ALL’ORIGINE DEL DONO E DEL SERVIZIO

VEDERE CON IL CUORE

 

Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa. Egli sa che la migliore testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare è la carità. Sa che Dio è amore e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare.

 

Pongo all’inizio di questa riflessione quelli che papa Benedetto XVI chiama gli “Elementi costitutivi che formano l’essenza della carità cristiana ed ecclesiale”. (Deus caritas est 31).1

Premesso che, «secondo il modello della parabola del buon samaritano, la carità cristiana è dapprima semplicemente la risposta a ciò che, in una determinata situazione, costituisce la necessità immediata: gli affamati devono essere saziati, i nudi vestiti, i malati curati in vista della guarigione, i carcerati visitati, ecc.»; premesso questo, dicevo, l’enciclica indica come primo «elemento costitutivo» della carità cristiana la «competenza professionale», ossia la capacità di «fare la cosa giusta nel modo giusto», come pure una certa capacità organizzativa. Ma questa professionalità, da sola, non basta. «Si tratta infatti di esseri umani, e gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa di più di una cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno dell’attenzione del cuore». Di qui il secondo, e più importante, elemento costitutivo della carità cristiana: la «formazione del cuore», diciamo pure una tale interiorizzazione di Cristo che sia capace di farci diventare il più possibile come lui, addirittura una cosa sola insieme a lui. Un cuore formato sul modello di Cristo è un cuore per il quale l’amore al prossimo non è più «un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla fede che diventa operante nell’amore» (DCE 31).

Proprio perché il suo modello è rappresentato da Gesù Cristo e nasce dalla fede, la carità cristiana – ecco il suo terzo  «elemento costitutivo» – «deve essere indipendente da partiti e ideologie». Benedetto XVI conosce bene la vicenda storica degli ultimi due secoli, il peso esercitato da ideologie politiche che, si pensi soprattutto al marxismo, hanno gettato discredito sulle opere caritative, poiché considerate al servizio della conservazione dello status quo e quindi di ostacolo al pieno dispiegamento della dialettica rivoluzionaria; conosce bene altresì la tentazione che serpeggia in molti partiti politici di strumentalizzare a proprio vantaggio le opere di carità della Chiesa e di presentarsi così come il partito del bene. Ma proprio per questo egli insiste con tanta forza sulla specificità della carità della Chiesa, preoccupandosi che essa non diventi una variante delle tante «organizzazioni assistenziali»; proprio per questo, quale suo quarto «elemento costitutivo», egli insiste con altrettanta forza sul fatto che la stessa carità della Chiesa «non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo». Con parole molto belle Benedetto XVI ricorda che «L’amore gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi (…) Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa. Egli sa che l’amore nella sua purezza e nella sua gratuità è la migliore testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare. Il cristiano sa (…) che Dio è amore e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare. Egli sa  che il vilipendio dell’amore è vilipendio di Dio e dell’uomo, è il tentativo di fare a meno di Dio. Di conseguenza la miglior difesa di Dio e dell’uomo consiste proprio nell’amore. È compito delle organizzazioni caritative della Chiesa rafforzare questa consapevolezza nei propri membri, in modo che attraverso il loro agire – come attraverso il loro parlare, il loro tacere, il loro esempio, diventino testimoni credibili di Cristo» (DCE 31)”.2

Mi fermerò a svolgere alcune considerazioni sul secondo degli elementi costitutivi proposti dal papa: “la formazione del cuore”.

 

UN CUORE

CHE VEDE

 

Nello stesso punto il papa afferma che: «Il programma del cristiano — il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù — è “ un cuore che vede”. Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente» (DCE 31). La prima formazione relativa al cuore deve riguardare la capacità di vedere. Un vedere che spazia in due direzioni: a) saper vedere quanto abbiamo ricevuto, le nostre origini; b) vedere le necessità dell’altro e dedicarvisi nel servizio.

