IL PAPA AI SACERDOTI E
RELIGIOSI
“SIATE COME LAMPADE”
Nel corso del suo viaggio in Austria, dalla grande
basilica mariana di Mariazell, il papa, sabato 8 settembre, durante la
celebrazione dei vespri, ha rivolto un importante discorso ai sacerdoti,
religiosi e religiose, richiamando i grandi valori su cui è radicata e fondata
la loro vita.
«Cari amici, come
sacerdoti, religiosi e religiose, voi siete servi e serve della missione di
Gesù Cristo. Come duemila anni fa Gesù ha chiamato persone alla sua sequela,
così anche oggi giovani uomini e donne alla sua chiamata si mettono in cammino,
affascinati da lui e mossi dal desiderio di porre al servizio della Chiesa la
propria vita, donandola per aiutare gli uomini. Hanno il coraggio di seguire
Cristo e vogliono essere suoi testimoni. La vita al seguito di Cristo è, di
fatto, un’impresa rischiosa, perché siamo sempre minacciati dal peccato, dalla
mancanza di libertà e dalla defezione. Perciò abbiamo tutti bisogno della sua
grazia, così come Maria la ricevette in pienezza. Impariamo a guardare sempre,
come Maria, a Cristo prendendo lui come criterio di misura...
Il Signore vi invita al
pellegrinaggio della Chiesa “nel suo cammino attraverso i tempi”. Vi invita a
farvi pellegrini con lui e a partecipare alla sua vita che ancora oggi è Via
Crucis e via del Risorto attraverso la Galilea della nostra esistenza. Sempre,
però, è lo stesso e identico Signore che, mediante lo stesso unico battesimo,
ci chiama all’unica fede. La partecipazione al suo cammino significa dunque
ambedue le cose: la dimensione della Croce – con insuccessi, sofferenze,
incomprensioni, anzi addirittura disprezzo e persecuzione –, ma anche
l’esperienza di una profonda gioia nel suo servizio e l’esperienza della grande
consolazione derivante dall’incontro con lui. Come la Chiesa, così le singole
parrocchie, le comunità e ogni cristiano battezzato traggono l’origine della
loro missione dall’esperienza del Cristo crocifisso e risorto.
Il centro della missione di
Gesù Cristo e di tutti i cristiani è l’annuncio del regno di Dio. Questo
annuncio nel nome di Cristo significa per la Chiesa, per i sacerdoti, i
religiosi e le religiose, come per tutti i battezzati, l’impegno di essere
presenti nel mondo come suoi testimoni. Il regno di Dio, infatti, è Dio stesso
che si rende presente in mezzo a noi e regna per mezzo nostro. L’edificazione
del regno di Dio, pertanto, avviene quando Dio vive in noi e noi portiamo Dio
nel mondo. Voi lo fate, rendendo testimonianza di un “senso” che è radicato
nell’amore creativo di Dio e si oppone a ogni insensatezza e ad ogni
disperazione. Voi state dalla parte di coloro che cercano faticosamente questo
senso, dalla parte di tutti coloro che vogliono dare alla vita una forma
positiva. Pregando e chiedendo, siete gli avvocati di coloro che sono alla
ricerca di Dio, che sono in cammino verso Dio. Voi rendete testimonianza di una
speranza che, contro ogni disperazione muta o manifesta, rimanda alla fedeltà e
all’attenzione amorevole di Dio. Con ciò siete dalla parte di tutti coloro che
hanno il dorso piegato sotto destini pesanti e non riescono a liberarsi dai
loro fardelli.
Rendete testimonianza di
quell’Amore che si dona per gli uomini e così ha vinto la morte. State dalla
parte di coloro che non hanno mai sperimentato l’amore, che non riescono più a
credere nella vita. Vi opponete così ai molteplici tipi di ingiustizia nascosta
o aperta, come anche al disprezzo degli uomini che sta espandendosi. In questo
modo tutta la vostra esistenza deve essere, come quella di Giovanni Battista,
un grande, vivo rimando a Gesù Cristo, il Figlio di Dio incarnato. Gesù ha
qualificato Giovanni “una lampada che arde e risplende” (Gv 5,35). Siate anche
voi simili lampade! Fate brillare la vostra luce nella nostra società, nella
politica, nel mondo dell’economia, nel mondo della cultura e della ricerca.
Anche se è solo un piccolo lume in mezzo a tanti fuochi fatui, esso tuttavia
riceve la sua forza e il suo splendore dalla grande stella del mattino, il
Cristo risorto, la cui luce brilla – vuole brillare attraverso noi – e non
tramonterà mai.
SIGNIFICATO
DEI VOTI
Seguire Cristo – noi
vogliamo seguirlo – seguire Cristo significa crescere nella condivisione dei
sentimenti e nell’assimilazione dello stile di vita di Gesù; è quanto ci dice
la Lettera ai Filippesi: “Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo!” (cf. 2, 5).
