma dobbiamo far attenzione ad un errore pedagogico assai frequente, che consiste nell’additare i fini, i valori cui si deve tendere, senza offrire insieme un percorso di cui si segnalano i passaggi necessari – che sono anche quelli più impegnativi – e le opportune mediazioni educative, come quando, insieme con il celibato, non s’insegna anche la maniera di viverlo in un contesto di relazioni proprie del celibe per il regno di Dio. È rischioso indicare degli obiettivi senza insegnare il percorso per raggiungerli.

Oggi i documenti della chiesa universale e locale sulla formazione dei presbiteri e sulla vita consacrata1_ non mancano di attirare l’attenzione su questo tema, per cui nessuno può dimenticare che la relazionalità è parte della formazione, che il religioso vive la sua condizione di celibe per il Regno nel tessuto delle relazioni umane normali e che il missionario deve essere capace di ascolto, di solidarietà vissuta, di relazione e di dialogo… che farebbe altrimenti? Ma queste convinzioni dovrebbero, per così dire, esondare dal quadro della formazione di base per inondare il terreno del ministero, della vita comune e soprattutto della formazione permanente. Solo così si potrà costruire una spiritualità della comunione e della relazione, di cui noi religiosi e missionari siamo supposti essere degli esperti, ma che spesso non riusciamo a tradurre in termini pratici nella nostra esperienza quotidiana, nella vita comune e nel ministero. Se il bisogno di relazione invece di diventare spiritualità della relazione diventasse spiritualità del sentimento, dei piccoli gruppi di amici, di comunità selettive ecc., sarebbe la fine della persona e del suo potenziale relazionale. Così vediamo quelle comunità povere di relazioni, quelle convivenze neutre, fatte di relazioni più enunciate che vissute, in cui non si trova quello che continuamente si annuncia. Tutto ciò consolida ulteriormente la tendenza all’individualismo e al protagonismo che è così difficile eliminare dalla nostra spiritualità.

Che cosa possiamo proporci per crescere nella capacità di relazioni? A noi sembra che siano due i cammini da percorrere con assiduità. Anzitutto la formazione permanente intesa come la capacità di imparare sempre e ovunque (docibilitas2_) e l’amicizia autentica.

 

RELAZIONE

E FORMAZIONE PERMANENTE

 

Non c’è capitolo generale o locale che non faccia appello alla formazione permanente. Solo che, spesso, si dimentica di sottolineare che essa è anzitutto formazione e che, come tale, implica una relazione e che dovrebbe incidere sulla dimensione relazionale della persona, e, in secondo luogo, che la formazione permanente non consiste, anzitutto, nell’impegno a studiare o a frequentare i corsi offerti dall’istituto o dalla chiesa locale. La formazione è un atteggiamento interiore, una costante disponibilità che si apre a Dio e alla sua azione paterna che ad ogni istante cerca di plasmare in noi l’immagine del Figlio (cf. Ef 4,13; Gal 4,15).

Se la formazione permanente si trova nelle mani del Padre, allora ogni situazione di vita e di comunità, ogni passaggio della vita, ogni avvenimento, grande o piccolo, positivo o negativo, ogni persona, ogni membro della comunità, santo o peccatore che possa essere, ogni relazione di lavoro, di ministero, di vicinanza diventa una mediazione della volontà del Padre che vuole la nostra crescita spirituale. In altre parole: ogni incontro diventa luogo di formazione, opportunità e grazia che viene da Dio passando attraverso gli strumenti, pur poveri e limitati, dell’uomo.

Il compito proprio della formazione permanente è quello di imparare dall’altro e da ogni altro. È qui che ci si forma alla docibilitas. In questo modo impariamo a imparare sempre e comunque. Dice Cencini che «un tempo, forse non proprio trapassato, la formazione s’accontentava di formare preti docili; oggi non basta più, occorre formare preti docibili, che hanno scoperto il segreto della formazione e ciò che la rende permanente, che è esattamente il suo esser quotidiana, normale, abituale, feriale … gestita con gli strumenti e utensili della vita d’ogni giorno, cominciare dalle persone, che sono proprio quelle che mi vivono accanto, che io non ho scelto e da cui non sono stato scelto, senza andare a cercare chissà dove convivenze perfette, parrocchie perfette, confratelli perfetti»_.3

Tre sono i versanti relazionali su cui si esercita la docibilitas. Il primo è quello della conoscenza di sé, di quello che uno è (l’io attuale) con gli aspetti meno evidenti, cercando di essere non solo sinceri, ma anche veri con se stessi, andando alla ricerca delle motivazioni che determinano i propri comportamenti. Questo ci mette in relazione con noi stessi per trovare il nostro punto debole e le nostre inconsistenze, riconoscendo le maschere che tendiamo a indossare falsando ogni possibile relazione. Possiamo scoprire il nostro io ideale, quel progetto che Dio ha fatto su di noi e che non è ancora realizzato. È la docibilitas che ci mette in relazione con noi stessi, con il progetto di Dio su di noi e ci fa sentire ogni giorno l’appello a realizzare la chiamata di Dio consolidando la verità di noi stessi, ma anche la nostra autostima a partire proprio da ciò che Dio vuole da noi.