Un cuore che vede comporta quindi un esercizio a cogliere l’esperienza originaria di amore che sta al nostro inizio (il bene che abbiamo ricevuto), la consapevolezza cioè che il nostro amore nasce da un Amore che ci precede, dall’Amore di quel Dio che “per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo” (DCE 17). È  parte essenziale della nostra formazione saper cogliere, “vedere”, che sin dall’inizio siamo inseriti in una realtà di dono. La nostra vita è un dono che abbiamo ricevuto, un’esistenza che è stata sottratta al nulla grazie a una chiamata d’amore di Dio. E non è così scontato avere questa consapevolezza di dovere la nostra esistenza a un dono di amore. È un buon esercizio tornare con la consapevolezza a riflettere sul tanto di amore che c’è all’origine della nostra esistenza, a cominciare dall’atto d’amore tra due esseri umani (i nostri genitori) da cui siamo nati, su, su fino al gesto d’amore di Dio. Una persona che porti dentro di sé l’oscura consapevolezza di non essere frutto di un atto d’amore è gravata di un peso del quale solo con grande fatica potrà liberarsi. In estrema sintesi quindi, per vivere pienamente la nostra capacità di amare e di donarci agli altri è necessario formarci la consapevolezza, coltivarla dentro di noi, che la nostra esistenza è frutto di un atto di amore, che essa è preceduta e si fonda su un atto d’amore gratuito e assoluto. E, ripeto, questa consapevolezza va coltivata nella riflessione, nella preghiera.

Ci tengo a sottolineare un aspetto: nel volontariato così come in qualsiasi azione in cui sia coinvolta la carità non possiamo affidarsi solo al “sentire”, affidarsi solo a ciò che “sente” il cuore. La carità non può essere solo figlia del mio “sentire”, di ciò che mi sento di fare. La carità non è materia che possa rimanere confinata e affidata solo a ciò che mi sento o non mi sento di fare. La carità è una chiamata di Dio che vive dentro ogni essere umano e non può essere vissuta solo come una delle possibilità che ho. La carità fa parte del mio essere una persona, è uno degli aspetti che mi permettono di essere una persona umana, non è un optional. La carità è uno degli elementi che permettono di dare un senso alla mia vita addirittura ne può (ne deve) diventare il senso globale e totalizzante. Amare gli altri quindi non è un appello a cui possiamo o meno rispondere a seconda dello stato d’animo che viviamo e di quanta voglia abbiamo, ma è un compito che siamo chiamati ad assolvere. Amare nella vita di un essere umano non è un optional, è un compito che, se viene tradito, a essere tradita è la mia stessa natura di essere umano. Far rientrare l’amore nelle realtà relative significa relativizzare l’essere umano nelle sue pieghe più profonde. Chi poi pone l’amore nell’ambito dei sentimenti che nascono solo quando mi vibra il cuore (in un romanticismo esasperato), costui prepara la strada all’eliminazione dell’essere umano.

Nell’enciclica Familiaris consortio troviamo espresso con forza questo concetto secondo il quale: “l’amore è la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano” (FC 11). In questo senso possiamo comprendere le parole del grande filosofo Levinas per il quale l’impegno etico, e quindi ogni azione di volontariato, non può essere semplicemente il frutto di una mia decisione, di un mio atto di volontà, ma proprio perché ha come destinatario un’altra persona, un “volto” nella terminologia levinassiana,  precede la mia libertà. L’azione di volontariato non ha la sua origine nella mia volontà, né si pone come frutto della mia libertà perché l’azione caritatevole non è un qualcosa che io posso fare, ma è una esigenza che io ho per poter essere un uomo libero. Senza paura di esagerare si può dire che possiamo essere liberi nella misura in cui esiste un altro a cui mi rivolgo con carità. Anche Giovanni Paolo II nella sua enciclica sulla solidarietà aveva affermato: « (la solidarietà) non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone vicine o lontane. Al contrario è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché siamo tutti veramente responsabili di tutti».3

 

VEDERE

LE NECESSITÀ DELL’ALTRO

 

Cominciamo così a cogliere la seconda caratteristica del “cuore che vede”, quello che abbiamo chiamato il saper vedere le necessità e i bisogni dell’altro, vedere la quotidianità, la ferialità della persona umana. In questo senso è un cuore di madre, pronto a percepire le  piccole necessità, ad essere attento a quelle dimensioni dell’ordinario che rendono la vita serena, armonica. Il “cuore che vede” non corre dietro a fantastiche visioni, a chimere, ma vede ciò che è necessario vedere, vede quell’essenziale che troppo spesso passa inosservato o ci risulta invisibile, cioè quella dimensione del reale che sola ha valore e che vale la pena vedere.4 Ciò che dobbiamo educarci a vedere è «L’uomo “oggettivo” delle vie della storia, è l’uomo debilitato, appesantito dalle passioni che lo bruciano, confuso nelle sue percezioni, facile alle illusioni e ai miraggi, alla mercé dei predatori: è l’uomo “malato”, la pecorella smarrita che corre lungo il ciglio del dirupo. Quest’uomo rimane povero anche quando veste paludamenti satanici; anche quando genera inenarrabili sofferenze e partorisce violenza, egli resta pur sempre senza risorse, profondamente bisognoso, radicalmente malato. È un pover’uomo sotto l’ombra della morte».5