“Guardare a Cristo” è il motto di questi giorni. Nel guardare a lui, il grande
Maestro di vita, la Chiesa ha scoperto tre caratteristiche che risaltano nell’atteggiamento
di fondo di Gesù. Queste tre caratteristiche – le chiamiamo con la tradizione i
“consigli evangelici” – sono divenute le componenti determinanti di una vita
impegnata nella sequela radicale di Cristo: povertà, castità e obbedienza.
Riflettiamo in questa ora un po’ su queste caratteristiche.
Povertà
Gesù Cristo, che era ricco
di tutta la ricchezza di Dio, si è fatto povero per noi, ci dice san Paolo
nella seconda Lettera ai Corinzi (cf. 8, 9); è questa una parola inesauribile,
sulla quale sempre dovremmo tornare a riflettere. E nella Lettera ai Filippesi
si legge: Ha spogliato se stesso e si è umiliato facendosi obbediente fino alla
morte di croce (cf. 2, 6ss). Egli, che si è fatto povero, ha chiamato “beati” i
poveri. San Luca, nella sua versione delle Beatitudini, ci fa capire che questa
affermazione – il proclamare beati i poveri – riguarda senz’altro la gente
povera, veramente povera, nell’Israele del suo tempo, dove c’era un contrasto
opprimente tra ricchi e poveri. San Matteo nella sua versione delle Beatitudini
ci spiega, tuttavia, che la semplice povertà materiale come tale da sola non
garantisce ancora la vicinanza a Dio, perché il cuore può essere duro e pieno
di brama di ricchezza. Matteo – come tutta la Sacra Scrittura – ci lascia però
capire che, in ogni caso, Dio ai poveri è vicino in modo particolare.
Così diventa chiaro: il
cristiano vede in loro il Cristo che lo attende, aspettando il suo impegno. Chi
vuol seguire Cristo in modo radicale, deve rinunciare ai beni materiali. Deve,
però, vivere questa povertà a partire da Cristo, come un diventare
interiormente libero per il prossimo. Per tutti i cristiani, ma specialmente
per noi sacerdoti, per i religiosi e le religiose, per i singoli come pure per
le comunità, la questione della povertà e dei poveri deve essere sempre di
nuovo oggetto di un severo esame di coscienza. Proprio nella nostra situazione,
in cui non stiamo male, non siamo poveri, penso che dobbiamo riflettere
particolarmente su come possiamo vivere questa chiamata in modo sincero. Vorrei
raccomandarlo al vostro – al nostro – esame di coscienza.
Castità
Per comprendere bene che
cosa significhi castità, dobbiamo partire dal suo contenuto positivo. Lo
troviamo ancora una volta solo guardando a Gesù Cristo. Gesù ha vissuto in un
duplice orientamento: verso il Padre e verso gli uomini. Nella Sacra Scrittura
veniamo a conoscerlo come persona che prega, che passa intere notti in dialogo
col Padre. Pregando egli inseriva la sua umanità e quella di tutti noi nel
rapporto filiale col Padre. Questo dialogo diventava poi sempre nuovamente
missione verso il mondo, verso di noi. La sua missione lo conduceva a una
dedizione pura e indivisa agli uomini. Nelle testimonianze delle Sacre
Scritture non vi è alcun momento della sua esistenza in cui si possa scorgere,
nel suo comportamento verso gli uomini, una qualche traccia di interesse
personale o di egoismo. Gesù ha amato gli uomini nel Padre, a partire dal Padre
– e così li ha amati nel loro vero essere, nella loro realtà.
L’entrare in questi
sentimenti di Gesù Cristo – in questo essere totalmente in comunione col Dio
vivente e in questa comunione tutta pura con gli uomini, a loro disposizione
senza riserve – questo entrare nei sentimenti di Gesù Cristo ha ispirato a
Paolo una teologia e una prassi di vita che risponde alla parola di Gesù sul
celibato per il Regno dei cieli (cf. Mt 19, 12). Sacerdoti, religiosi e
religiose non vivono senza connessioni interpersonali. Castità, al contrario,
significa – e da ciò volevo partire – un’intensa relazione; è positivamente una
relazione col Cristo vivente e a partire da ciò col Padre. Perciò con il voto
di castità nel celibato non ci consacriamo all’individualismo o ad una vita
isolata, ma promettiamo solennemente di porre totalmente e senza riserve al
servizio del regno di Dio – e così a servizio degli uomini – gli intensi
rapporti di cui siamo capaci e che riceviamo come un dono. In questo modo i
sacerdoti, le religiose e i religiosi stessi diventano uomini e donne della
speranza: contando totalmente su Dio e dimostrando in questo modo che Dio per
loro è una realtà, creano spazio alla sua presenza – alla presenza del regno di
Dio – nel mondo. Voi, cari sacerdoti, religiosi e religiose, offrite un
contributo importante: in mezzo a tutta la cupidigia, a tutto l’egoismo del non
saper aspettare, alla brama di consumo, in mezzo al culto dell’individualismo
noi cerchiamo di vivere un amore disinteressato per gli uomini. Viviamo una
speranza che lascia a Dio il compito della realizzazione, perché crediamo che
egli la compirà.