Il secondo versante è quello della relazione con gli altri. Questi, proprio perché sono altri, diversi da me, perché non li ho scelti io, ma con essi sono chiamato a vivere, sono una sicura mediazione che il Padre usa per condurmi alla realizzazione del suo progetto su di me. Essere in relazione con gli altri è una scuola permanente …a condizione che io accetti questo loro ruolo e offra loro l’obbedienza fraterna (“siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”, Ef 5,21), la disponibilità cioè ad ascoltare quello che essi, a volte a parole, più spesso con gli atteggiamenti, mi dicono e mi chiedono. Gli altri sono le persone con cui vivo, per cui lavoro, che incontro nella giornata, quelle che mi sono simpatiche e anche, e forse più, quelle antipatiche. Esse sono quello scalpello che, secondo Pierre Teilhard de Chardin, lo scultore divino usa per formare in noi quella possibile figura che egli ha intravisto nel pezzo di marmo che sta lavorando. Operazione certamente difficile, ma fondamentale nella nostra formazione.

Infine il terzo versante su cui la relazione diventa cammino di formazione permanente e, nello stesso tempo, fonte di formazione alla relazione, è la relazione con Dio, che è il fondamento di ogni relazione della persona. Noi possiamo e dobbiamo vivere il momento dell’incontro con lui come luogo della nostra formazione permanente. È chiaro che la preghiera non può ridursi alla prestazione puntuale di un dovere quotidiano, settimanale, mensile e annuale, come farebbero dei funzionari. Noi ci mettiamo disponibili all’incontro con Dio, non pretendendo di far esperienza di Dio (espressione che è del tutto inadeguata), ma lasciando che sia Dio a fare esperienza di noi, sottoponendoci alla prova, lasciandoci condurre dove lui vuole e dove forse noi non vorremmo. Questa è la vera formazione all’io ideale che Dio ha pensato per noi.

 

AMICIZIE e formazione

ALLA RELAZIONE

 

Il card. Pellegrino, citando mons. Alfred Ancel, afferma che un prete senza amici è «generalmente un prete in pericolo» e continuava : «Certo, l’amicizia umana non basta, ma nella maggior parte dei casi da me conosciuti i preti che hanno lasciato erano preti che non avevano trovato il sostegno di una vera amicizia»_.4 La stessa cosa possiamo dire di quelle persone consacrate che non sentono il bisogno e la bellezza dell’intimità della propria comunità e che non cercano la fraternità e l’amicizia. Non ci si può nascondere che questo discorso delle amicizie è delicato e va fatto con le debite precisazioni, ma sembra proprio di poter sottoscrivere quello che ha detto il p. Jean Laplace sj: «Quando non esistono le relazioni con Dio, quelle con gli uomini non sono migliori»_.5 Certamente la prima amicizia da coltivare è quella con i confratelli della propria comunità. Essa non si deve dare per scontata, perché tale non è e non sarà. Ma anche le amicizie fuori comunità sono costruttive della dimensione relazionale della persona, a condizione che si tratti di amicizie sbocciate nella libertà interiore, a partire cioè dalla certezza di aver già ricevuto amore nella propria vita per cui tali amicizie non si cercano, più o meno consciamente, per catturare l’amore altrui, usando l’altro per le proprie necessità affettive. E, in secondo luogo, non deve trattarsi di un’amicizia che metta il soggetto al centro della relazione. Questa non sarebbe una relazione celibataria.

 

Gabriele Ferrari s.x.

ferrari@tavernerio-saveriani.it

1 Ne citiamo tre per tutti, tra i più recenti, Pastores dabo vobis, esortazione apostolica di Giovanni Paolo II sulla formazione dei preti (1992) e Potissimum institutioni, Istruzione della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica sulla formazione negli istituti religiosi (1990) e La formazione dei presbiteri nella chiesa italiana. Orientamenti e norme per i seminari, documento della CEI (2006). E poi ci sono i documenti dei vari istituti che qui non possiamo certamente citare.

2 A. Cencini, La grazia della relazione, Presbyteri 6 (2007) 443.

3 Ibid., 444.

4 Mons. Alfred Ancel (1898-1984), prete operaio e successivamente vescovo ausiliare di Lione, è citato dal card. Michele Pellegrino in Castità e celibato sacerdotale, Torino-Leumann 1969, p. 26.

5 J. Laplace, Le prêtre à la recherche de lui-même, citato da M. Gaidon, Amitiés sacerdotales et célibat, Seminarium 1 (1993), 82.