Qui il cuore che sa vedere tutto questo, è un cuore educato a cogliere le necessità e riconoscerle, a commuoversi per esse e ad agire per rispondervi. Questo è in estrema sintesi il movimento che sta alla base di ogni azione caritatevole, improntata cioè all’amore. Ma vediamo nel dettaglio:

 

a) un cuore che sa cogliere le necessità. Qui la persona si educa a saper vedere oltre le apparenze, oltre le maschere, oltre le prime impressioni. Nel cuore educato a vedere si sviluppa una capacità di percepire la situazione di fragilità e di debolezza dell’altro, di percepirne il grido sommesso, il velo di tristezza che rapidamente passa su uno sguardo, l’incrinazione che si coglie in una frase. È un cuore materno per il quale nulla è insignificante, ma tutto è segno e comunicazione. Dobbiamo apprendere a mantenere uno sguardo d’amore sulla realtà che ci circonda, perché solo uno sguardo che venga direttamente dagli abissi della nostra intimità è capace di essere creatore e di risvegliare e promuovere la vita. Troppo spesso limiti e difetti delle persone rappresentano per noi un sudario nel quale le avvolgiamo facendo della loro vita una realtà priva di calore, immobile, immersa in una penombra opprimente. Lo sguardo d’amore sa penetrare tale penombra, sa vedere oltre limiti e difetti e sa fare intuire che c’è ancora la possibilità di fare tante cose belle, che è sempre possibile ripartire. È uno sguardo che rincuora, infonde nuova speranza e rinnova la fiducia.

 

b) un cuore che si commuove. Nessuna azione può essere messa in atto senza che alla base vi sia un coinvolgimento che mi smuove fin dall’interno. La necessità che colgo nell’altro non mi lascia indifferente penetra fin nelle dimensioni più profonde. Mi scuote, suscita un’eco dentro di me. E non si tratta di un semplice sentimentalismo, o della lacrimuccia passeggera. No è una emozione che va alla radice della mia stessa identità. Nella necessità dell’altro colgo la radice che ci accomuna, l’origine comune e il destino comune tra me e l’altro. Nella necessità dell’altro faccio esperienza del mistero che ci accomuna. Entrambi apparteniamo a un mistero, entrambi siamo un mistero a noi stessi che nell’incontro con l’altro riceve un’offerta di luce e di, seppur minima, rivelazione. L’altro con la sua necessità «si presenta costantemente come una “domanda”, una questione o una serie di questioni, un mondo da scoprire e da conoscere, un insieme di interessi e valori che non possono non interpellare, una provocazione costantemente rivolta al soggetto, a volte un “enigma”, difficile da decifrare, altre volte una “risposta”, più o meno attesa o difficile da accettare».6 Il fatto che io mi commuovo della necessità dell’altro fa sì che io oltrepassi la frontiera, apparentemente invalicabile,  dentro la quale rimanevo al sicuro e mi renda disponibile all’incontro, al rischio dell’incontro, al coinvolgimento nella vita dell’altro. Oltrepassata questa frontiera all’essere umano non sarà più possibile essere indifferente perché grazie al coinvolgimento la mia vita e quella dell’altro sono diventate materia di scambio, di offerta, di coesistenza.

 

c) grazie alla commozione e al coinvolgimento che la costituisce giungiamo alla esigenza della risposta. L’essere umano si realizza là dove la necessità vista, grazie al coinvolgimento mi porta ad agire per rispondere a tale necessità. Ma quello dell’azione è un terreno infido che ha delle dimensioni di ombra verso le quali è bene mettersi in guardia. Accenno solo ad alcune dimensioni dell’azione che potrebbero snaturare o tradire la sua funzione: 1) L’azione come promozione di sé, come strumento per tentare di primeggiare, come mezzo per ricevere applausi, per sentirsi bravi efficaci, per nutrire il proprio protagonismo, ecc.; 2) L’azione come agitazione per coprire proprie situazioni di disagio o di confusione, per sfuggire a problemi o difficoltà che non si vogliono affrontare; 3) l’azione come umiliazione dell’altro, come mezzo per definire una superiorità sull’altro se non addirittura un possesso, la persona che dà si sente migliore di colui che riceve, la mia azione accentua i limiti e le difficoltà dell’altro; 4) l’azione come sostituzione dell’altro, per cui si crea una forma di dipendenza dell’altro da me, con la mia azione tolgo autonomia all’altro, mi sostituisco a lui e in questo modo ne limito la dignità, il mio agire lascia l’altro in una situazione di infantilismo e di dipendenza.