Che cosa sarebbe successo
se nella storia del cristianesimo non ci fossero state queste figure
indicatrici per il popolo? Che cosa sarebbe del nostro mondo, se non ci fossero
sacerdoti, se non ci fossero donne e uomini negli ordini religiosi e nelle
comunità di vita consacrata – persone che con la loro vita testimoniano la
speranza di un appagamento più grande dei desideri umani e l’esperienza
dell’amore di Dio che supera ogni amore umano? Il mondo ha bisogno della nostra
testimonianza proprio oggi.
Obbedienza
Veniamo all’obbedienza.
Gesù ha vissuto tutta la sua vita, dagli anni nascosti a Nazaret fino al
momento della morte in croce, nell’ascolto del Padre, nell’obbedienza verso il
Padre. Vediamo, ad esempio, la notte sul Monte degli ulivi. “Non sia fatta la
mia, ma la tua volontà”. Mediante questa preghiera Gesù assume nella sua
volontà di Figlio la caparbia resistenza di tutti noi, trasforma la nostra
ribellione nella sua obbedienza. Gesù era un orante. In ciò era però anche uno
che sapeva ascoltare e obbedire: fatto “obbediente fino alla morte, e alla
morte di croce” (Fil 2,8). I cristiani hanno sempre sperimentato che,
abbandonandosi alla volontà del Padre, non si perdono, ma trovano in questo
modo la via verso una profonda identità e libertà interiore. In Gesù hanno
scoperto che trova se stesso colui che si dona, diventa libero chi si lega in
un’obbedienza fondata in Dio e animata dalla ricerca di Dio. Ascoltare Dio e
obbedirgli non ha niente a che fare con costrizione dall’esterno e perdita di
se stesso. Solo entrando nella volontà di Dio raggiungiamo la nostra vera
identità. La testimonianza di questa esperienza è oggi necessaria al mondo
proprio in rapporto al suo desiderio di “autorealizzazione” e
“autodeterminazione”.
Romano Guardini racconta
nella sua autobiografia come, in un momento critico del suo cammino, quando la
fede della sua infanzia gli era diventata insicura, gli fu donata la decisione
portante di tutta la sua vita – la conversione – nell’incontro con la parola di
Gesù secondo cui trova se stesso solo colui che si perde (cf. Mc 8, 34s; Gv 12,
25); senza l’abbandono, senza il perdersi non può esserci un ritrovamento di
sé, un’autorealizzazione. Ma poi gli viene la domanda: in quale direzione è
lecito perdermi? A chi posso donarmi? Gli si rese evidente che possiamo donarci
completamente solo se nel farlo cadiamo nelle mani di Dio. Solo in lui possiamo
alla fine perderci e solo in lui possiamo trovare noi stessi.
Successivamente, però gli
si presentò la domanda: Chi è Dio? Dov’è Dio? E allora comprese che il Dio al
quale possiamo abbandonarci è solo il Dio resosi concreto e vicino in Gesù
Cristo. Ma di nuovo gli si pose la domanda: dove trovo Gesù Cristo? Come posso
veramente donarmi a lui? La risposta trovata da Guardini nella sua ricerca
faticosa suona: Gesù è presente a noi in modo concreto solo nel suo corpo, la
Chiesa. Per questo l’obbedienza alla volontà di Dio, l’obbedienza a Gesù
Cristo, nella prassi deve essere molto concretamente un’umile obbedienza alla Chiesa.
Penso, che anche su questo dovremmo sempre di nuovo fare un profondo esame di
coscienza. Tutto ciò si trova riassunto nella preghiera di sant’Ignazio di
Loyola – una preghiera che sempre mi appare troppo grande, al punto che quasi
non oso dirla e che, tuttavia, dovremmo sempre di nuovo, pur con fatica,
riproporci: “Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà, la mia memoria, il
mio intelletto e tutta la mia volontà, tutto ciò che ho e possiedo; tu me l’hai
dato, a te, Signore, lo ridono; tutto è tuo, di tutto disponi secondo ogni tua
volontà; dammi soltanto il tuo amore e la tua grazia, e sono ricco abbastanza,
né chiedo alcunché d’altro” (Eb 234)».