Al contrario l’azione del volontario, l’azione segnata dalla carità è: 1) un’azione che ha come scopo primo quello di promuovere la dignità e le capacità dell’altro, qualsiasi esse siano; 2) ha come finalità quella di rendere l’altro indipendente da me, autonomo e quindi mira a rendere superfluo il mio intervento (l’azione caritatevole paradossalmente ha tanto più successo quanto più diventa superflua, inutile); 3) pone l’altro al centro come protagonista della sua vita aprendolo, grazie alla fiducia, alla speranza e all’ottimismo; 4) è un’azione che rende attivo l’altro, promuove tutte le sue possibilità ed energie, ne sviluppa tutte le potenzialità e in questo senso deve caratterizzarsi per la fantasia e la creatività; 5) è un’azione che si pone come stimolo e spinta alla libera azione dell’altro e mai mira a possederlo, a trattenerlo, a usarlo per i propri scopi.

 

Affinché l’azione sia caritatevole deve avere tutte queste caratteristiche, ma soprattutto, come dice il papa nella sua enciclica: «L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. L’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umili l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona» (DCE 34). Lo stesso concetto papa Benedetto XVI lo espone in maniera forse ancor più diretta in un discorso fatto a febbraio a gruppi di volontariato: «Il rischio, in effetti, è che il volontariato possa ridursi a semplice attivismo. Se invece resta vitale la carica spirituale, può comunicare agli altri ben di più che le cose materialmente necessarie: può offrire al prossimo in difficoltà lo sguardo di amore di cui ha bisogno».7

 

FORMARE IL CUORE

ALLA GRATITUDINE

 

Una dimensione cui dobbiamo educare la nostra affettività e quindi il nostro cuore è senz’altro quella della gratitudine. Che non è solo, come dicevamo all’inizio gratitudine per il dono d’amore che è all’origine della nostra esistenza, ma è gratitudine per la possibilità che ci è offerta di servire il povero. «Federico Ozanam insegnava ai suoi amici universitari che i poveri vengono in soccorso alla nostra fede, perché ci permettono – come Gesù permise a Tommaso – “di mettere il dito e la mano nelle piaghe di Gesù” e “di vedere i segni della corona di spine sulla loro fronte”, e ci permettono “di pronunciare il Dominus meus et Deus meus del credente”».8 Sappiamo quanto don Calabria teneva a rendere consapevoli i benefattori che la loro carità, i benefici e le offerte che facevano alla casa, erano un’autentica grazia “per loro”. Il poter fare la carità, il poter servire, nella visione di don Calabria, equivaleva alla chiamata a una dignità tutta particolare. Ugualmente per chi dà del suo tempo, per chi offre un servizio, per chi si dispone a vivere la carità con la vita vissuta, il povero deve essere considerato una grande chiamata a una eccelsa dignità. Una nomina regale! Poter lavorare nella vigna del Signore è un dono. Forse è difficile pensarlo, ma il fatto di dare qualcosa, di servire nell’Opera equivale a un ricevere, e un ricevere moltissimo. Se fosse presente questo senso di gratitudine per poter fare qualcosa nella vigna del Signore probabilmente tanti mugugni si spegnerebbero o non avrebbero più alcun senso.

Viviamo un’epoca in cui la gratitudine è sentimento raro, è merce finita tra i fondi di magazzino. Viviamo il tempo dell’affermazione dei diritti, della necessità di soddisfare le mie necessità, di realizzare le mie aspettative. Ma questo ci lascia sempre in uno stato di recriminazione: non è mai abbastanza quello che abbiamo ricevuto, avremmo dovuto ricevere sempre di più, il mondo è sempre in debito con noi. Un cuore che vivesse questa serie di sentimenti e che non fosse quindi permeato dalla gratitudine, avrebbe ben poca possibilità di vivere un’autentica carità. La carità infatti non è una delle voci da mettere nel nostro bilancio tra i crediti per i quali attendersi un ricavo. La carità è una moneta che dobbiamo essere grati di poter spendere e spendere in abbondanza, dilapidare. Il libro mastro della carità ha solo una voce in uscita e nulla in entrata (se non il capitale iniziale, di cui parlavamo all’inizio, della consapevolezza dell’amore originario di Dio da cui siamo nati). Attendersi il pareggio di bilancio ci porterebbe a vivere in uno stato d’animo di costante recriminazione.

Ma lasciar vivere e svilupparsi dentro di noi un senso di gratitudine per il servizio che ci è data la possibilità di realizzare significa anche sottrarsi a una visione che vede il nostro agire caritatevole come qualcosa di fuori dall’ordinario che si pone come eccezione alla regola dell’egoismo. Il gesto di carità non può diventare equivalente all’elemosina che ogni tanto faccio, la carità, l’agire con carità è l’ordinario, è il filo che tiene insieme i pezzi della nostra esistenza quotidiana. La carità unifica la mia vita, la rende comprensibile, solida. L’azione caritatevole mi aiuta a definirmi, a dire chi sono, mi realizza nella completezza del mio essere persona e dunque anche per  questo devo essere grato per poter agire in modo caritatevole.

 

FORMARE IL CUORE

AL PERDONO

 

Per poter mettere in atto un gesto caritatevole dobbiamo essere in grado di perdonare. Il perdono è ciò che sostiene un rapporto d’amore. Anzi è ciò che sostiene il mondo. «Un vecchio rabbino soleva dire che quando Dio creò il mondo, non riusciva a farlo stare in piedi. Poi creò il perdono, e il mondo stette in piedi».9 La capacità di perdonare è il segno evidente della nostra appartenenza a una dimensione che supera il semplicemente umano: «Il perdono – dice mons. Luciano Mendes de Almeida –  è il più bel fiore della creazione, è il simbolo del cristiano». È molto importante educarci al perdono perché è il perdono che rende il nostro cuore abitabile dall’altro: «Un cuore agitato di preoccupazioni, rabbia e gelosie, causa delle ferite a chi vi entra. Devo creare in me una zona libera. Per poter invitare gli altri ad entrare e guarire... Ciò significa una interiorità dolce, un cuore di carne e non un cuore di pietra, uno spazio dove si può camminare a piedi nudi» (Henry J. Nouwen).  Grazie al perdono sappiamo creare questa “zona libera” e deve essere un perdono che si esprime in due direzioni: a) saper perdonare a me stesso; b) saper perdonare agli altri. Senza queste due dimensioni è molto difficile poter realizzare dei gesti caritatevoli. La carità non si regge senza il perdono. Infatti: «Solo un cuore misericordioso può farsi vicino al cuore di un altro, in modo da entrarvi delicatamente, percepirne i battiti e gli umori, le tensioni e le accelerazioni, con tutto quanto questo significa (…) Entrare nel cuore di un altro suppone l’essere entrati prima nel proprio cuore, conoscerne bene mura e sotterranei, avere dimestichezza col suo linguaggio e i suoi messaggi; vuol dire in qualche modo avere misericordia del proprio cuore, sapere che in esso convivono il santo e il peccatore, l’ordine e il disordine, le più nobili aspirazioni e le più forti tentazioni…».10

Perdonare noi stessi quindi significa riconoscere le ferite che segnano e hanno segnato la nostra esistenza, cogliere quella domanda che giace assai spesso inespressa nel fondo del nostro cuore rispondendo alla quale la persona si libera e diventa quella “zona libera” di cui parlava Nouwen prima. Riconoscere cioè una sofferenza che alberga in noi che può consistere in situazioni che hanno incrinato il nostro bisogno di stima, di affetto, di comprensione, di riconoscimento, di appartenenza, di sicurezza. Il perdono può diventare quella chiave capace di disserrare la porta oltre la quale si dipana il senso misterioso della nostra esistenza.

Troppo spesso ci troviamo ad esigere dagli altri che ci chiedano perdono per il semplice motivo che noi non sappiamo esprimere la domanda, il mistero, che giace in noi e non sappiamo così perdonare a noi stessi. «Nel pensare gli eventi trascorsi noi siamo pienamente giustificati se avvertiamo, talora, sani rimpianti e consapevoli rimorsi. Ma da qui è facile scivolare verso altri sentimenti non altrettanto sani. Così, per esempio, ruminazioni e recriminazioni, ripicche, rancori, rabbie retrospettive e risentimenti, e autorimproveri a lungo rielaborati e reiterati rimproveri verso altri per le cose accadute, o non accadute, e sensazioni oscure di aver diritto a un risarcimento in quanto ingiustamente trattati dagli altri o dalla sorte, o nostalgie di un fantasticato mondo dorato dell’infanzia, sono tutti sentimenti, sempre, assai più negativi che utili».11 La persona che si perdona giunge a non aver più bisogno delle scuse degli altri. Certi disagi, amarezze, piccole insoddisfazioni hanno alla loro base una certa scontentezza verso noi stessi: «ci accorgiamo di non essere mai all’altezza delle situazioni, delle speranze, dei desideri, delle illusioni, e facciamo fatica a perdonarci; per lo più passiamo sopra, cerchiamo di non pensarci, ma non ci perdoniamo».12 Colui che non si perdona si nutre di un’insaziabile illusione di voler essere diverso da quello che è, arde di un desiderio insoddisfatto di diventare qualcosa d’altro rispetto a quello che è, di cambiare la sua storia il proprio passato. «Se esaminiamo tanti atteggiamenti nostri e altrui, ci accorgiamo di fatto che le chiusure di dialogo e i meccanismi di difesa hanno spesso la radice in risentimenti non sanati.

Quante volte ci domandiamo: Perché sono così? Perché faccio cose che non vorrei fare? Perché mi chiudo e non so comunicare? Perché questo disagio e malessere? È  possibile che la risposta stia proprio nella mancanza di perdono, che ci incatena a situazioni passate, di cui abbiamo dimenticato l’origine, o forse è il presente che ci rimanda a situazioni spiacevoli del passato».13

Sulla base del perdono che sappiamo dare a noi stessi siamo in grado di offrire perdono anche agli altri. Quante volte chi ci avvicina ha essenzialmente bisogno di questo: di sentirsi perdonato, radicalmente perdonato. Non per piccole mancanze, per fragilità o debolezze, per piccoli peccati, no. Ma perdonato in profondità di fronte a quel senso di inadeguatezza verso la vita, le attese della vita verso le quali ci sentiamo inadempienti. Perdonare l’altro significa fargli sentire un’accettazione profonda, un’accoglienza del suo essere così com’è. Un dire di sì al fatto che lui c’è ed è qui e che è bello tutto questo.

 

EDUCARE IL CUORE

A CERCARE

 

Vi è un’ultima dimensione cui vorrei ponessimo attenzione quando parliamo di formare il cuore. Si tratta di educare il cuore a “cercare”.

Cercare suppone un aumento di attenzione, un’accentuata scrupolosità nel guardare alla realtà. Vorrei però dare almeno due indicazioni sul significato del nostro cercare.

Quando cerchiamo una cosa che abbiamo perduta o quando cerchiamo una persona tra la folla, la nostra attenzione deve aumentare, facciamo uno sforzo di concentrazione. Immersi nel buio aumentiamo la nostra attenzione per cogliere anche i più piccoli segnali di luce. Allo stesso modo quando la realtà è particolarmente buia, oscura, sprofondata nelle tenebre dobbiamo accentuare lo sforzo per intravedere i minimi spiragli di luce. Questo atteggiamento deve caratterizzare il nostro agire caritatevole. Un gesto è caritatevole nella misura in cui cerca di cogliere le scintille minime di luce che vi sono nella realtà o nelle persone. Non c’è carità senza questo atteggiamento di ricerca della luce che sempre esiste, qualunque sia la realtà con cui dobbiamo confrontarci. Nella cultura ebraica la luce è imprigionata nel buio. Compito dell’ebreo buono e pio è quello di liberare la luce. In che modo? Con le proprie azioni: buone e pie. È la grande responsabilità del perfezionamento della creazione che la religione ebraica affida all’uomo. Il fatto di cercare i segni della luce residua in ogni realtà o persona è già un atto d’amore. Il volontario è simile agli astronomi che passano la vita investigando il buio cercando tracce residue di luce provenienti dalle profondità del cosmo. Ma il volontario anziché essere dotato di potenti telescopi per perlustrare il cielo, indaga la realtà e l’infinito delle persone che incontra con il suo sguardo amorevole, con la potenza che gli viene dalla carità. Si tenga poi presente che la capacità di cogliere la luce presente nella realtà e nelle persone coincide con quel tanto di luce che brilla dentro di lui. Dice al riguardo sant’Agostino: «Una cosa è la luce che gli occhi vedono e un’altra quella che consente agli occhi di vedere. Questa luce che rende manifeste le cose è certamente dentro l’anima». Se arde dentro di noi la luce dell’amore, se il nostro cercare è motivato dall’amore, le altre luci presenti nella realtà e nelle persone che incontriamo si manifesteranno e noi sapremmo coglierle e donare loro evidenza e forza.

Ma cercare significa anche mettersi sulla strada, uscire per andare oltre i limiti della nostra sicurezza, attraversare confini, superare orizzonti, affrontare l’incertezza di territori sconosciuti. Educarsi a cercare significa quindi anche educarsi alla precarietà, al dubbio che il prossimo passo non possa trovare un terreno solido e sicuro, educarsi a rimanere sui bivi della vita perché è là che si incontrano le persone. Il bivio è il luogo dove maggiormente la persona ha bisogno di un aiuto, di un sostegno di un consiglio. Il bivio è luogo della sosta e del ristoro prima di affrontare il nuovo tratto di strada che ci attende. Ed è lì che è importante poter trovare qualcuno che ci rassicuri che ci tranquillizzi sulla via, che ci aiuti a comprendere la “nostra” strada. Cercare quindi significa anche voler stare ai bivi della vita, agli incroci dove si decidono le svolte, ai crocevia dove si definiscono i percorsi successivi. Educarci a cercare significa educarci a confrontare con i dilemmi, i dubbi, le incertezze, le indecisioni che caratterizzano i momenti cruciali dell’esistenza, i momenti in cui la persona ha maggiormente bisogno di una vicinanza amorevole e di una indicazione che nasca dall’amore. Cercare quindi significa porsi sulle tracce di tutti gli smarriti che non hanno più chi li ami, chi li ricerchi, chi li ritrovi.

 

LA PARABOLA

DELLA CANNA DI BAMBÙ

 

Permettetemi di concludere con un racconto che altre volte avrete avuto occasione di ascoltare. Oggi questa favola ci offrirà una luce in più per capire il senso e l’origine del nostro donare e servire.

C’era una volta un meraviglioso giardino, che si trovava al centro di un grande regno. Il padrone del giardino aveva l’abitudine di passeggiarvi nella calura del giorno. Il più bello e il più caro di tutti gli alberi, di tutte le piante e di tutta la vegetazione del giardino, era un certo vecchio e nobile albero di bambù. Anno dopo anno, il bambù cresceva, diventando sempre più bello e incantevole.  L’albero era consapevole che il padrone lo amava e si compiaceva di lui. Un giorno il padrone si accostò impensierito al suo diletto albero, e il bambù, con grande sentimento di affetto e deferenza, piegò la sua poderosa chioma verso terra. Il signore gli parlò e gli disse: «Mio caro bambù, ho bisogno di te».

Il bambù era raggiante di felicità: era venuta la grande ora della sua vita. Rispose: «Eccomi signore, usami pure come vuoi».

La voce del padrone si fece seria: «Bambù, per poterti usare dovrò tagliarti!».

Il bambù tremò da cima a fondo: «Tagliarmi signore? Io, che tu avevi coltivato con il più bell’albero del tuo giardino. No, ti prego, questo no! Usami per la tua gioia padrone ma non tagliarmi!».

«Se non ti taglio non posso usarti».

Nel giardino si era fatto un silenzio profondo. Il vento aveva cessato di spirare. Lentamente il bambù chinò di nuovo la sua maestosa chioma e sussurrò: «Padrone, se proprio non puoi usarmi senza tagliarmi, fa pure di me quello che vuoi e tagliami». E così dicendo gli offrì la sua chioma regale, perché la tagliasse.

Il padrone soggiunse: «Devo però troncarti anche i rami!». «Ah! Signore, risparmiami tale scempio! Distruggi pure la mia bellezza, ma per favore, lasciami i rami e le foglie».

«Se non te li recido, non posso adoperarti», rispose.

Il sole nascose la sua faccia. Una farfalla se ne volò via impaurita.

Allora il bambù bisbigliò: «Signore, troncali e prenditeli pure». E il padrone lo fece.

«Mio bambù – riprese il padrone –, ho bisogno di qualcos’altro. Mi serve il tuo tronco per tagliarlo a pezzi, perché solo così posso davvero usarti».

Allora il bambù piegò il suo tronco divenuto spoglio e, chinandosi fino a terra disse: «Padrone, prendilo e taglia».

Così il signore del giardino abbatté il bambù, prese la sua chioma, i rami e le foglie e infine il tronco, che divise in mezzo.  Poi portò amorevolmente il fusto diviso in due attraverso il deserto sino alla sorgente d’acqua viva, posò cautamente il tronco sul terreno, in modo da imboccarne un’estremità alla fonte e farne sboccare l’altra nel canale di irrigazione scavato nei campi arsi dalla siccità. La limpida e scintillante acqua che sgorgava dalla fonte della vita prese a scorrere attraverso il corpo diviso del bambù e dilagò per i campi riarsi, che tanto a lungo avevano atteso la sua vivificante frescura. Così si poté seminare e piantare. E se ne ricavò un’abbondante messe, che saziò la fame di tanti uomini.

Il bambù, quando era ancora il più bell’albero del giardino, viveva soltanto della propria linfa. Ora, si era dato tutto al suo padrone e si era lasciato fare completamente a pezzi, perfino il tronco. Ma essendo vuoto e cavo, adesso poteva accogliere, proprio in quel vuoto, la pienezza inesauribile dell’acqua viva, e la sentiva scorrere benefica e vitale dentro al proprio corpo. E quantunque non trattenesse quell’acqua per sé ma continuasse a darla via, il suo corpo, sebbene morto, era sempre pieno, colmo di acqua viva.

 

Il segreto del dono e del servizio, l’origine della carità, non può essere altro che la consapevolezza di un amore che ci supera. Non si può donare e non si può servire se non per amore, un amore che ci condurrà, se ne saremo degni, a dare non solo qualcosa di noi stessi, ma tutto intero ciò che siamo, perché solo quando avremo dato tutto potremo dire di aver raggiunto la meta, lo scopo della nostra esistenza. Benedetto XVI nel messaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù del 1° aprile afferma: «Sulla croce Cristo grida: “Ho sete” (Gv 19,28): rivela così un’ardente sete di amare e di essere amato da ognuno di noi. Solo se arriviamo a percepire la profondità e l’intensità di un tale mistero, ci rendiamo conto della necessità e dell’urgenza di amarlo a nostra volta come lui ci ha amati. Questo comporta l’impegno di dare anche, se necessario, la propria vita per i fratelli sostenuti dall’amore di lui. Già nell’Antico Testamento Dio aveva detto: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lv 19,18), ma la novità di Cristo consiste nel fatto che amare come lui ci ha amati significa amare tutti, senza distinzioni, anche i nemici, “fino alla fine” (cf. Gv 13,1).14 In tutto questo dunque la nostra guida è la Croce di Cristo l’unica a renderci capaci di percepire la luce delle stelle dentro l’oscurità della notte, l’unica che ci permette di intravedere il colore dei fiori in mezzo alle dure pietre che coprono le strade della nostra esistenza.

 

Fr.  Carlo Toninello

 

 

1 La presente riflessione è stata tenuta da  fr. Toninello, dell’Opera Don Calabria all’Assemblea ordinaria della Associazione di Volontariato Calabriano “Francesco Perez”, Verona 25 marzo 2007.

2 S. Belardinelli, “Carità e filantropia”, in Livio Melina – Carl A. Andreson, (a cura di), La via dell’Amore. Riflessioni sull’Enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI, RAI-ERI 2006, 270-271

3 Giovanni Paolo II, Sollecitudo rei socialis, 38

4 “…percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?”, Cristina Campo, «Una rosa», in Id., Il flauto e il tappeto, Rusconi 1971, p. 13.

5 B. Petrà, La chiesa dei Padri, EDB, 2007.

6 A. Cencini, Nell’amore,  EDB 1995, 15.

7 Benedetto XVI, Omelia del 10 febbraio 2007.

8 A.M. Sicari, Ci ha chiamati amici, Jaca Book 2001, 101

9 Editoriale, in La Rivista del Clero Italiano 2,. Vita & Pensiero 2007, 85.

10 A. Cencini, “Come rugiada dell’Ermon…”, Paoline 1998, 98.

11 G. Jervis, La conquista dell’identità,  Feltrinelli 1997, 65.

12 Carlo Maria Martini, “Perdono e contentezza”, in Vita Consacrata 5 (1999), 452.

13 S. Cherubini, Il fiume della nostra vita,  AdP-Roma 1998, 43.

14 Benedetto XVI, Messaggio per la XXII Giornata Mondiale della Gioventù, 1 aprile 2007.